sabato 17 novembre 2012

Ecco tutti i 'contestati' premi (e non) della Settima Edizione del Festival Internazionale del Film di Roma

Non del tutto prevedibile, ma comunque discutibilissimi e, in parte contestati, i principali premi della VII edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, tranne, forse, per il meritatissimo Premio Speciale della Giuria ad “Alì ha gli occhi azzurri”, opera prima di Claudio Giovannesi. Certo si tratta sempre di valutazioni e giudizi non solo professionali, ma anche personali, e spesso punti di vista diversi. Non è un caso che ci siano sempre delle discussioni e delle lunghe sedute dei membri della giuria prima dei riconoscimenti definitivi. E bisogna dire che i film di questa edizioni erano non solo eterogenei nella forma e nell'approccio, ma anche in quanto a tecnica, qualità e contenuti. Ecco l’elenco dei riconoscimenti. La Giuria Internazionale presieduta da Jeff Nichols e composta da Timur Bekmambetov, Valentina Cervi, Edgardo Cozarinsky, Chris Fujiwara, Leila Hatami e P.J. Hogan, ha assegnato i seguenti premi: - Marc’Aurelio d'Oro per il miglior film: “Marfa Girl” di Larry Clark - Premio per la migliore regia: Paolo Franchi per “E la chiamano estate” - Premio Speciale della Giuria: “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi - Premio per la migliore interpretazione maschile: Jérémie Elkaïm per “Main dans la main” - Premio per la migliore interpretazione femminile: Isabella Ferrari per “E la chiamano estate” - Premio a un giovane attore o attrice emergente: Marilyne Fontaine per “Un enfant de toi” - Premio per il migliore contributo tecnico: Arnau Valls Colomer per la fotografia di “Mai morire” - Premio per la migliore sceneggiatura: Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue per “The Motel Life” I PREMI ASSEGNATI AI FILM NEL CONCORSO DI CINEMAXXI La Giuria Internazionale presieduta da Douglas Gordon, e composta da Hans Hurch, Ed Lachman, Andrea Lissoni ed Emily Jacir, ha assegnato i seguenti premi: - Premio CinemaXXI (riservato ai lungometraggi): “Avanti Popolo” di Michael Wahrmann - Premio Speciale della Giuria – CinemaXXI (riservato ai lungometraggi): “Picas” di Laila Pakalnina - Premio CinemaXXI Cortometraggi e Mediometraggi: “Panihida” di Ana-Felicia Scutelnicu I PREMI ASSEGNATI AI FILM DEL CONCORSO PROSPETTIVE ITALIA La giuria presieduta da Francesco Bruni e composta da Babak Karimi, Anna Negri, Stefano Savona, Zhao Tao, ha assegnato i seguenti premi: - Premio Prospettive per il migliore Lungometraggio: Cosimo e Nicole di Francesco Amato - Premio Prospettive per il migliore Documentario: “Pezzi” di Luca Ferrari - Premio Prospettive per il migliore Cortometraggio: “Il gatto del Maine” di Antonello Schioppa Menzioni speciali: Cosimo Cinieri e in memoria di Anna Orso per “La prima legge” di Newton IL PREMIO ASSEGNATO ALLA MIGLIORE OPERA PRIMA E SECONDA La Giuria Internazionale presieduta da Matthew Modine e composta da Laura Amelia Guzmán, Stefania Rocca, Alice Rohrwacher e Tanya Seghatchian ha assegnato il: - Premio alla migliore opera prima e seconda: “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi - Menzione speciale: “Razzabastarda” di Alessandro Gassman Hanno partecipato al premio i film appartenenti ad una delle diverse sezioni competitive del Festival: Concorso, CinemaXXI, Prospettive Italia e la sezione autonoma e parallela Alice nella città. PREMIO DEL PUBBLICO BNL PER IL MIGLIOR FILM Attraverso un sistema elettronico, il Festival ha previsto la partecipazione degli spettatori all’assegnazione del Premio del Pubblico BNL per il miglior film. I film che hanno partecipato all’assegnazione del premio sono quelli del Concorso. Il pubblico ha assegnato il: - Premio del Pubblico BNL per il miglior film: “The Motel Life” di Gabriel Polsky, Alan Polsky

Roma Film Festival. A CineMaXXI presentato il "Mundo Invisìvel", un viaggio dal Brasile alla vecchia Europa, raccontato da tredici registi internazionali

ROMA, 17 – Ultimo giorno del Festival, ma non solo di premiazione. Presentati ancora dei film nelle diverse sezioni, ormai fuori concorso, ma sempre in anteprima e/o in chiusura. Nella sezione MaXXI è passato, in anteprima internazionale, “Mundo invisìvel”, il lungometraggio di concezione e regia generale di Leon Cakoff - direttore dalla Mostra Internacional de Cinema de Sao Paolo (Brasile), morto l’anno scorso – e dalla compagna Renata de Almeida, prodotto dalla Mostra stessa e dalla Guillane produzioni. Undici episodi e undici concezioni sull’invisibilità nel mondo contemporaneo in un film formato, appunto, da vari segmenti sotto lo sguardo di vari cineasti.

Una carrellata/viaggio attraverso il Brasile e fino alla vecchia Europa, dal pubblico al privato, dall’arte alle nuove tecnologie. Il primo corto girato è quello di Manoel de Oliveira, “Dal visibile all’invisibile”, passato al Festival di Venezia 2008, e che affronta con ironia e humour la ‘comunicazione’ nel terzo millennio. Due amici si ritrovano in pieno centro di San Paolo, uno portoghese l’altro brasiliano, ma vengono interrotti continuamente dallo squillo del cellulare, tanto che alla fine decidono di telefonarsi per poter chiacchierare in santa pace. Il Brasile è rappresentato da Lais Bodanzky (“Le migliori cose del mondo), “L’essere trasparente”, e dalla coppia Beto Brandt e Cisco Vasquez, “Kreuko”. Il primo è, tra arte e documentario, un’interessante indagine sul lavoro dell’attore tramite interviste a Monja Coen e performance dell’attore Lee Taylor, partendo dal concetto del giapponese Yoshi Oida “sull’attore invisibile”: riesce a fare una grande interpretazione quando lo spettatore non lo vede in scena. “Quando Leon mi ha invitato, era già molto malato, ed io molto commossa – dichiara la Bodanzky alla presentazione - perché ha formato molte generazioni e la Mostra per me è stata il vero incontro col cinema. E mi sono ricordata del lavoro di Yoshi, che ammiro tantissimo, ed è stato per me un grande onore far parte di questo ventaglio di registi/artisti”. Il secondo fa, tra vita e morte, un elogio alla pazzia come ‘genialità”. Ovvero ogni genio porta in sé un po’ di follia.
“Abbiamo girato in casa di Mauricio Paroni – afferma Brant -, che ha lavorato anche in Italia come assistente alla regia, tra amici attori e con tutta la libertà possibile. Un happening dove uno canta, l’altro recita poesie fino alle due/tre del mattino. Mauricio mi ha chiesto di raccontare una storia, ha preso l’iphone e l’ha messo davanti alla sua faccia (è l’introduzione ndr.), poi abbiamo proseguito con delle persone alla ricerca di un luogo dove creare: inconsciamente è questo il mondo invisibile di Mauricio, fotografato da noi, tra realtà e fantasia, cinema e teatro”.
Il sorprendente “Cielo inferiore” è uno degli ultimi lavori del rimpianto Theo Angelopoulos che si inoltra nel sub-mondo del centro e del sotterraneo (la metropolitana, ma non solo) di San Paolo e i suoi abitanti quasi impercettibili, il colori dell’arte delle strade (i graffiti), nella melanconia del mondo esterno senza redenzione e nel peso della coscienza divina (il predicatore). Il suggestivo “Gatto colorato” del canadese Guy Maddin, fotografa il movimento dei visitatori del cimitero della Consolaçao, durante la festività di Ognissanti, in contrasto con le immagini di un gatto nero che vive tra quei muri.
L’italo-cileno Marco Bechis (da “Garage Olimpo” a “Hijos - Figli”) – vissuto anche in Argentina - riscopre un pezzo di giungla amazzonica in piena città. La vegetazione intatta del parco Trianon, in piena Avenida Paulista, infatti, viene riscoperta dagli indios Guarani-Kaiowà in visita nella città. E, quando escono, vengono circondati dai curiosi. “Nel 2008 ero a San Paolo per presentare ‘La terra degli uomini rossi’ (dopo Venezia ndr.) – dice Bechis dopo la proiezione - e Leon mi disse ‘non ti va di fare un corto sul concetto di mondo invisibile?’. E così mi sono ricordato del parco che avevo visto quando andavo a scuola, un pezzo di foresta rimasto lì nell’invisibilità e di tornarci proprio con gli indigeni che vi abitavano. Un incontro magico, bellissimo”.
“I festival servono anche per il confronto tra registi – aggiunge -, tra diversi modi di fare cinema. Oggi non esistono più luoghi dove confrontarsi, dove una volta si discuteva, si litigava anche, ma c’era quello scambio reale che oggi manca. In questo caso, a San Paolo, l’abbiamo trovato e credo sia fondamentale”. Gian Vittorio Baldi, in “Favola - Pasolini a Heliòpolis” parte da un ricordo, quando nel 1968, l’amico Pier Paolo e il produttore volevano filmare la vita dell’apostolo San Paolo nella periferia di una grande città contemporanea. Quarant’anni dopo, Baldi decide di visitare Heliòpolis ed avere contatto con gli abitanti della comunità.
“Pasolini voleva realizzare la vera storia di San Paolo come persona moderna – dichiara Baldi -prima aveva pensato a Berlino, poi a New York, ma dopo l’incontro con Cakoff ho pensato che poteva essere proprio lì, dove la sofferenza e la povertà vengono riscattate dalla spiritualità. Che San Paolo ‘a’ San Paolo diventasse visibile nel mondo invisibile”. L’attore (da Kieslowski a Moretti) e regista polacco Jerzy Stuhr, con “Tributo al pubblico di cinema”, rende omaggio alle platee, filmando un pubblico di una delle sessioni del suo film “Il tempo di domani”, nella 28a. Mostra Internazionale di Cinema di San Paolo del 2004. Attraverso sguardi, gesti e reazioni possiamo osservare come gli spettatori vengono condotti dalla narrativa cinematografica.
L’attrice portoghese Maria de Medeiros firma la regia del gustoso “Avventure dell’uomo invisibile” – unica vera e propria fiction -, dove una colazione portata in un vassoio va avanti lungo i corridoi di un albergo di lusso, tra un tintinnio di piatti. Apre porte di intimità esposte senza pudore sotto lo sguardo di un cameriere, l’uomo che deve essere invisibile e che a volte vede più di quello che dovrebbe. In “Vedere o non vedere”, il giramondo Wim Wenders segue la vicenda di tre ragazzine. Yasmin, Ytamara e Dandara, un tempo, sarebbero andate a una scuola per ciechi ma, grazie al pioniere programma sviluppato dalla dottoressa Silvia Veitsman, del Dipartimento di Oftalmologia della Santa Casa di San Paolo, che insegna i bambini ad utilizzare la visione residuale sin da piccoli, oggi possono frequentare la scuola pubblica.
Infine, in “Yerevan – Il visibile”, l’armeno-canadese Atom Egoyan segue le orme di un giovane che va a Yerevan, capitale dell’Armenia, per recuperare la storia di suo nonno, sparito nel Genocidio Armeno provocato dall’Impero Ottomano quasi un secolo fa. Recatosi nella piazza centrale con un poster e una serie di foto, richiama l’attenzione di un signore che trova tra le foto un vecchio amico morto in quella stessa piazza, durante una repressione divulgata in Brasile. “La nostra generazione si è formata con la Mostra di San Paolo – dichiara il produttore Fabiano Gullane, anche lui presente al Festival di Roma – con cui Cakoff per oltre trent’anni ha fatto vedere film e conoscere registi di tutto il mondo.
Infatti, Leon era amico di tutti gli autori ed è il secondo progetto che abbiamo realizzato insieme a lui e Renata. Tutto è iniziato nel 2004 con un’idea, de Oliveira, Stuhr e una telecamera, ma senza soldi. Abbiamo condiviso la realizzazione per otto anni, poi anno dopo anno abbiamo trovato altri sponsor, altri partner. Ma sono stati tanti i film presentati, sia nella sezione MaXXI sia in Prospettive Italia, tra documentari e fiction, tra cinema d’autore e/o sperimentale. Tra questi tre documentari prodotti da Figli del Bronx e Minerva Pictures, Gaetano Di Vaio e Gianluca Curti, alla cui presentazione ha partecipazione una delegazione di ragazzi di Scampia. Il corto “Ciro” di Sergio Panariello, “Interdizione perpetua” di Gaetano Di Vaio e “L’uomo con il megafono” di Michelangelo Severgnini, sono ambientati proprio a Napoli e dintorni. “Ciro”, infatti, segue le giornate del quattordicenne che vive proprio a Scampia, tra la scuola, la salumeria nella quale lavoro e il campo di calcio dove si allena. Nel quartiere non ha molti punti di riferimento se non il suo allenatore e la diciottenne Anna che conosce da quando era piccola; ma lì abitano anche Lello, un capozona che simboleggia la ricchezza e il successo, un mito agli occhi di Ciro, circondato da persone che lo ammirano e lo rispettano. “Interdizione perpetua” è un paradosso, l’impossibilità di partecipare alla vita della società, vite alla periferia di Napoli, come ci saranno in tutte le periferie del mondo, a cui sembra negato l’accessoa i diritti più elementari: il diritto ad un lavoro, ad un reddito, alla sopravvivenza. Ma a Napoli si cerca di superare le mancanze dello Stato con fantasia, reinventandosi un lavoro, per esempio la raccolta del ferro vecchio. Però anche questo viene considerato ‘un reato’. “L’uomo con il megafono” è quello che - alla vigilia di una delle campagne elettorali più significative per il sindaco di Napoli e dopo alcuni anni passati ‘andando a dormire presto’ -, ritorna alle ‘Vele’ di Scampia e riapre la sede dello storico Comitato degli Inquilini che per trent’anni aveva rappresentato le lotte sociali di chi non si è mai arreso alle logiche di abbandono delle periferie. José de Arcangelo

