venerdì 7 settembre 2007

Festival di Venezia: Il maestro egiziano Chahine conquista il pubblico del Lido

VENEZIA, 7 – Penultima giornata della 64a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica e già sono venuti fuori alcuni premi delle rassegne parallele o alternative. A "La ragazza del lago" di Andrea Molaioli è andato il premio Isvema 2007, ovvero 50mila euro di promozione pubblicitaria televisiva, con la motivazione "Per la sensibilità e la professionalità con cui, operando all'interno di un genere cinematografico e avvalendosi di un ottimo cast, riesce ad esprimere il disagio esistenziale (forse il "tema" vero del festival, ndr) di una piccola comunità raccontata nel suo vivere quotidiano".

Prix Europa Cinema per il polacco "Sztuczki – Tricks" di Andrzej Jakimowski ("Giornate degli autori"), un dramma ora divertente ora commovente sulle tracce di un ragazzino che, fra giochi lungo la ferrovia e la stazione, aspetta di incontrare il padre che ha abbandonato lui, la sorella ventenne e la madre. Un dramma fatto di gesti e situazioni quotidiane visto attraverso gli occhi di un ragazzino inquieto che crede (spera) di influenzare "la fortuna", cioè il caso o il destino. E, forse, ci riuscirà.

Nuovo premio della critica indipendente presente al Lido, Bisato d'Oro, in occasione del 75° anniversario e in collaborazione con lo storico Maleti Wine Bar: il film più significativo della mostra è stato considerato "En la ciudad de Sylvia" di José Luis Guerin, premiata anche la protagonista Pilar Lopez de Ayala e riconoscimento per il centenario Manoel de Oliveira come regista più rappresentativo.

In attesa dei premi collaterali (domani pomeriggio) e la premiazione ufficiale del concorso (sempre domani alle 19.30 in diretta RaiSat), bisogna segnalare gli ultimi film visti. Non delude Nikita Mikhalkov con "12" che prende spunto dal celebre "La parola ai giurati" di Sidney Lumet (1957), per una grande prova di attori, interamente in interni e girata con la sua solita professionalità. Forse troppo teatrale e sicuramente non tra le sue opere migliori.

Il maestro egiziano Youssef Chahine conquista e commuove con "Hey fawda – Caos", un melodramma popolare che, ambientato in un popolare quartiere del Cairo, diventa quadro dell'attualità. Attraverso la struttura classica del genere (un po' Raffaello Matarazzo, un po' commedia di costume), il regista lancia frecciate e non risparmia (quasi) nessuno mostrando corruzione, abuso di potere e voglia di riscatto sociale, soprattutto dei membri della polizia. Non solo. Bravi anche gli interpreti: Khaled Saleh (il viscido e spietato poliziotto Hatem), Mena Shalaby (Nour), Youssef El Sherif (bellone del cinema egiziano, Sherif), Hala Sedky (Wedad) e Hala Fakher (Bahia).

Hatem, poliziotto ambizioso e corrotto, regna sul quartiere di Choubra con pugno di ferro. Tutti gli abitanti, indistintamente, lo odiano e lo temono, solo la giovane Nour, segretamente innamorata del sostituto procuratore Sherif, lo respinge e gli tiene testa. Pazzo di gelosia, il feroce poliziotto farà di tutto per avere la ragazza ad ogni costo. Gran finale, ovviamente, ottimista in cui l'unione fa la forza e trionfa.

Il film sorpresa (in concorso) si è rivelato "Shentan - Mad Detective" di Johnnie To e Wai Ka-Fai. Ma non all'altezza della competizione.

Sarà perché da Johnnie To ci aspettavamo qualcosa di più trascinante e originale del consueto thriller d'azione di marchio hongkonghese, sarà perché aveva già partecipato alla Mostra di Venezia con opere più coinvolgenti, nel 2004 (fuori concorso) con "Throw Down" e nel 2006 (in concorso) con "Exiled". Inoltre lo spunto è lo stesso del vecchio capolavoro di Akira Kurosawa "Cane randaggio" (1949).

Oppure sarà perché la vicenda (la scomparsa di una pistola della polizia che viene collegata a una serie di furti e omicidi) viene resa un po' confusa e complicata dalla misteriosa scomparsa di un poliziotto e dal coinvolgimento nelle indagini di un esperto criminologo, anni prima, mandato in pensione perché "impazzito". Infatti, tra verità e bugie, realtà e illusione riaffiorano non solo cupi segreti e oscuri tradimenti, ma anche i "fantasmi" di criminali e poliziotti.