venerdì 16 novembre 2012

Penultimo giorno per il Festival Internazionale del Film di Roma, sul grande schermo in gara Russia e America, Kira Muratova e i Polsky Bros, "Eterno ritorno: provini" e "The Motel Life"

ROMA, 16 – Ultimi due film in concorso e uno fuori concorso per la penultima giornata del Festival di Roma, in attesa di quella finale di premiazione, domani sabato. “Eterno ritorno: provini” è un divertissement della grande regista russa Kira Muratova. Il ‘ritorno’ è quello della stessa scena (provino in costume) interpretata da coppie di attori diverse, ma tutte ottime, perché si tratta dei più famosi e bravi interpreti del teatro e del cinema russo, ex sovietico, perché quasi tutte al di sopra dei quarant’anni.

Certo, il ‘gioco delle parti’ così ripetitivo non è gradito da tutti gli spettatori però diverte e intriga – grazie anche ad un azzeccato montaggio e al bianco e nero - chi ama la recitazione, le sfumature, le variazioni e i diversi punti di vista dell’arte interpretativa, della messa in scena e del cinema, dall’inquadratura alle ‘tante’ verità/menzogne che ‘rispecchia’ (all’infinito). Divertissement anche per l’iraniana Marjane Satrapi – fuori concorso - che, stavolta da sola, firma una bizzarra commedia “La bande des Jotas” (la j che in spagnolo è ‘jota’), perché è l’iniziale del nome di tutti i membri di una famigerata banda spagnola. Quindi non siamo dalle parti di “Persepolis”, ma nemmeno di “Pollo alle prugne”, anche perché la protagonista è la stessa regista/sceneggiatrice, assecondata da Mattias Ripa e Stephane Roche che sono anche produttore e montatore. Variazione sul tema dello scambio di valige. Gli ignari Nils e Didier raggiungono il sud della Spagna per partecipare a un torneo di badminton, ma arriva anche una donna enigmatica e manipolatrice che, secondo lei stessa, ha dei conti in sospeso con una banda mafiosa spagnola. Quando i tre si scontrano per il classico scambio delle valige, le loro vite vengono sconvolte e sono costretti a restare insieme. E, sfidando ogni probabilità, Nils e Didier si improvvisano veri e propri killer per proteggere la sconosciuta…
L’altro film in concorso è l’americano “The Motel Life” dei fratelli Gabriel e Alan Polsky, dal romanzo omonimo del cantante country Willy Vautlin (Fazi editore), che firmano il toccante – classico – ritratto di due fratelli orfani cresciuti col padre e poi, rimasti soli, da adolescenti in un motel, appunto. Un’opera prima tradizionale nella forma, anticonvenzionale nei contenuti, con qualche inserto d’animazione (riguardo le storie raccontate da uno e disegnate dall’altro), e il cui riferimento è la ‘Nuova Hollywood’ anni Settanta. I fratelli, già produttori indipendenti, raccontano la vicenda di altri due fratelli, Frank (Emile Hirsch) e Jerry Lee (Stephen Dorff) Flannigan vivono nei sobborghi di Reno, nel Nevada, e sono cresciuti aggrappandosi a un grande sogno: abbandonare la loro vita precaria. Ma quando Jerry Lee causa involontariamente un incidente mortale, sono costretti a scegliere se scappare o guardare in faccia la realtà. Fra sacrificio e redenzione, fratellanza, desiderio e speranza. Nel cast una cresciuta e quasi sconosciuta Dakota Fanning, nella parte della ragazza di Frank. Per la sezione MaXXI presentato il cortissimo (2’) “Dreams” di James Franco, una ‘carrellata’ suggestiva e artistica; e il lungo ma non troppo (72’) “Tar” di autori vari (12), ovvero una sorta di jam session biografico-cinematografica tratta dall’omonima raccolta del poeta C.K. Williams, vincitore del premio Pulitzer, e interpretato dallo stesso Franco con Mila Kunis nel ruolo della compagna. Un viaggio nel passato (i ricordi) per riuscire a capire il presente (vivere), al fianco dello
stesso Williams che nel film legge alcune sue poesie. Dal Brasile “Avanti popolo” di Michael Wahrmann, un viaggio nella memoria di un paese in bilico tra passato e presente. André torna nella casa d’infanzia a San Paolo portando solo una valigia, mentre il padre ormai vecchio vive con la sola compagnia del fedele cane, nell’eterna attesa dell’altro figlio partito trent’anni prima per l’Urss e mai più tornato. André si ritrova così a compiere un nuovo viaggio, toccante e ironico, nella memoria della famiglia e del paese, ancora sospeso/diviso tra lo spettro della dittatura e il sogno (comunista) di un mondo migliore, tra la passione per il buon cinema e le canzoni di protesta. Infatti, il film inizia mentre si ascolta alla radio un tema dei cileni Quilapayun (uccisi durante il golpe di Pinochet allo Stadio di Santiago), seguiti da Bella Ciao e Bandiera rossa, da cui il titolo del film. Per poi passare all’uruguayano Daniel Viglietti, anche lui ucciso dal regime militare. Quindi, un viaggio nella memoria, tra filmini in Super8, vecchie fotografie, dischi in vinile impolverati e graffiati, ma senza nostalgia casomai per non dimenticare e rimpiangere, forse, la fine delle ideologie che ha cancellato non solo l’attivismo ma anche la ‘partecipazione’ e la condivisione. Ad Alice nella Città è passato l’unico film italiano in concorso, anzi in programma,
“Pulce non c’è” di Giuseppe Bonito, un dramma famigliare intorno ad autismo e pregiudizio, dubbio ed eccesso di zelo. ‘Pulce’ ha nove anni, due occhioni vivaci e ascolta solo il tango, ma non parla perché è autistica, ma non significa che non abbia niente da dire, anzi. Un giorno viene portata via dalla sua famiglia senza spiegazioni, poi tutto lascia supporre che si sospetti che sia stata vittima di abusi… Il principale indiziato è il padre, apprezzato medico, però non tutto è come sembra. Un argomento serio che spesso viene affrontato con posizioni estreme, sottovalutato o sopravalutato, rischiando di assolvere il colpevole e punire un innocente. Su una situazione simile, il danese “Il sospetto” di Thomas Vinterberg, un solido e intenso dramma, premio per il miglior attore (Mads Mikkelsen) a Cannes, e tra poco nelle sale italiane. Presentato anche in questa sezione un altro film brasiliano, “My Sweet Orange Tree” (Il mio dolce albero delle arance) di Marcos Bernstein. Quarto di cinque figli di una famiglia operaia, Zezé ha sette anni, l’amicizia con un anziano straniero e il suo ‘dolce albero delle arance’, compagno di mille fantavventure che lo aiuteranno a diventare un futuro scrittore. Una pellicola in bilico tra fiaba e commedia, tra ricordi d’infanzia e storie inventate. José de Arcangelo

giovedì 15 novembre 2012

Senza gloria e senza infamia i film in concorso "E la chiamano estate" e "Un enfant de toi". Ma diverte Roman Coppola e ritrova la sua vena artistica Johnnie To

ROMA, 15 – Presentata ieri, non senza polemiche, anzi, l’opera terza di Paolo Franchi “E la chiamano estate” con Isabella Ferrari e Jean-Marc Barr. Un dramma esistenziale, dilatato (nonostante duri solo 89’) e persino snervante per il pubblico - inclusi gli addetti ai lavori -, su un’ossessione d’amore da una parte e di sesso dall’altra: ritratto di una coppia che si ama ma non trova l’equilibrio tra sentimento (spirituale) e desiderio (fisico), perché il loro amore non è ‘completo’.Però, purtroppo,il film sembra una sorta di ‘terapia’ per l’autore stesso e non per lo spettatore, almeno non per tutti.

Dino e Anna sono una coppia quarantenne, ma la loro non è una relazione convenzionale, anche perché non c’è stato mai un vero rapporto fisico. Lui si sottrae soddisfacendo la sua sensualità con prostitute e scambisti; lei non è in grado di trovare una soluzione, non sa e non vuole mettere fine a questo tormentato rapporto. Irrinunciabile storia d’amore o amore impossibile? La sofferenza di Dino fa sentire Anna profondamente amata, unica, ma tutto resta sospeso… anche il film. Dispiace perché Franchi aveva folgorato, non solo noi, con la sua opera prima “La spettatrice”, un po’ meno con “Nessuna qualità agli eroi”. Non basta osare e provocare, tra nudi integrali anche maschili e qualche flash ‘porno’, per coinvolgere lo spettatore, dato che la vicenda non è originale e sembra piuttosto personalissima e angosciante, tanto da spingere lo spettatore a pensare (e urlare come successe anche all’anteprima) “chi se ne frega”. Inoltre, anche i dialoghi non sono all’altezza della situazione, tanto da risultare in certi casi persino ridicoli. Meglio tacere, e stavolta vale anche per noi.
Nel cast anche Luca Argentero, in ruolo pseudo cameo, Filippo Nigro, Eva Riccobono, Anita Kravos, Jean-Pierre Lorit e Christian Burruano. Oggi invece è toccato al francese Jacques Doillon che con “Un enfant de toi”, ha rischiato anche lui di innervosire non solo il pubblico che non ama il cinema francese, intimistico e/o sentimentale. Una storia sviluppata – se volete stiracchiata – per due ore e venti minuti. Un racconto che rimanda al cinema dei cari amati ‘zii’ della Nouvelle Vague, in primis Eric Rohmer – il quale però aveva il dono della ‘concentrazione’, soprattutto negli ultimi vent’anni -, poi François Truffaut e Jacques Rivette che però aveva sposato per un periodo il ‘cinema verità’.
All’età di sette anni, Lina inizia a farsi delle domande sui genitori, amati ma divorziati. Si incontrano segretamente? Presto ne ha la prova e addirittura, all’improvviso, la madre le annuncia che vuole un altro figlio. Quasi che lei non bastasse più e, comunque, chi sarebbe il padre del futuro bambino? Suo padre o l’amico della madre? Come potete intuire una storia simile potrebbe essere raccontata persino in un cortometraggio, perché il cinema non è (sempre) vita vissuta, casomai – come diceva qualcuno – la morte al lavoro. Certo, non annoia chi ama seguire le storie racconte con garbo e interpretate con freschezza, incluso dalla piccola Lou Doillon, figlia dell’autore, con Samuel Bechetrit, Marilyne Fontaine, Malik Zidi e Olga Milshtein. Brevissimo e divertente invece “A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III”, opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis Ford, anch’essa in concorso. Una commedia eccentrica e scoppiettante, un po’ cinefila come la precedente e sempre ambientata intorno al mondo del cinema. Charles Swan III ha tutto quello che si può desiderare: fama, denaro e un fascino diabolico che gli assicurano una vita apparentemente bella e felice. Ma quando la bella e imperscrutabile Ivana decide improvvisamente di lasciarlo, Charlie resta col cuore infrante e intraprende un demenziale percorso di autoanalisi nel tentativo di rassegnarsi all’idea di una vita senza Ivana. Anche qui un bel cast capeggiato da un inedito Charlie Sheen, Jason Schwartzman, Bill Murray, Katheryne Winnick, Patricia Arquette, Aubrey Plaza, Mary Elizabeth Winstead. Infine, il secondo film a sorpresa del concorso che, tra polemiche e altro, è passato quasi in secondo piano, nonostante il curriculum del regista Johnnie To (Kei-fung), da vent’anni autore di punta di Hong Kong e spesso invitato al Festival di Venezia. Il suo “Duzhan” (Drug War) forse non sarà tra i suoi migliori, anche se ritorna al genere che l’ha fatto diventare un regista di culto: il gangster movie. Inoltre, con il collega e co-sceneggiatore, affronta in modo inedito per la Cina continentale il tema del traffico della droga.
Il cinico trafficante Ming si schianta in macchina contro un negozio, mentre un incidente provoca l’esplosione del suo laboratorio dove si elabora la droga. Si salva, ma la moglie e il cognato sono morti dentro la fabbrica. Il funzionario di polizia Lei, intelligente e astuto, prova a rintracciare gli altri criminali offrendo a Ming l’opportunità di ridurre la pena, anzi di evitare la condanna a morte. Il boss accetta di aiutarlo tradendo i suoi fratelli e amici, ma non tutto andrà come previsto… Girando per la prima volta nella Cina Popolare – interamente a Tianjin -, Johnnie To ritrova la vena artistica che più gli si addice e, aggiungendo una buona dose di cinismo, evita persino la censura, rivelando i retroscena di un traffico che nemmeno il gigante d’oriente riesce a controllare. Chi ama il suo cinema, complesso e visionario, non verrà deluso; gli altri forse. Però nella sezione Prospettive Italia vengono presentati diversi documentari su vari argomenti, dal cinema ai problemi sociali, da personaggi pubblici come Berlusconi a registi come Giuliano Montaldo, Giuseppe Tornatore e Carlo Verdone.
Godibile tanto quanto i suoi film è, infatti, “Carlo!” di Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni che è in realtà una bella intervista intervallata da spezzoni dei suoi film, dalle sue storiche partecipazioni a trasmissioni televisive e da testimonianze che ricostruiscono la sua carriera, tra passato e presente, ricordi e autoironia. Quindi, il cinema di Verdone visto da dentro, raccontato anche dagli attori, le attrici, i collaboratori, gli amici, la famiglia, le strade e le voci di Roma, e persino dalla casa in cui è cresciuto (‘raccontata’ anche in un libro). Da Ponte Sisto a Ostia, dal Centro Sperimentale a Cinecittà e oltre. Si ricorda e si ride, si riscopre e si rivede un attore/regista amato ormai da diverse generazioni perché i figli – come lui stesso - nel frattempo sono diventati genitori oppure nonni. Il regista di “Venti sigarette”, Aureliano Amadei torna al documentario con “Il leone di Orvieto”, scritto con Alessandro Falcone e Gian Piero Palombini, ma stavolta sui toni della commedia popolare. Partendo da un personaggio storico ricostruisce e restituisce i fatti che portarono ad una delle più grandi serie di crack finanziari degli anni Novanta, ovviamente intrecciata con la passione per il cinema che i nuovi colletti bianchi dimostravano. Infatti, Giancarlo Parretti – il protagonista -, è un colletto bianco però atipico. Nato a Orvieto in un’umile famiglia, inizia a lavorare molto presto. Da lavapiatti, dalla scarsa scolarizzazione ma dalle grande ambizioni, fatica non poco negli anni ’60 finché arriva l’occasione, e così dal ristorante passa alla serie di investimenti in Sicilia, a Siracusa e Noto. E c’è chi dice che Parretti vi fosse arrivato al servizio del senatore democristiano Graziano Verzotto, eminenza grigia di molti degli affari siciliani anni ‘50/’60. Lui dice di essere stato soltanto un socio, da cui rileva il Siracusa Calcio quando Verzotto, indagato nel crack Sindona e nell’omicidio di De Mauro, subisce un attentato mafioso e inizia una ventennale latitanza. Apre una rete di quotidiani locali e frequenta i vertici del Partito Socialista rivelandosi un imprenditori spregiudicato, ma per i suoi quotidiani viene arrestato per bancarotta documentale e per il Siracusa Calcio per frode fiscale. Non si impressiona più di tanto, visto che uscito di galera si ricostruisce una carriera a Milano, città di Bettino Craxi, negli anni ’80. Dopo una serie di scalate finanziarie sorprendenti quanto improbabili col nuovo socio Florio Fiorini, pioniere della finanza creativa, ex dirigente finanziario dell’Eni, e aiutato dai partiti socialisti europei, Parretti inizia a frequentare l’alta società internazionale e torna a togliersi qualche sfizio. Si lancia nel mondo del cinema, settore considerato strategico da europei e americani, compra la multinazionale Cannon Film, la spacchetta e vende le sale e i titoli della library. E’ Berlusconi a comprare le une e le altri, e in uno scambio poco chiaro di titoli che l’ex presidente Farina, in fuga, lasciava vacanti, Parretti risulta aver venduto a Berlusconi anche il Milan. Qualcosa di simile realizza anche in Francia, con la Pathé di Parigi, per finire con la scalata alla Metro Goldwin Mayer. Il suo sogno di ‘conquistare’ la celebre casa di produzione si avvera, ma travolge e affonda il francese Credit Lyonnais, però nel frattempo sforna una trentina di film tra cui “Thelma & Louise”, “Rocky V”, “La casa Russia” e “Urlo nella notte”, oltre il 17° 007 della serie. Passata nelle mani della banca, la MGM in fallimento viene ricomprata dallo stesso Kerk Kerkorian Fiorini, da parte sua, nel tentativo di prendere la MGM, causa la più grande bancarotta della storia della Svizzera e finirà in carcere per quattro anni. Parretti, invece, si batte per anni, riuscendo quasi ad evitare la galera. Alla fine trascorre soltanto 15 giorni in cella, in Italia, per un reato minore. Abita in Umbria, sempre a Orvieto, ma in un palazzo medievale di fronte al Duomo, e dalla terrazza del suo pied a terre di Roma, vent’anni dopo, minaccia di aprire un parco a tema vicino Roma, probabilmente con soldi degli Emirati Arabi. “S.B. Io lo conoscevo bene” di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella ricostruisce, invece, in meno di un’ora e mezza, gli ultimi trent’anni di Silvio Berlusconi, partendo dai precedenti. Da intrattenitore di navi da crociera a imprenditore di successo, e infine Primo Ministro d’Italia. In un certo senso ‘dalle stelle alle stalle’, perché la sua carriera (politica) si interrompe proprio quando sembrava essere a un passo dall’ufficio di Stato più alto e ricercato, il Quirinale. Quindi, precedenti, cause e conseguenze di vent’anni di storia italiana, con testimonianze, tra critiche e osanna, tra accuse violentissime e sostegni impensabili. Il tutto con materiale di repertorio e attraverso interviste, da Vittorio Dotti, avvocato personale ed amico, a Paolo Pillitteri, giornalista ed ex sindaco di Milano; da Giuliano Ferrara a Paolo Guzzanti, entrambi diventati - dopo anni di socialismo e/o comunismo - sostenitori di SB. In questo modo viene riletto e ridipinto il ritratto dell’uomo che ha diviso il (nostro?) Paese in due. “Pezzi” di Luca Ferrari è invece un ritratto, anzi una serie di ritratti della periferia romana, nato come reportage fotografico e diventato un documentario sulla/nella ‘bisca’, il bar gestito da Massimo detto ‘er Pantera’. Due stanze al Laurentino 38, tra alcolici e slot machine. Un ritrovo per molti, emarginati e non, ma soprattutto un crocevia di storie, dallo stesso Massimo a Bianca, Stefano, Rosi, Giuliana e gli altri. Tra risate e litigi, dolore e gioia, storie quotidiane di uomini e donne con un passato troppo duro da dimenticare, dato che il presente non è poi molto meglio. Vittime della droga, dell’alcol, del cancro e di una guerriglia quotidiana, tra di loro, con i figli e con gli altri. Un eterogeneo gruppo sociale senza speranza né futuro, forse. José de Arcangelo

mercoledì 14 novembre 2012

"Se vuoi farcela, non mollare mai" parola di Sylvester Stallone, protagonista insieme a Walter Hill del Festival del Film di Roma