Interessante, anzi toccante, "Sotto le bombe" di Philippe Aracting ("Giornate degli Autori") che, inseguendo una madre alla disperata ricerca della sorella e del figlio dispersi durante i bombardamenti dell'ultima guerra in Libano, affronta il tema della pace e, ovviamente, il conflitto israelo-palestinese di cui spesso sono vittime gli innocenti, da entrambi le parti. Lo stile semidocumentaristico mette in risalto contraddizioni e sentimenti, tramite il rapporto che si instaura tra la donna e il taxista che la porta in giro fra macerie e rifugi di fortuna. Sempre nella stessa sezione è passato "Andalucia" di Alain Gomis, ancora un dramma esistenziale nella Parigi odierna degli immigrati e dei loro figli, attraverso le vicende di un trentenne in cerca di identità e futuro.

Interessantissimo il nuovo documentario di Jonathan Demme su Jimmy Carter, "Man from Plains – L'uomo di Plains", che segue l'ex presidente americano nella tournée di presentazione del suo libro "Palestina: pace o apartheid", tra interviste, incontri e conferenze. Colpisce soprattutto per la lucidità e la vivacità del Premio Nobel della Pace, responsabile trent'anni fa di un primo accordo di pace in Medio Oriente.

Sorprende, sempre nelle "Giornate degli Autori", anche l'italiano "Non pensarci" di Gianni Zanasi per la leggerezza del tocco in una commedia (qualcuno ha parlato di rinascita) familiare che diverte e commuove proprio per la sua italianità. Certo non è un capolavoro ma, nel panorama del nostro cinema, è una bella boccata d'aria (fresca). Merito anche di un Valerio Mastandrea misurato e, stavolta, molto più simpatico (come personaggio) del solito, accanto ad Anita Caprioli e Giuseppe Battiston.

Sempre interessante, enigmatico e suggestivo il nuovo film di Tonino De Bernardi "Medée Miracle", presentato nella sezione "Orizzonti" e applauditissimo dal pubblico, soprattutto, di cinefili e addetti ai lavori. Una rivisitazione inedita (e contemporanea) della celebre tragedia ripensata e, ovviamente, corretta con lucidità ed impegno, sottileando i valori e i riferimenti ancora attuali (l'esilio, la guerra, la speculazione, la condizione femminile). Bel cast capeggiato dalla sempre incisiva Isabelle Huppert, tra cui la figlia dell'autore Giulietta.

Eventi degli ultimi giorni, il cortometraggio "Carlo Goldoni venezian" di Leonardo Autera e Alberto Caldana, e il lungometraggio "Callas Assoluta" di Philippe Kohly, che uscirà nelle sale nei prossimi mesi. Omaggio e Leone d'oro del 75° anniversario per il nostro maestro Bernardo Bertolucci che ha ricordato gli inizi della sua carriera e le sue opere. Dopo la premiazione, domani sera chiusura con "Tiantang Kou – Blood Brothers" di Alexi Tan, che dovrebbe essere il "tipico" thriller d'azione di marchio hongkonghiano.

José de Arcangelo

giovedì 6 settembre 2007

Festival di Venezia: A Venezia, è l'ora di punta nella città di Sylvia

VENEZIA, 6 – Delude anche l'altro italiano in concorso, Vincenzo Marra con "L'ora di punta" interpretato da un giovane attore, professionista ma ancora poco noto, Michele Lastella e la brava e sempre affascinante (ma un po' spaesata) Fanny Ardant. Non è che l'argomento non sia importante e di scottante attualità, ma i dialoghi (purtroppo, non è solo un problema di Marra) sembrano inverosimili, nonostante l'autore confermi il suo modo di lavorare: "nessuna preparazione, nessuna lettura della sceneggiatura. Per ottenere che alla fine, davanti alla macchina da presa, non ci sia finzione, ma la verità di un essere umano".

Si tratta comunque di un film ambizioso e con un budget più alto del solito, soprattutto per il regista di "Tornando a casa" e "Vento di terra", che (forse) lo ha spinto ad occuparsi soprattutto della confezione e dell'immagine (diciamo la cornice) a scapito delle emozioni, anche quando il "patinato" in questo caso ben si addice alla storia. Resta un dramma, piuttosto freddo, al di sopra della media che narra la storia di un giovane come tanti che, spinto dall'ambizione e della voglia di riscatto sociale, lascia da parte gli scrupoli e i sentimenti.