ROMA, 14 – Il personaggi della giornata del Festival di Roma sono stati naturalmente Walter Hill e Sylvester Stallone, rispettivamente regista e protagonista di “Bullet to the Head”, presentato in anteprima in occasione del premio Maverick Director Award, all’autore de

“I guerrieri della notte” e “48 ore”. Il suo nuovo film d’azione è sempre coinvolgente, non mancano certo azione e sparatorie, ma stavolta è pervaso da un’intelligente ed efficace autoironia che lo rende anche gustoso e divertente. “Non credo che si tratti del tipico film d’azione – esordisce Hill -, dato che in ogni film si cerca di essere speciale. Quando Brian (Kavanaugh-Jones, produttore esecutivo ndr.) mi ha chiamato per chidermi di dare un’occhiata alla sceneggiatura, mi ha parlato della possibilità di farlo insieme a Sly. Mi è piaciuta la storia perché è in grado di rendere omaggio a un certo tipo di film d’azione anni ’70-’80, essendo allo stesso tempo moderna. Il film è stato forgiato, sempre in questa direzione, strada facendo ed è stato un piacere lavorare con un grande attore dalla forte personalità. Ed è stata l’unica volta che ho lavorato con una star che è anche regista, perché dieci film sono tanti. I nostri film non dipendono dagli effetti speciali ma dal carattere degli autori e da quello che vogliono raccontare”. “Rocky e Rambo sono personaggi di gran peso – ribatte Stallone -, miti per generazioni, perciò ho cercato di combinarli in un unico personaggio, Rocky è positivo e ottimista simbolo del sogno americano, Rambo è cupo e pessimista, in parte negativo. E’ stata un’ottima transizione creare un nuovo personaggio”.
“Allora io amavo loro e loro amavano me – prosegue su Hollywood – ma avevamo fatto ‘Rocky’ e non mi avevano ancora pagato. Io dicevo il film è costato 800mila dollari e ne avete incassati dieci volte’ e loro rispondevano ‘torna a lavorare che ti pagheremo quando ci va’. E’ business non una love story, per fare un film devi superare tanti ostacoli, e farli mi ha insegnato che Hollywood non è una fabbrica divertente né felice. Però c’è un fatto positivo: col duro lavoro e nel caos viene fuori la creatività. Ma devi contare solo su te stesso”. “Il film è adattato da una storia a fumetti francese – afferma lo sceneggiatore, l’italiano Alessandro Camon, nomination all’Oscar e Orso d’Argento a Berlino per “The Messenger” -, tratto da ‘Du Plomb dans la Téte’ di Matz e Wilson. Una storia molto forte e interessante, già ambientata a New Orleans, di cui sono rimasto accattivato, soprattutto dei dialoghi. Nel film c’è molto lavoro di Sly e Hill. Ma l’ispirazione è proprio ‘48 ore’, appartiene alla categoria dei Buddy Buddy Movie che, nel tempo, si è deteriorata. Nell’originale tutti i due lavorano dalla stessa parte ma con motivazioni diverse; qui invece c’è un conflitto di stile perché si trovano in lati opposti della legge, tanto che potrebbero ammazzarsi fra di loro, ma lo scopo è comune”. Infatti in “Bullet to the Head” Stallone è il sicario Jimmy Bobo che si allea col detective di Washington D.C. Taylor Kwon (Sung Kang, del serial ‘Fast Five’) per riuscire a catturare il killer dei loro rispettivi partner di lavoro. “La cosa principale è lavorare con un paio di verità brutali, ma io ho avuto anche un’opportunità che non avevo da anni, fare un film del genere. Non si tratta di un esperimento, anche se ormai siamo abituati a film d’azione giganteschi. Una metà è fiction, l’altra personaggio, e poi c’è l’intervallo intimistico (Bobo/Stallone ha una figlia ndr.). L’azione ha confini delimitati e l’ho già dimostrato in passato.
Ora mi interessava la natura della personalità, ironica, umoristica. E, a sua volta, lo sguardo ironico dipende dalla nostra personalità”. “La differenza è come quella tra una scarpa fatta a macchina e l’altra a mano – chiosa Stallone -. Il nostro è un film fatto mano, dove si impara dagli errori. I dialoghi possono intrattenere o divertire, e l’umorismo che ne viene fuori è affascinante, soprattutto quello scaturito dai contrasti fra personalità diverse. La vicenda di due che all’improvviso sono costretti a saltare, fare a pugni o sparare”. “Sono ancora convinto che il western sia il modello ideale di film – afferma Hill -. Il trucco è che il mondo somiglia molto al western in cui ci sono luoghi inventati, perché si tratta sempre di narrazione. Il compito più difficile è creare un mondo inventato, attraverso una finta narrazione, che risulti credibile. Perché la fiction non deve allontanare il pubblico ma attirarlo, così bisogna renderla credibile. Il nostro è un western dove Sly anziché sul cavallo va sulla Ferrari”.
“Mi chiedo anch’io cosa facciano gli attori gli attori quando non lavorano – riprende Sly -, giocano col cane, cucinano o dipingono? Ma devono mantenere in forma la macchina, e io lo faccio passando il tempo ad inseguire le mie figlie dentro casa. Dopo Rocky e Rambo, oggi mi ritrovo circondato da donne: una moglie, tre figlie, una cuoca, una domestica… e persino i cani sono femmine”. “L’incontro con Woody Allen mi ha cambiato la vita – continua sul debutto in piccoli ruoli -, nel ‘Dittatore dello stato libero di Bananas’, io e un mio amico dovevamo fare due teppistelli in metropolitana, ma quando ci ha visti Allen disse ‘non fanno paura’. Io avevo deciso di lasciar perdere, mentre l’altro non era d’accordo, allora ci siamo messi della vaselina sulla faccia, ci siamo un po’ sporcati e siamo tornati: ‘Facciamo paura adesso?’ e ci siamo riusciti. Perciò dico mai mollare, mai mollare ragazzi”. “Io non parlo a Hollywood – dice il regista – ma alle persone alle quale piacciono le storie e la violenza fa parte del ‘racconto letterario’ fin da Omero, perciò non è né trita né ovvia. La completezza della storia ci da piacere perché riguarda la nostra vita, siamo in buone mani. Se pensate bene tutte le storie sono violente, anche ‘Cime tempestose’, persino le storie d’amore”.
“La violenza piace e il sesso fa paura – ribatte Stallone sul cinema americano -, dov’è il problema? Sono anni che si continua a uccidere con ‘armi amichevoli’. Il mio antico rivale Schwarzenegger? E’ come Annibale, un vecchio caro amico. Uomini come Rambo non possono andare in pensione, lui dice di lottare per il suo paese e quindi non può mai smettere. Personaggi come lui hanno bisogno della guerra, anche perché non ha una casa dove tornare, e cerca di morire in maniera gloriosa. Ho un’idea per un prossimo film, Rambo che combatte con… l’artrite. Speriamo, potrebbe tornare magari nei panni di una ragazza, Rambolina. Non è stata detta l’ultima parola”. E l’attore-regista nel suo passaggio romano ha incontrato i ragazzi di Tor Bella Monaca a cui ha parlato della sua adolescenza a New York, in un quartiere molto simile e ha detto anche a loro di non mollare mai, nemmeno quando si sbaglia, se vogliono raggiungere, se non proprio il successo, il loro obiettivo/sogno. José de Arcangelo

martedì 13 novembre 2012

Roma Film Fest. Il cinema d'autore viene da lontano, dal Messico alla Russia passando per gli States

ROMA, 13 - Da Locarno - dove ha vinto nel 2008 con "Parque via" - a Roma, dall'opera prima alla seconda, approda al Festival Internazionale del Film di Roma il messicano Enrique Rivero con "Mai morire", un dramma esistenziale, tra vita e morte - entrambe celebrate in ugual misura dal popolo messicano -, appunto, che rievoca atmosfere e tradizioni ancestrali di una civiltà millenaria attraverso un intenso ritratto di donna.

Chayo ritorna a Xochimilco - la Venezia degli aztechi -, sua città natale, per prendersi cura dell'anziana madre ormai centenaria. Circondata dall'amore e dalla maestosa bellezza della natura, lei deve rinunciare a ciò che per una donna e madre è inalienabile, ma anche al lavoro a Città del Messico. E' il prezzo che dovrà pagare per essere libera di nuovo e, forse, per sempre. Un viaggio attraverso sentimenti e poesia, percezioni e conflitti; dalla dura lotta quotidiana alla liberazione dai legami di questo mondo. Un dramma d'autore a tutti gli effetti, ovviamente non un film di genere né tantomeno d'azione. E uno dei probabili candidati al Marc'Aurelio d'oro. Altri film d'autore in concorso sono stati presentati tra domenica e lunedì, ma siamo stati impossibilitati di parlarne, travolti da incontri con gli autori, altre proiezioni, eventi e/o la presentazione dei film italiani. Un film in gara è "Spose celesti dei mari della pianura" del russo Alexey Fedorchenko, già autore dello splendido "Silent Souls", uscito nelle sale italiane mesi fa. Stavolta anziché una vera e propria sceneggiatura, si tratta di una raccolta di ritratti, se vogliamo di racconti brevissimi, per una sorta di film 'alfabeto' dall'andamento fiabesco che, a tratti, riporta in mente il "Decameron". Sono 23 le microstorie sulle donne del popolo Mari, un vero album tra magia e realismo, poesia e arti visive, in cui la loro terra (la regione autonoma dei Mari) fa da sfondo alla storia corale di un popolo dalle antiche tradizioni. Un viaggio in una zona di mondo sconosciuta ed enigmatica che "se non fosse guidato da un uomo sarebbe il primo film del realismo magico femminista post-sovietico". Suggestivo, a tratti sorprendente e/o intrigante. Per chi è ancora curioso della vita nei luoghi più sconosciuti (per noi) e delle sempre nuove e diverse possibilità del cinema. Ha diviso la critica, invece, "Marfa Girl" dell'indipendentissimo Larry Clark che stavolta porta all'esasperazione il suo stile documentaristico, volutamente scarno e privo di azione, dilatando i tempi del racconto e soffermandosi sulle scene di sesso. Un racconto di formazione a base di sesso – appunto -, droga, rock'n'roll, arte, violenza e razzismo in una sperduta cittadina del Texas. A Marfa, i conflitti etnici sono acuiti dall'insediamento sul territorio di un'eccentrica comunità di artisti. La polizia di frontiera è una presenza asfissiante per i cittadini. L'adolescente Adam vive con la madre e ha una storia con la coetanea Inez. Donna, la vicina di casa, è determinata a sedurlo; mentre il poliziotto, tra razzismo e paranoia, Tom ha una strana fissazione per la famiglia del ragazzo, tanto da perseguitarlo. E, a complicare le cose, arriva una misteriosa giovane pittrice... Una storia non nuova per raccontata in modo da far ‘sentire’ allo spettatore il disagio delle persone/personaggi e lo squallore in cui sono costretti a (soprav) vivere. In collaborazione con Alice nella città sono state presentate le anteprime di due gustosi cartoni animati di prossima uscita come “Ralph Spaccatutto” di Rich Moore, il film di Natale della Disney, e “Rise of the Guardians / Le 5 leggende” di Peter Ramsey, nelle sale dal 29 novembre. José de Arcangelo

lunedì 12 novembre 2012

Al Festival di Roma, Michele Placidoregista delude col polar "Il cecchino" con Auteuil e Kassovitz; Pappi Corsicato seduce invece con la commedia "Il volto di un altra" con la coppia Chiatti-Preziosi

ROMA, 12 - Se Michele Placido regista delude con il noir, anzi col polar franco-italiano, Pappi Corsicato conferma il suo stile e il suo gusto narrativo in una corrosiva commedia sofisticata volutamente gotico-kitsch. Infatti "Le guetteur" (Il cecchino) non 'prende' lo spettatore offrendo uno spettacolo di 'normale amministrazione', quindi solido mestiere, un bel cast e buon sostegno tecnico. Come si dice 'si lascia vedere' senza gloria e senza infamia.

Forse la cosa più debole è la sceneggiatura di Cédric Melon e Denis Brusseaux che mette troppa carne sul fuoco - dall'Afghanistan all’insospettabile serial killer -, togliendo suspense e brivido, a un poliziesco dalla struttura classica, tradizionale, ma aggiornata e corretta. Naturalmente, meglio quelli anni Settanta, firmati da artigiani di lusso quali Jacques Deray, Henri Verneuil e José Giovanni, che avevano come potagonisti Delon, Belmondo o Ventura. Per non parlare del grande Melville e C. La storia, come dicevamo piena di 'particolari' e zeppa di personaggi, gira intorno alle indagini su un misterioso cecchino che spara contro i poliziotti, durante una rapina in banca, proprio quando il capitano Mattei (un Daniel Auteuil sottotono) sta per arrestare la famigerata gang. E così vengono fuori rapporti impensabili, particolari che collegano diversi criminali ma anche i poliziotti. Se le intenzioni erano quelle di fotografare la discesa agli inferi, fisica e psicologica degli uomini (personaggi), e contemporaneamente fare una riflessione sui recessi dell'animo umano e i sempre più impalpabili confini che separano bene e male - come anticipano gli autori -, il film non fa centro, perché tutto resta in superficie. Oltre Auteuil, c'è un sempre efficace Mathieu Kassovitz (Vincent Kaminski), Olivier Gourmet (Franck, il dottore), attore feticcio dei fratelli Dardenne; Violante Placido (Anna), Luca Argentero (Nico), Francis Renaud (Eric) e lo stesso Michele Placido. Partecipazione/cameo amichevole di Fanny Ardant (Barbara).
Corsicato, invece, ne "Il volto di un'altra" seduce con le immagini e le atmosfere, diverte con scene da acida satira e sana cattiveria, e coinvolge con situazioni e personaggi che rimandano al cinema da lui amato e non solo. "Il film vuole raccontare il gusto anche morboso di seguire le storie - esordisce il regista -, perciò riporta in mente "L'asso nella manica" di Billy Wilder che, in questo senso, è esemplare; ci sorprendiamo ancora delle cose che sono state raccontate già tempo fa. Il finale è molto aperto perché ognuno possa cogliere un'interpretazione. Forse la protagonista è più stronza e carica di prima; oppure si è rigenerata, tanto che ha visto il cerbiatto, è diventata santa, ma poi riceve l'ultima bastonata e ne esce incolume segno che è più cazzuta. Un po' di compiacimento sul come ci comportiamo e/o affrontiamo in questi casi. Buona, cattiva o meno, Bella continua ad andare avanti".
"Ho grandi dubbi - prosegue - non ho una risposta sul finale, forse c'è speranza. In primo luogo volevo divertirmi e che il film arrivi alle persone, mi piaceva l'idea aulica di prendere coscienza di un lato positivo della vita: una che si salva o non si salva? Non saprei. L'unione con la natura, con i propri sentimenti e l'umanità ma, forse, non è così". "L'idea di usare il bianco e nero è venuta per caso - rivela -, per svelare che di mezzo c'è la finzione, mi sembrava adatto alla storia e al personaggio. Le mie citazioni sono spontanee, casomai di tutto il cinema". "E' difficile interpretare personaggi come questi - confessa Laura Chiatti -, ma amo potermi mettere in gioco, mai interpretato donne esistite, riguarda un cinema lontano da Pappi, una recitazione realistica e anche naturalistica. Ma io non ho una preparazione teatrale, vado ad istinto, mi piace entrare in un determinato personaggio con chiavi anche diverse, non lo giudico, l'affronto senza retorica né moralismi né pregiudizio. Bella è ambiziosa non vuole mettersi in secondo piano, ma il fatto di non avere più un volto le fa scoprire un certo potere; è molto contaminata dall'ambiente in cui vive, e ad un certo punto pensa di redimersi, ma alla fine non la pensa così".
"E' bello poter fare un ruolo non naturalistico - ribatte Iaia Forte -, visto che spesso ti chiedono naturalismo. Mi divertiva interpretare una suora, garante di una certa etica e comportamento, che in realtà è cattivissima, ruba, ricatta, corrompe". "Bella è una che prende delle decisioni, propositiva - sostiene l'autore -, mette in azione delle cose, da questo punto di vista sembra sì eroica. Il personaggio di René, invece, è molto più semplice e, paradossalmente, realistico perché i pseudo dottori, chirurghi plastici, sono abbastanza verosimili: abbronzati e affascinanti. Penso che esistano, anche la letteratura è piena di personaggi così, e il film è molto legato alla realtà contemporanea". "Il personaggio di René è ciò che ci sembra scontato - ribatte Alessandro Preziosi -, azzardato come casella cinematografica, esasperato dalla realtà. Fa da contrappunto all'universo femminile, che deve creare un'altra immagine da sé. Ci chiediamo quanto riesca ad essere affascinante una donna quando esce, ma non ce lo chiediamo mai degli uomini. René è in opposizione alla donna, uno spunto di riflessione sull'inadeguatezza dell'uomo, sul lavoro, nel concetto del bello".
"Bella vuole essere, apparire - chiosa la Chiatti -, i due personaggi non sono in contrapposizione, ma la stessa cosa. Il raggiungimento delle cose, le ambizioni, se non ci si afferma come attore, oggi per le nuove generazioni è come non affermarsi per niente. Invece, io invidio quelli che hanno una famiglia e sono felici. Nel nostro campo se non sei attenta alla perfezione alla fine lo diventi, perche ogni volta che ti 'beccano' ti massacrano. Ho un aneddotto carino da raccontare, mentre recitavano in alta montagna portavo sempre tacchi altissimi perché non sono alta, e la costumista mi ha chiesto se volevo le ballerine e io ho risposto 'preferirei donare un rene' e Pappi ha preso la battuta per il film. Non so se è snobbismo o figaggime, ma non avendo un'altezza media preferisco i tacchi a spillo. Sono molto libera e rispetto la libertà altrui, credo di essere la più sincera, non mi piace l'abuso di qualsiasi cosa, non mi piace la chirurgia che riesce travolgere una persona, e poi vedi in giro certi 'mostri'. ho deciso solo di ritoccarmi il seno, dopo il film, visto che il lavoro mia aveva risucchiata e avevo perso qualche chilo. Niente di più".
"Laura non ha quel vezzo di guardarsi allo specchio e sentirsi figa, non considerare la propria estetica è molto importante per chi dirige, ma anche per gli attori stessi. Per un regista è molto buono perché 'rompe' meno di altri. In realtà volevo un film gotico, del tipo da castello austriaco, dall'aria un po' incantata, dato che in Alto Adige ancora vestono come in costume, a parte la natura meravigliosa, il paesaggio è fiabesco, gotico, austroungarico. Anche il Piemonte è meravigliose, ma li c'è quel vizzo, quegli squarci". "Per chi ama al cinema - conclude Corsicato su citazioni e rimandi - c'è tutto, anche 'occhi senza volto' e non solo cinema, ma anche arte, fotografia, moda e sempre con ironia e leggerezza.". José de Arcangelo

domenica 11 novembre 2012

RFF. Dopo il "1942" cinese, è nata una dattilografa! Si chiama Rose ed è diventata "Populaire"

Un solido e sobrio kolossal storico, un costoso e monumentale film di guerra per niente noioso e ben congegnato che intreccia diverse storie e le racconta parallelamente attraverso diversi punti di vista, evitando retorica e propaganda. Si tratta del cinese "Back to the 1942" (in Italia semplicemente "1942") di Feng Xiaogang, presentato come primo film sorpresa del concorso ufficiale del Festival di Roma.