Filippo Costa, agente della guardia di finanza, ce la mette tutta per guadagnarsi la fiducia del suo capo, poi si lascia corrompere e capisce che può mirare più in alto. Seduce una ricca signora, bellissima, colta e più grande di lui, Catherine, che lo aiuta e lo mette in contatto con il mondo imprenditoriale e dell'alta finanza. Però la sua irresistibile ascesa lo costringerà ad abbandonare ogni remora morale e umana, e probabilmente a restare solo.

La vicenda, nonostante faccia qualche riferimento a recenti fatti di cronaca italiana, non si ispira a nessuno in particolare, anzi. "La sceneggiatura risale a tre anni fa – dice il regista ‑. L'ho fatta leggere ai mie produttori proprio qui al Lido, dopo l'anteprima di 'Vento di terra'. Poi gli eventi hanno ampiamente superato, purtroppo, la mia immaginazione".

Sul titolo invece, afferma: "L'ora di punta è il momento di maggior confusione in una grande città. Una mattina di tanto tempo fa, in una piazza di Roma, avevo la testa rallentata da pensieri ed emozioni forti, vedevo la gente correre da una parte all'altra, le auto sfrecciare, i grossi autobus scaricare mondi di gente diversa. Tutto era rumore, confusione indistinta, cercai di concentrarmi su uno, di estrapolarlo dal gruppo. Ma girò l'angolo e scomparve dai miei occhi. Era uno qualunque, in mezzo a una moltitudine di gente. Quante anime distinte si confondono in una metropoli, quanti potenziali ladri, assassini, truffatori sono intorno a noi? Questo mi ossessionò quel giorno, nell'ora di punta, mimetizzarsi tra la gente per bene, quella che suda e si affanna è molto più facile…"

Il protagonista, che ha valenza universale nella nostra società contemporanea, lo definisce "uno squalo con molta fame che è diventato un classico nella civiltà occidentale, segnato dalla bramosia di potere, da un desiderio assoluto di riscatto sociale e dominato da una sindrome tipica dei nostri tempi, quella del vivere l'anonimato come una dannazione".

In concorso anche lo spagnolo "En la ciudad de Sylvia – Nella città di Sylvia" di José Luis Guerin, un regista che concede poco al cinema di consumo, ma recupera il mistero dell'immagine e la sua predominante potenza sulla parola, se vogliamo sulla storia stessa.

"Credo sia una pellicola molto semplice – ha detto Guerin ‑, non c'è molto da capire. La sfida più grande del cinema sarebbe l'accettazione della semplicità perché nella maggior parte dei film la trama mi sembra complicatissima. Credo che la trama, lineare, del mio film possa riassumersi in due frasi. Credo nel beneficio della semplicità, in una sorta di depurazione in cui lo spettatore possa accettare la semplicità che gli offri. Creare un terreno dove sia possibile leggere immagine e sonoro. Io rivendico questo, mentre oggi al cinema insistono nell'accumulazione degli effetti che finiscono per coprire tutto il resto".

Infatti, l'opera di Guerin narra di un giovane straniero che, d'estate, torna in una città per ritrovare una donna, Sylvia, che ha conosciuto sei anni prima. Così osserva e disegna la gente per strada, nel bar finché non insegue una donna che crede sia quella che lui conosce…

"Per me l'effetto del cinema – continua l'autore – sta nel cambio di espressione di un volto umano, in un rumore capace di evocare il fantasma di una donna. Una nuova qualità nel cinema è osservare il volto di una donna e partire da quello, sognare i volti nella genesi del cinema, del regista. I bozzetti che fa il protagonista dovrebbero essere usati dallo spettatore per completare, chiudere il disegno. E' l'avventura dello sguardo, un viaggio da fare insieme. Molti girano i film non per lo spettatore ma per il consumatore. Sono due nature diverse, la differenza tra spettatore e consumatore sta al cinema come la televisione. Il mio è un desiderio sincero, violento di fare cinema non come mestiere ma come modo di relazionarmi col mondo. Infatti, iniziai nell'adolescenza a girare in super 8 per catturare gli sguardi delle mie amiche".

"Antonioni è molto importante per me – confessa ‑, tanto che il giorno della sua morte mi sono chiuso in casa. Le immagini che ho visto ieri (il corto "Lo sguardo di Michelangelo", proiettato in omaggio al maestro ndr) mi ha riempito di felicità. Un corto come testamento, uno 'sguardo' di un'intensità eccezionale. Però quando lavoro intendo girare col cuore, dimenticando tutto, come se fossi il primo regista al mondo che riprende un barbone per strada, o una ragazza. Per la prima volta gli occhi di Pilar (Lopez de Ayala, la protagonista ndr), con l'ossessione del 'primo'. E bisogna ricordare che ho fatto solo cinque film (in vent'anni ndr). La mia esperienza è più forte come spettatore che come cineasta".

"En la ciudad de Sylvia' è simile a una giostra – aggiunge – le cui singole parti sembrano essere state progettate da Murnau, Ozu, Hitchcock o Eduard Manet, mentre il motore 'riecheggia' Chaplin, Tati e Godard. Mi sono sentito trasportato in un labirinto di suoni e immagini, fiero di partecipare a questa dichiarazione d'amore. Amore per il cinema. Amore per le donne, la città, il pubblico".

Infatti, il film è quasi un documentario sui sentimenti, anzi cinema verità come si diceva (e faceva) negli anni Sessanta, sorta di ritorno alle origini del cinema, per recuperare il suo fascino e il suo mistero racchiusi, appunto, in uno sguardo (triplo): quello dell'autore, quello della protagonista e quello dello spettatore.

"Abbiamo girato in poco tempo – conclude Guerin – perché avevamo un budget limitato, e il contributo statale è stato di un terzo, nonostante il successo in Spagna di 'En construcciòn' (il documentario, quello sì, precedente, presentato a Pesaro ndr). Il mio non è un cinema industriale ma periferico, perciò è stato un gesto politico estremamente audace quello di Marco Muller a introdurre un'opera periferica tra le grandi produzioni hollywoodiane".

Nella sezione "Orizzonti" presentato l'opera di un altro suo collega, Pere Portabella, il sorprendente "Die Stille vor Bach - Il silenzio prima di Bach". Anche questo lungometraggio recupera tutta la potenza dell'immagine attraverso diverse storie incrociate che, diretta o indirettamente, hanno a che fare con la musica e, soprattutto, con Bach. Un film d'autore che potrebbe rivelarsi un (relativo) successo per un pubblico che ama il cinema sia come arte che come riflessione.

Ci hanno parlato molto bene dell'ultima opera di Peter Greenaway "Nightwatching" che purtroppo non siamo riusciti a vedere, perché in una sola replica per la stampa, mentre domani tocca a Nikita Mikhalkov con "12", realizzato durante una pausa – dichiarano – delle riprese del sequel di "Il sole ingannatore".

L'ultimissima opera invece del centenario maestro portoghese Manoel de Oliveira "Cristovao Colombo – O enigma", naturalmente fuori concorso, si è rivelata una vera sorpresa, non solo per la durata (soli 70 minuti), ma anche perché la discussione sulla nascita (nazionalità) di Cristoforo Colombo – che sarebbe portoghese di nascita – è il pretesto per un viaggio-riflessione che indaga nel passato per capire il presente. Storia, radici, passioni che ci aiutano ad andare avanti. Stavolta, oltre all'autore, recita anche la moglie Maria Isabel de Oliveira.

Presentate anche le "Giornate del cinema muto" di Pordenone che stavolta, non solo torna nella sede originaria, ma si occuperà del cinema "dell'altra Weimar", dedicherà una retrospettiva a René Clair, ovviamente solo i film muti, "Le due orfanelle" di D.W. Griffith con Lilian e Dorothy Gish, "Lulù - Il vaso di Pandora" di Georg Wilhem Pabst e alcuni "corti" di Georges Meliès, ritenuti perduti e ritrovati a Barcellona. Ospite d'onore (sì è autoproposto) il musicista Michael Nyman, reso celebre dai film di Greenaway, che accompagnerà dal vivo il capolavoro di Jean Vigo "A propos de Nice".

José de Arcangelo

mercoledì 5 settembre 2007

Festival di Venezia: Tim Burton's Day a Venezia

VENEZIA, 5 – Dopo la presentazione di "Tim Burton's The Nightmare Before Christmas" in 3-D(isney), ovvero in versione tridimensionale da vedere con i famosi occhialetti, finalmente l'inimitabile regista ha incontrato la stampa e più tardi incontrerà anche al pubblico, quando gli verrà consegnato il Leone d'oro alla carriera dalle mani di Johnny Depp, protagonista – con Helena Bonham-Carter – anche del suo nuovo horror-musical.