"Questa storia non è conosciuta nel mondo ma nemmeno in Cina, ormai si sa tutto sul milione di ebrei morti durante la guerra, ma niente sui 3milioni di vittime della carestia. E la maggior parte dei cinesi non lo sa, perciò questa memoria va ritrasmessa. Ho letto libro nel '93 e ne rimasi scosso, tutti dicevano è impossibile farne un film perché scritto come inchiesta senza trama né personaggi, ma se si tratta di trasformare una cosa possibile in un'altra possibile non c'è divertimento. Invece, una cosa che sembra impossibile che diventa possibile è una bella sfida. Ci sono gli ‘intelligentoni’ che si riuniscono in una stanza per trovare una soluzione; poi ci sono gli imbranati che non fanno un percorso intelligente, ma provano tutte le vie per abbandonarle man mano finché scelgono la migliore. Ho detto noi siamo tra gli ultimi imbranati, andiamo avanti su questa strada e pian piano abbiamo trovato la storia di questi sfollati. Ci abbiamo provato tre volte a realizzarlo, una nel 2000, la seconda nel 2002, la terza nel 2004, ma solo nel 2010 siamo riusciti a trovare un accordo di produzione per la realizzazione. E dato che, dopo vent'anni, sono diventato un regista di cassetta in Cina me lo sono prodotto da solo, e il 22 novembre ci sarà la prima cinese, si potrà vedere in 8mila sale". Sceneggiatore: "Il personaggio di Adrian Brody, Theodoro White, era davvero nello Henan nel 1942, è esistito. Un attore che conoscete benissimo e prima di fare questo film ha avuto diversi incontri di preparazione col regista in Cina. Inoltre, ha già fatto film sugli anni '40 come 'Il pianista', quindi, non partiva da zero. Nella pellicola ci sono almeno cinque punti di vista al fianco del suo, perché il problema andava visto dagli sfollati, dai militari, dai giapponesi, e dal governo locale e nazionale".
"Si tratta sempre di un conflitto drammatico anche se non tutti i personaggi si incontrano in scena; non hanno contatti diretti ma indiretti, però nell’evolversi della catastrofe vanno visti contemporaneamente. Tim Robbins, che interpreta un prete italiano, dopo averlo visto ha detto che 'affronta il lato più oscuro dell'uomo, dell'umanità, ma al tempo stesso di sentimenti, solidarietà e speranza’". "Come potete notare anche le etnie cinesi – continua - quando è questione di vita o di morte diventano diverse, ma accade a tutti gli uomini. E noi cinesi su questo rapporto abbiamo una certa ironia. Stavolta non abbiamo avuto problemi di censura, nelle precedenti sì, ma riguardavano soprattutto i finanziamenti". Produttore; "Il film è costato 21 milioni di yuan, circa 35 milioni di dollari. Autofinanziamento società mia. Attrice: "Dovevo raccontare la mia esperienza – dichiara l’attrice Xu Fan, che è l’affittuaria Hua Zhi - anche se non conoscevo tutto sulle donne di quel periodo, sapevo che lavoravano in casa, erano per lo più ‘casalinghe’, ma grazie al film ho potuto scoprire di più, il calore che ho oggi intorno alla mia vita, allora inspiegabile. E ho deciso di lasciare da parte tutte le tecniche recitative, per poter un pochino avvicinarmi alla condizione della donna di quei tempi". Oggi è stato presentato anche il delizioso "Populaire" di Régis Roinsard con la bella e brava Déborah François, Romain Duris e Bérénice Bejo ("The Artist"). Un'ambiziosa e riuscita opera prima prodotta da Alain Attal che seduce e diverte, ipnotizza e affascina, grazie ad un gusto particolare dell’immagine che ricrea gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta con i colori pastello del cinema di allora; a ottimi dialoghi che ci fanno spesso sorridere con garbata ironia e note romantiche mai melense.
Rose Pamphyle vive col padre vedovo e sembra destinata a una tranquilla esistenza di casalinga di provincia. Ma il direttore di un’agenzia di assicurazioni sta cercando una segretaria in città. Il colloquio si rivela un disastro, ma la ragazza dimostra una straordinaria velocità con la macchina da scrivere. E il capo decide di fare di lei la dattilografa più veloce del paese… “Mi sono interessato alla storia della macchina da scrivere dopo aver visto un vecchio filmato sui campionati di dattilografia e ho trovato tante curiosità e molte cose da raccontare/ricordare. Ho anche scoperto che si trattava della pratica di uno 'sport' basato sulla velocità. Per il film pensavo alla modernità, certo, anche perché non è un omaggio, ma un film sugli anni 50, non per riprodurre scene particolari, perché mi sono limitato a esprimerle, in pratica sono tutte gare, ma non c’è niente di nostalgico né parodistico, ma moderno in tutti i sensi”. “Sembro più giovane di quello che sono – afferma -, in realtà sono un fan degli anni ‘50'60, mi affascina tutto di quel periodo: vestiti, costumi, macchine, design, e ovviamente i film di Douglas Sirk e Billy Wilder, tutto questo mi ha spinto a scrivere il film, mi sono innamorato di un decennio pieno di fantasmi, dove c'era una certa spensieratezza. Dopo dieci anni di guerra, vediamo che c'è qualcosa di diverso, sono affascinanti”.
“Di solito si pensa che il poliziesco sia americano – dichiara il produttore Alain Attal -, la commedia anche, oppure italiana, il thriller appartiene a qualcun altro; così noi francesi proviamo a seguire anche noi questa strada, facendo qualcosa di diverso di quello che ci si aspetta da noi, osando su qualcosa che nessuno crede possiamo fare. Il fatto che questa sia un’opera prima è stata una difficoltà in più, che gli sceneggiatori siano alle prime armi pure. Di solito il ‘biglietto da visita’ del regista è un film dal budget scarno, che si fa avanti da sé. Invece, il nostro progetto era molto ambizioso, costoso, in costume, dove si facevano le gare che diventavano man mano sempre più costose, da quelle locali ai campionati mondiali. Io ho prodotto film come ‘Polise’ e ‘Piccole bugie tra amici’ (Les petits mouchoirds), e mi sono messo al servizio del regista per trovare i mezzi. E’ costato ben 15milioni di euro, uno dei più costosi della cinematografia francese, almeno degli ultimi dieci anni”.
“Per me è stato stupendo essere Rose – ribatte l’attrice Déborah François – credevo fosse irresistibile il ruolo di questa ragazza che anche nel ‘59 non ha filtri nel meno col suo capo, osa parlare e dire le cose, che sono le premesse di quello che succederà dopo. Non è una suffragetta e non rivendica mai niente, ma ha aperto le strade alle altre, lavorando, guadagnandosi da vivere, sì come segretaria che è stato una dei primi mestieri svolti dalle donne. Opponendosi al padre che le voleva fare sposare il meccanico del villaggio, per sfuggire alla possibilità di diventare una casalinga. Tutto questo era molto trasgressivo all’epoca, ed è raccontato con molto garbo. L’abbiamo fatto come se il regista avesse avuto allora la libertà di farlo”. “Amo tutti i film degli anni ’50, sono un cinefilo, sono dentro me le commedie con Rock Hudson, James Stewart, Cary Grant, ma volevo crearedei personaggi nuovi, veri, Rose è fan di attrici dell'epoca Audrey Hepburn, Marilyn, ecc. Questo coté de femmes molto carino, perché poi a loro volte le donne diventano fan di lei; all'epoca c'era Audrey con la frangetta, anche Rose copia questi modelli americani e il loro look”. José de Arcangelo

sabato 10 novembre 2012

Roma Film Festival. Dall'Australia alla Francia sulla scia della commedia, fuori e in concorso

ROMA, 10 - Oggi sono passati anche "Mental" di PJ Hogan (fuori concorso), che segna il ritorno del regista de "Le nozze di Muriel" in patria, e il nuovo film della francese Valérie Donzelli "Main dans la main", dopo la rivelazione internazionale con "La guerra è dichiarata". La prima è una commedia sul filo del 'demenziale', come da titolo, ma non fine a se stessa, perché parlando e portando all'esasperazione problemi e conflitti psichici in famiglia ci spinge a riflettere su depressione, follia e pregiudizio. Ovvero un tema serio e universale, non nuovo al cinema (basti ricordare il vecchio caro "Tutti pazzi meno io" (in originale "Roi du coeur") di Philippe De Broca) che metteva in dubbio la cosiddetta 'normalità' durante la Grande guerra, in una cittadina abitata dai ‘matti’ del vicino manicomio che sostituivano benissimo i concittadini fuggiti. Una commedia al femminile, capeggiata dalle veterane e brave Toni Collette, Rebecca Gibney, Kerry Fox e Caroline Goodall, Deborah Mailman e le giovani rivelazioni Lily Sullivan, Chelsea Bennett, Nicole Freeman, Malorie O’Neill e Bethany Whitmore.