"Dal 2004 ad oggi – ha detto il direttore Marco Muller – la Mostra ha consegnato il Leone ad autori che hanno messo al centro del loro cinema la fantasia al potere, così quest'anno non poteva che essere consegnato ad altri che a un regista visionario come Tim Burton".

"Sono venuto a Venezia anni fa – dice il regista – proprio per presentare "The Nightmare Before Christmas", perché è il desiderio di ogni regista che non lavora solo per il botteghino. E' un'esperienza più pura perché è un festival molto speciale e significa moltissimo per me. E poi è più bello avere un leone che la statuetta di un uomo nudo su una palla (l'Oscar ndr)".

"Le fiabe non le ho mai lette – continua –, da ragazzino vedevo i film con i mostri, erano quelle le mie favole. Ma la fiaba mi piace perché è una storia sublime, che fonde sogno e realtà. Tecnologia c'è già tanta nel cinema, ma a me piace lavorare più sul versante umano, usare il meno possibile il computer. E' bello stare sul set tutti insieme perché lì scatta la spontaneità artistica. Mi piace. Come qualsiasi altra invenzione viene usata per il bene e per il male. Considero ogni singolo processo a sé, a starne dietro si perde un po' la testa. Bisogna restringere un po' gli effetti speciali, usarli in modo diverso, con maggiore inventiva e fantasia. A volte si crea meglio con meno mezzi. Il risultato è più artistico e divertente. Bisogna soltanto tenerli sotto controllo".

A proposito di "Sweeney Todd", l'horror-musical ‑ di grande successo a Broadway ‑ che Burton ha appena finito di girare con Depp, Helena Bonham-Carter e Sacha Baron Cohen ("Borat") e che uscirà in America per Natale e da noi subito dopo. Abbiamo visto un assaggio di 8 minuti.

"Non sono mai stato – confessa – un grande fan del musical, ma 'Sweeney Todd' unisce horror e musical in modo fantastico. E' una grande sfida che ho accettato nel modo che mi piace farlo. Abbiamo girato con la musica sul set, come fosse un film muto con musica dal vivo, come si faceva allora col pianoforte durante la proiezione dei film di Lon Chaney. Un'esperienza veramente entusiasmante. Non so ancora se sarà più commedia che horror. Sarà interessante vedere cosa succede.".

Su "Big Fish", che qualcuno considera ancora troppo lontano dal suo stile e dalla sua poetica, ma che in realtà non lo è, afferma: "E' arrivato a un certo punto della mia vita, mio padre era morto da poco. Un fatto che ti colpisce in modo particolare e che non puoi anticipare. Sembrava un film horror perché, forse, è qualcosa di simile al mio spirito. Forse è un po' diverso dagli altri, ma per me è stata un'esperienza catartica".

"Io mi sono sempre sentito fortunato – dichiara l'autore di "La sposa cadavere" ‑, perché non posso essere classificato come regista, né indipendente né degli studios. Mi sono sentito più libero e questo premio è l'onore maggiore mai ricevuto e, forse, mi rinvigorirà, mi darà maggiore forza e mi spingerà ad andare avanti".

Sulla sceneggiatura, dice: "Non ho mai scritto da solo, ma è importante che sia anche mia, perciò lavoro in stretta collaborazione con lo sceneggiatore. E' un'occasione per ritirarmi e guardare la storia dall'esterno".

Su alcune costanti, visive-simboliche come la spirale, ribatte: "Non le inserisco consapevolmente, sono fatti collegati al mio subconscio, hanno un significato interiore per me, ma non l'ho mai analizzato. Forse sono cose che si sentono, qui sta la forza del cinema che fa venir fuori certe cose meglio di quelle intellettualizzate, pensate prima. Comunque qualcosa significano, ma per scoprirlo bisogna entrare nel mistero del cinema".

Non ama un suo film più dell'altro. "Dipende dal progetto – dice ‑. Mi sento vicino a tutti quanti, anche se alcuni hanno avuto meno successo. Tutti hanno un posto nel mio cuore, forse, in speciale 'Ed Wood', 'Nightmare Bifore Christmas' ed 'Edward mani di forbice', anzi fanno parte del mio cuore".