Le cinque sorelle Moochmore sono convinte di essere pazze, dato che la mamma, Shirley (Gibney), soffre di crisi di nervi e, incapace di badare alla casa, far fronte alle complicate figlie adolescenti e al marito Barry (Anthony LaPaglia), politico donnaiolo che spera di diventare sindaco, trova sollievo nelle canzoni del cult-musical anni '60 "The Sound of Music" (Tutti insieme appassionatamente) di Rodgers e Hammerstein. Il marito la fa rinchiudere in un ospedale psichiatrico e affida le figlie alla bizzarra autostoppista Shaz (Collette), baby-sitter per caso che, forse, sarà in grado di riportare finalmente un equilibrio in famiglia. "La mia famiglia era disfunzionale - esordisce Hogan che vi si è ispirato -, la mia esperienza americana è stata gradevole, ma a Hollywood non potete fare tutto quello che volete anche quando sei pagato molto bene e sono dovuto tornare in patria per realizzare un film molto personale. 'Mental', come 'Le nozze Muriel' è autobiografico. Quando avevo 12 anni mia madre ebbe una crisi e mio padre, politico locale, la fece rinchiudere e ci disse 'mamma è andata in vacanza, e dite a tutti che è così'. Potevamo anche capire, sospettare o sapere dov'era, ma mio padre voleva così. I mie fratelli erano tutti più piccoli di me, e mio padre non sapeva cosa fare con noi. Lui si è sempre considerato una persona equilibrata, e ha deciso di caricare un'autostoppista con cane perché pensava fosse affidabile. E un giorno ce la siamo trovata rollando una sigaretta nel salone piuttosto disordinato di casa. Non vi sembrerà vero ma era come nel film. Mi ha sempre eccitato raccontare la vera storia della baby sitter. Tony collette, appena letto il copione, disse voglio essere Shaz. Lei è stata la prima persona che mi ha detto: meglio essere la pecora nera che una pecora".
"Shaz era completamente folle. Il tempo aiuta a guardare le cose con uno sguardo nuovo, in modo fresco, sono successe tante cose dopo "Muriel", mia sorella ha avuto delle crisi, ho due figli autistici. La malattia per me è molto rilevante, il mio è un rapporto diretto, dalla trincea. Molto spesso le persone conoscono l'autismo attraverso i film, ma i bambini autistici possono essere meravigliosi, ma mi sono reso conto che il bambino autistico viene messo da parte, perché improvvisamente si capisce che non siamo perfetti. Credevo che il modo migliore di affrontarla fosse la commedia, anche perché tutti conoscono qualcuno che ha una malattia mentale, che ha tante sfumature non si tratta solo di autismo o schizofrenia. Ma dobbiamo sorridere, ridere per andare avanti. Volevo essere assolutamente 'politically scorrect', altrimenti vuol dire non ne parliamo, diventa qualcosa di cui vergognarsi; volevo che la gente dicesse 'come si permette di farne una commedia'. Chi è matto e chi non lo è? Mia sorella è schizofrenica, molto intelligente però non riesce ad esprimersi. Quando prende i farmaci diventa una persona meravigliosa, ma anche lei viene evitata. Le persone hanno paura, perché credo hanno sofferto la depressione. Sarebbe bello un bel giorno presentarsi ad un colloquio di lavoro e poter dire 'io soffro di depressione ma vorrei essere assunto lo stesso'. E' difficile trovare la linea divisoria tra genilaità e follia, e non ho mai un attore 'normale'. Se tu dici 'soffro di asma' non ti possono non assumere, ma se soffri di depressione, ansia, ecc., ti cancellano dalla lista. Non dobbiamo avere paura".
"Io sono molto equilibrato - aggiunge - sono un regista e non farei quello che faccio, la famiglia era la mia e non potevo sfuggirle, sono andato via da casa a 17 anni per fare la scuola di drammaturgia e cinematografia. Ho condiviso l'idea di ridere della mia famiglia con la storia Muriel, cercando capire quella del mio passato, parlandone con gli amici. Una storia con cui potevo raccontare il mio vissuto, il motivo per cui si soffre, perché ho bisogno di condividerla. A questo punto ho capito che era arrivato il momento di tornare, e adesso capisco meglio, sono più brutalmente onesto, il film è comico. Io non giocavo football e questo metteva in imbarazzo mio padre perché è come non giocare calcio in Italia. Mi sento rattristato per lui, era una sua semplice ambizione che io giocasse football e diventassi uguale agli altri, purtroppo si è ritrovato la famiglia che ha avuto. Questo accade quando si dice ai ragazzi di non dire e di non chiedere e se qualcuno chiede negate, quando non si dicono le cose né si fanno domande. Dite, ascoltate e continuate a dire". "Tra 'Le nozze di Muriel' e 'Mental' la caratteristica è che il primo l'ho fatto 30 anni fa. Ho preso il diploma in regia a 18 anni ed ero disoccupato, il mio pirmo film era terribile perché non avevo nulla da dire; credo sia molto importante sia per un regista come per un attore, tirare fuori il piccolo mondo privato, interiore, ed esprimerlo. Per 'Muriel' è stato difficile trovare un finanziamento, poi non riuscivo a trovare per altri film simili, sul vissuto personale, non volevo fare altro perché è la mia storia. Sono cresciuto in una cittadina sulla costa, simile, forse, a Rimini, dove c'era grande volgarità, tutto era molto colorato, persino i parchimetri. Se si vive in quel posto, dove non c'è nessuna libreria, un solo cinema, l'unico modo di catturarla in modo artistico è attraverso la fotografia, e ho continuato a lavorare così. Forse come documentario (l'ambientazione che è ottima ndr.) sul posto dove sono cresciuto, la casa del film è quella in cui sono cresciuto, ho rifatto solo le pareti per gli interni".
"Ho avuto la fortuna di leggere la sceneggiatura per primo - dichiara il produttore Todd Fellman - ma non avevo incontrato JP, sono stati degli amici che avevano già lavorato con lui che mi hanno detto 'JP vorrebbe tornare a lavorare a questo progetto. Una delle sceneggiature più emozionanti, divertenti e avvincenti che abbia mai letto. Sono andato a LA, ci ho parlato e abbiamo elaborato un programma sul come produrlo". "Doris (la sorella di Shirley e zia delle ragazze ndr.) è uno dei personaggi di sempre - afferma Caroline Goodhall -, orrendo! E' sempre meraviglioso per un'attrice non avere nessun elemento di contrasto, eccetto le bambole. Un personaggio divertente, sono stata fortunata ad avere questo ruolo che prende ispirazione da un'australiana come me, anche se sono cresciuta in Inghilterra; inoltre, di poter lavorare con attrici più giovani di me e bravissime. Lily (Sullivan) è straordinaria. Voglio fare la scena col cane nella macchina, e naturalmente per farlo annusare fra le gambe avevo del pollo. Lavorare con PJ e il cane è stata una delle esperienze più estreme". "Vogliamo tornare indietro, la prima volta non aveva musica, poi 'Muriel' era quella romantica standard, infine, ho detto al produttore 'voglio portare il mio tocco, il mio punto di vista, perché mi piace moltissimo la musica. Allora riuscivo a sfuggire all'atmosfera famigliare quando accendevo lo stereo e ascoltavo gli Abba. Credo siano straordinari, qualcosa che mi parlava attraverso quella semplicità di musica e testo, poi continuavo ad ascoltare gli SOS. In tutti i gironi della vita tutti noi utilizziamo la musica per esprimere quello che non riusciamo a dire con le parole, diversamente de tuo scopo. Per la sofferenza di Muriel diventava l'amico dei momenti difficili, quando JR viene umiliata. In 'Mental' perché Rodgers & Hammerstein (The Sound of Music) erano gli autori preferiti di mia madre. Infatti, 'Tutti insieme appassionatamente' andava allora moltissimo e ogni volta che passava in tivù ci riunivamo tutti in salone per vederlo, solo allora mia madre non piangeva perché era depressa o sofferente, ma perché il padre cantava pure; quest'idea di famiglia felice, la faceva piangere. Un elemento importante perché Maria (la protagonista del musical ndr.) cantava per allontanare i nazi". "Dicono che il film sia molto australiano - conclude la Goodhall -, io che ogni tanto ho un marito italiano, credo parli a tutti, che sia universale, anche per questo sono molto contenta che venga proiettato qui a Roma, dove vivo".
La commedia della Donzelli stavolta non riesce a mantenere il raro equilibrio della precedente, “Mano nella mano” riesce a conquistare soprattutto nella prima parte, mentre gioca con l’umorismo e il gioco degli attori, anche perché stavolta la protagonista è l’ottima ‘commediante’ Valérie Lemercier, nel ruolo di severa coreografa delle ragazzine dell’Opera di Parigi. Mentre sembra ‘appiccicata’ – e stavolta sì ricattatoria - la sottostoria dell’amica di lei, malata terminale che non sopravvivrà alla storia. Comunque, il tono è sempre leggero e garbato, ma stavolta le vere emozioni non latitano, ma scarseggiano. In compenso chi ama il ballo in tutte le variazioni, dal classico al latino, avrà il suo momento di gloria. Hélène (Lemercier) e Joachim (Jérémie Elkaim, sempre cosceneggiatore) non potrebbero essere più diversi ma il destino vuole che al primo incontro restino ‘incollati’ l’una all’altro. Lei è l’altezzosa direttrice della scuola di danza dell’Opera Garnier; lui lavora in una ditta di specchi in provincia, gira in skateboard e ha una sorella ossessionata dal ballo (Donzelli stessa). Però una forza misteriosa si impadronisce dei due, al punto che, senza capire come e perché, non possono più separarsi. Da qui una serie di equivoci che porterà entrambi a condividere la vita dell’altro, a conoscere i rispettivi amici e parenti, persino a decidere l’uno per l’altra (e viceversa). E, ovviamente, alla fine scoprono di amarsi, forse. José de Arcangelo

Roma Film Festival. "Steekspel" di Paul Verhoeven, quando il 'film partecipato' diventa una corrosiva e intelligente commedia, nata dall'ignoto

ROMA, 10 - Uno sperimento davvero riuscito e una scommessa vinta quella di Paul Verhoeven perché "Steekspel" non è solo un progetto speciale, ma una commedia intelligente e divertente che, probabilmente, non vedremo nei cinema italiani. Perché quello che i produttori 'vendono' è il 'format' come accade per i programmi televisivi e i reality show. Partito da 4 minuti di sceneggiatura/filmato iniziale, opera del regista olandese con gli sceneggiatori Kim van Kooten, Robert Alberdingk Thijm, i fan non hanno solo "sceneggiato" le scene successive ma, come dice Verhoeven stesso, hanno contribuito proponendo colpi di scena, parti di scenografia, pezzi musicali, immagini e persino le locandine, visto che sono ispirate alle loro proposte. "E il mio storyboard - prosegue l'autore - è stato pesantemente influenzato dai film che gli 'users' hanno pensato usando la mia stessa sceneggiatura." "Tutto è iniziato dall'idea di fare un film basato sui primi 3/4 minuti e così ci siamo ritrovati con materiale per una ventina di film, se non di più, inviato dal pubblico (i suoi fan ndr.), ma noi lo abbiamo utilizzato in gran parte della sceneggiatura. Ovviamente il tutto è stato poi vagliato e corretto da me e dal mio coautore (lo sceneggiatore van Kooten). Un'esperienza divertente, interessante, una sorta di avventura".

"Ma è stato anche orribile - confessa - perché ci siamo trovati con 700 e-mail e abbiamo dovuto trarre cinque/sei pagine dalle circa diecimila pagine ricevute. Io pensavo magari due o tre sarebbero state eccellenti, idee giuste da poterle poi unire. Invece non è andata proprio così, solo un'illusione. Dopo averle lette tutte ho tratto dei pezzi da 50 sceneggiature che poi ho fuso, ma bisognava trovare il modo giusto per inserirle, tanto che abbiamo addirittura fatto un codice a colori per fondere le diverse idee in un'unica storia. E' stato molto più lungo e difficile di quello che pensavo, però sono stato contento di averlo fatto perché ho avuto una certa libertà, mi sono sentito ringiovanito, non lavorando su niente di fatto, ma su un flusso di idee che ho un po' modificato, perché non avevo niente da perdere. Alla fine ho sentito che essere creativi significa fare un passo nell'ignoto". "Nel secondo episodio c'era un'idea, che però è stata posticipata, visto che alla fine funziona molto meglio; basata sul mio istinto però venuta dal pubblico. Certo ha qualcosa a che vedere con i miei lavori precedenti, riguardo le forbici per esempio, perché lei è una donna insincera. Infatti, alcuni hanno scritto in questo modo, cercando di copiare i miei film, tanto che ogni scena c'era qualcosa di sadomaso ('Basic Instinct' ndr.), ma io invece di tutto ciò ho utilizzato una sola battuta ('mostrami le tette'), mentre chi l'aveva scritta proseguiva con bondage, frustate ed altro.". "Dopo aver girato la prima scena, gli attori non sapevano se si sarebbe continuato il film, quando e come sarebbe andato a finire. E all'inizio hanno dovuto lavorare nell'incertezza". "Non ci ha detto tutto - dichiara il protagonista Peter Blok -, ma la cosa bella è che di solito ti danno la sceneggiatura completa, e spesso sei influenzato dalla fine. Stavolta non ne sapevo niente fino all'ultimo, se il personaggio sarebbe stato padre o no. Ma in qualche modo mi è stato d'aiuto perché mi sono lasciato trasportare dalla corrente, come nella vita, ed è stato più facile. E la motivazione più grande era rendere felice Paul e poter lavorare con lui è stato un privilegio". "Come ho detto all'inizio - riprende il regista -, secondo Heidegger, 'un passo nell'ignoto è quello che va fatto', e se ci pensi persino Adolf Hitler ha tenuto presente questo detto, ma la nazione tedesca non sapeva dove stava andando. Se non sai dove vai diventi creativo, perché devi avere un po' di paura. Essere troppo sicuro di sé, non è il modo giusta; magari lo è per un film di fantascienza perché non c'è libertà, devi seguire uno schema e delle regole. Lavorare in questo modo, invece, mi ha messo su un'altra strada, tanto che vorrei continuare a usare questa tecnica: due telecamere, grandissima libertà, e poter vedere quello che funziona e cosa non va. In questo momento della mia vita è stato fantastico". "Non c'era un piano b - afferma -, sicuramente molti membri della produzione pensavano che non avrebbe funzionato, che non avrei potuto arrivare ad un finale. Ma il pubblico continua a perseguire la stessa strada, e pensa che il film possa durare oltre dieci ore. Strutturare è difficile perché devi fare in modo che dopo 50/60 minuti sia finito. Robert (Alberdingk) ed io volevamo fare in modo che il pubblico affrontasse il finale del film, perciò ci siamo incontrati tutti gli sceneggiatori per pensare insieme alla fine. Alla fine ho dovuto far qualcosa per l'ultima parte, oltre a strutturarere il lavoro del pubblico". "Indipendentemente dalla storia che si racconta - aggiunge - seguire i propri desideri, i sentimenti, la passione è tanto eccitante quanto pericoloso. Certo, molto di questo viene da Alfred Hitchcock che tiene il tuo interesse vivo dall'inizio alla fine del film, ma per farlo deve violare le regole, tanto che ti spinge a pensare che la storia vada in una direzione e poi, invece, va da un'altra. C'è molta ambiguità, per altro amorale, in tutto ciò, ma funziona. Dei Rammstein sono un fan, come una volta lo ero di Bryan Ferry, devo dire che per me è stata una grande scoperta e negli ultimi dieci anni ho seguito tutti i loro concerti, li ho visti a LA ma anche in Olanda. Il loro sound è duro, tosto, ma anche lirico. La prima volta li volevo usare in 'Showgirls' tanto che l'ho proposto alla produzione per la colonna sonora, ma non ho potuto. Li ho conosciuti girando nelle università statunitensi, ma questa è la prima volta che ho potuto utilizzare la loro musica, e nel frattempo tutti sono diventati loro fan". "Io non faccio niente di tutto ciò - dice a proposito della vendita e uscita del film -, sono loro (della produzione ndr.) che stanno tentando di vendere il format in tutto mondo, ma io non prendo neanche un centesimo".
"E' stato realizzato per l'Olanda, proposto al miglior regista - ribatte il produttore -, un 'concept' molto più grande di quelli televisivi o di telefonia mobile. Quando se ne parla con registi negli Usa, in Cina, sono tutti interessati. Paul ha detto che sta reinventando questo progetto. L'idea è quella di parlare con vari registi nel mondo, e cercare di produrre tutta una serie di film con questo metodo". "Ho individuato lo stile nei primi 4 minuti - dichiara il regista -, poi un'attrice, che fa anche la sceneggiatrice, mi ha aggiornato sulla terminologia usata dai giovani oggi e che io non conoscevo. Ho cercato il più possibile di seguire lo stile di Kim, un atteggiamento leggermente (e non solo) amorale che è l'essenza del film. Anche perché le persone tendono a schiacciare le cose sugli altri, addirittura passano sopra certe cose e poi se ne dimenticano. Infatti, la protagonista femminile ha qualche problema coi 'bambini', ma poi accetta le scappatelle del marito". "Chiaramente il ruolo dell'autore è importante - continua - perché senza una sceneggiatura, come regista ho dovuto prendere decisioni che fanno parte della struttura del film, ma la scrittura va affidata a chi la fa di professione, non puoi affidarti ad un chirurgo se non ha la professionalità giusta. Il film è venuto dal pubblico, ma non basta. L'imput è dei due sceneggiatori e il mio. Avevamo tantissime idee, dettagli, particolari sulla scenografia e i costumi venuti dai fan, ma ci deve essere qualcuno che riesca a creare un equilibrio nella struttura. Le regole della drammaturgia non sono ben comprese dal pubblico, ma bisogna mettersi al lavoro sennò la gente si addormenta, ci vuole una certa progressione, delle scene spettacolari, un ritmo efficace. Anche ne 'La Dolce vita' era fatta straordinariamente, perché Fellini la usa, anche se il film è, forse, più psicologico che drammatico". "Il problema del mio libro su Gesù (da cui vorrebbe trarne un film ndr.) - chiarisce - è che ha delle idee di base, ma è fondamentalmente educativo. Abbiamo fatto una bozza di sceneggiatura, ma dopo 3/4 mesi abbiamo dovuto rinunciare, perché prendeva troppo alla lettera il libro e l'adattamento così non funzionava. Bisogna scendere dalla storia, guardarla dall'interno. Ora ho trovato un nuovo sceneggiatore e staremo a vedere. Anche perché qualsiasi cosa si dica sul cristianesimo e su Gesù, in America è molto pericoloso, e poi loro hanno molte armi - ironizza -, sicuramente sarà un film europeo, ma non ne sono sicuro. C'è una sensazione". "Ho visto il remake di 'Atto di forza' (Total Recall) - conclude a proposito di rifacimenti dei suoi film -, ma credo non sia stato espresso molto bene, perché è preso troppo sul serio. Molto meglio quando l'abbiamo fatto con Swarzenegger. Su 'Robocop' ancora una volta ho la sensasione perché non sai cosa farà, ma penso che abbiano tolto anche qui la leggerezza e l'ironia dell'originale, sebbene sia lo stesso copione. Anch'io sono un grande fan di Woody Allen, vorrei rifare 'Io e Annie' senza Woody; peccato sia già stato fatto 'I crociati', su una società fallita che è una chiara e interessante affermazione valida anche oggi". José de Arcangelo

RFF. "Alì ha gli occhi azzurri" ma sono lenti a contatto nel sorprendente film di Claudio Giovannesi (in concorso)

Un sorprendente dramma in bilico tra sociale ed esistenziale, tra documentario e finzione, firmato Claudio Giovannesi, ovvero "Alì ha gli occhi azzurri", in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma e nelle sale dal 15 novembre. Non solo per

uno stilo realistico, anzi documentaristico - visto che l'autore proviene da questo campo -, ma perché senza retorica né falso moralismo né pregiudizi racconta le vicende quotidiane di un adolescente di origine egiziana, della sua ragazza italiana come l'amico Stefano, facendo affiorare le loro contraddizioni, tra integrazione e rifiuto, ma anche quelle culturali di entrambe le parti. Adolescenti in conflitto soprattutto con gli adulti, e non solo i genitori, ma anche con loro stessi. "L'idea (del titolo e delle lenti a contatto azzurre ndr.) viene da una poesia di Pasolini, Profezia - esordisce Giovannesi -, che prefigurava già nel 1962 sarebbe avvenuta una società multiculturale. Poi, quando ho conosciuto Nader (nome del protagonista e dell'attore non professionista, Sarhan ndr.) anche lui indossava lenti a contatto, e allora ci siamo permessi di utilizzare questo titolo".
"Volevo raccontare l'adolescenza nella società multiculturale italiana di oggi: la vitalità e la complessità dell'adolescenza più marginale - prosegue -, la turbolenta ricerca di un'identità, che l'origine non italiana del protagonista rende ancor più difficile, e l'emblema della seconda generazione italiana è Nader, con cui avevo già realizzato un documentario. Stavolta per lui è stato più difficile perché non doveva guardare in macchina, e doveva fare e dire anche cose che lui non fa. Raccontare la realtà verso la consapevolezza, anche se i due Nader sono simili, il film prevede una messa in scena, anche quando oltre lui sono presenti i suoi veri genitori, la fidanzata. Abbiamo lavorato su conflitti che esistevano veramente, un passato da microcriminale che nel documentario era più difficile mettere in scena".
"Frequentare i ragazzi - ribatte il cosceneggiatore Filippo Gravino -, passare pomeriggi interi ad ascoltarli, da cui abbiamo strappolato discorsi sentiti, anche della comitiva di Stefano. Giorni di ascolto in cui siamo stati delle spugne, poi con calma abbiamo lavorato sul materiale che avevamo raccolto per dare consistenza al racconto. Comunque, la parte più emozionante è stata passare del tempo insieme a loro". "All'inizio per me era molto complicato mimetizzarmi nel personaggio - confessa Nader Sarhan -, tornare ai tempi in cui avevo fatto il documentario, ma non sono riuscito a entrare nell'ottica. Poi, cominciate le riprese è stato più semplice, dopo quattro mesi di prove. Sulla mia fidanzata (italiana) è un problema che ciò ancora con mia madre, ma io cerco di evitare veramente che Stefano avvicini mia sorella. Le lenti a contatto sono l'aspirazione che avevo a 14 anni: sembrare italiano. E' una realtà passata, ma quella vera è la difficoltà di integrazione. Allora volevo essere troppo rispetto alla realtà".
"All'inizio eravamo spiazzati - condivide l'amico e 'collega' Stefano Rabatti -, poi è venuta una cosa dietro l'altra e l'abbiamo superata bene". "La mia parte è abbastanza reale - ribatte la ragazza di Nader, Brigitte Apruzzesi -, è stato semplice per me". "Il problema vero è giudicare senza sapere né frequentare le persone - afferma Nader -, se sei straniero vieni visto con occhio diverso. Le persone vanno conosciute a fondo, per quello che sono e che fanno, non per il luogo da dove provengono. Sono fatti abbastanza strani della nostra realtà di oggi". "Non è facile produrre un film in generale - dichiara il produttore Fabrizio Mosca -, ma in questo caso fortuna vuole che una volta presentato a Rai Cinema, il film è stato accolto subito. I soldi erano pochi e abbiamo dovuto rischiare, perché le sovvenzioni non erano sufficienti. Una troupe molto molto piccola, disposta a seguirci a Ostia per 5 settimane, ma il primo montaggio è stato un momento di grande felicità. E' un film vero, dove l'aspetto economico non conta. Sono tornato da Rai Cinema e ho avuto l'appoggio e la complicità di Valerio De Paolis (della Bim ndr.) che si è subito innamorato del film e ha deciso di farlo uscire fra pochi giorni. E' una sorta di 'combat film' partito in sordina e con pochi soldi".
"Quando mi hanno portato il progetto - dichiara Del Brocco di Rai Cinema - ho constatato che era molto in linea con la nostra realtà. Noi cerchiamo di produrre dei film che parlano il più possibile della nostra società, che siano importanti socialmente e civilmente. Un problema economico perché siamo quasi soli a finanziare, a vario titolo, più di 40 film all'anno. E la difficoltà di trovare finanziamento per film di qualità e/o d'autore si porrà anche nei prossimi anni. Siamo felici di aver dato una mano a priori e posteriori a questo film, e abbiamo raggiunto un obiettivo importantissimo: i migliori distributori italiani. Quindi, un progetto riuscito in tutte le sue componenti". "Pasolini non è un riferimento intellettuale, ma una condivisione artistica - chiarisce il regista -, che li vedeva in maniera pura, innocente. Lui metteva Bach, mettere musica sarebbe come emettere dei giudizi. I 'ragazzi di vita' erano solo profetizzati perché c'era la società dei consumi. Ora c'è il conflitto tra la cultura d'origine e quella d'adozione, islamica e consumistica".
"C'è un conflitto, una contraddizione che lui vive in modo dinamico, la presa di coscienza della contraddizione, la dinamica di una situazione conflittuale, ma ricca, lo scontro culturale che vale la pena di raccontare. L'integrazione dipende da entrambe le parti. Ma non c'è soluzione al conflitto che Nader porta dentro, tra amore e proibizione, tra la cultura di adozione e quella di appartenenza: resta solo la coscienza e la ricchezza della propria contraddizione". "La stessa cosa con mia sorella, è tutto reale, come la pensa mia madre su di me, come la penso io su mia sorella. Ma nel frattempo c'è stato un cambiamento per ritrovare una mia identità. Seguire la gente, la massa adesso non mi interessa niente, posso rimanere da solo. Sono egiziano, prima dicevo sono italiano".
E sulle rivoluzioni della primavera araba? "Non mi sono mai interessato di politica - conclude - anche perché non vivo lì, il mio paese è un altro". Naturalmente, tutti e tre i giovani si dicono disposti a continuare nel cinema, sempre che arrivino proposte. Intanto Brigitte fa la cameriera; Nader fa le serate nei locali mentre Stefano lavora nell'autoscuola del centro ACI. Oggi tutti e tre sono al centro dell'attenzione e la considera la migliore esperienza della loro vita. Una "bella esperienza che speriamo si ripropone". José de Arcangelo