Sul feticcio Johnny Depp: "Difficile dire perché (il loro lungo e ricco sodalizio ndr) , è bello lavorare con lui perché vuole e diventa ogni volta il personaggio, una creatura diversa. In Edward non parlava, in altri non smetteva mai, in questo addirittura canta. E' divertente e creativo, gli piace provare tutto".

"La cosa interessante (in 'Sweeney Todd' ndr) è che nessuno degli attori è cantante professionista, ma soprattutto caratteristi. Ed è difficile cantare sul set, ma loro l'hanno reso speciale e ognuno alla fine lo ha fatto, senza esagerare troppo, ma è una delle poche volte che senti le voci degli stessi attori. E' uno strano processo che rende molto vulnerabili ma qualcosa ne esce fuori, rivela la persona".

José de Arcangelo

Festival di Venezia: Delude un po' lo "spaghetti-western" nipponico

VENEZIA, 5 – Diverte e al tempo stesso un po' delude l'omaggio nipponico allo spaghetti western "Sukiyaki Western Django" di Miike Takashi, presentato in concorso al festival, e che conta con la presenza – come attore e sostenitore (ma non gratis) – di Quentin Tarantino, nel prologo e nel pre-finale. Certo non mancano le citazioni, i riferimenti, le sparatorie e il tocco orientale, volutamente kitsch e coloratissimo, ma forse è il ritmo tipicamente giapponese (e soprattutto del cinema di una volta) a smorzare la tensione. Quindi, un western alla giapponese più vicino a quelli di "Trinità", perché mira più al grottesco e prende in prestito alcuni eccessi del filone precedente.

A centinaia di anni dalla battaglia di Dannoura, i clan dei Genji e degli Heike (rispettivamente i Bianchi e i Rossi) si fronteggiano di nuovo in una sperduta cittadina di montagna in cui aleggia la leggenda di un tesoro sepolto. Ma approda un pistolero solitario, oppresso da un carico di ferite emotive e dotato di una mira infallibile. E la lotta si scatena proprio per scoprire con quale gruppo si schiererà. Agguati, tradimenti, desideri e amori si susseguono fino al conflitto finale, pardon, duello finale. Django c'entra proprio nella conclusione e vi lasciamo la sorpres(in)a.

Nella sezione "Orizzonti Doc" è passato il documentario brasiliano on the road "Andarilho – Andarino" di Cao Guimaraes, sulle tracce di barboni emigranti, o vagabondi o pellegrini, che attraversano il Brasile con il loro bagaglio in spalla (o su scassati piccoli mezzi). Anche qui, il regista lascia parlare le immagini – "giocando" anche con gli effetti di luce e le inquadrature – e i suoi barboni filosofi che parlano di Dio e del destino del mondo, tra fede e follia vera o presunta. Il tutto con le infinite strade brasiliani sullo sfondo.

Per "Giornate degli autori" è stato presentato il nuovo film di Sabina Guzzanti "Le ragioni dell'aragosta", dove ritrova i vecchi compagni di avventura della trasmissione "Avanzi" (non solo). Da Cinzia Leone a Stefano Masciarelli, da Francesca Reggiani ad Antonello Fassari e al redivivo Pierfrancesco Loche. Ma ci sono anche Gianni Usai e la troupe, guidata dalla regista del programma Franza Di Rosa. Come e più di "Viva Zapatero!" si tratta di un finto (in parte) documentario che racconta come gli attori dello show cult degli anni '90 si ritrovano dopo 15 anni nel villaggio sardo Su Pallosu per mettere su uno spettacolo a sostegno della causa dei pescatori in gravi difficoltà per lo spopolamento del mare. Tra i pescatori c'è l'ex operaio della Fiat ed ex sindacalista Gianni Usai, un uomo che ha vissuto da giusto, sempre povero, sempre dedito a proteggere il lavoro degli altri, dei suoi compagni. E ottengono addirittura l'anfiteatro di Cagliari…

"Dall'esperienza di 'Viva Zapatero!' – dice la Guzzanti ‑, mi ha colpito soprattutto la reazione del pubblico che ho incontrato in tutta Italia e in molti altri paesi. La grande partecipazione alle vicende raccontate nel film era sempre accompagnata da un profondo senso di impotenza. Le domande erano sempre le stesse: cosa possiamo fare? Arriverà un leader politico onesto che ci toglierà dai guai? Se cambia il governo le cose cambieranno?

Grazie alla globalizzazione il potere di regolamentare la vita sociale non è più in mano alla politica. Alla domanda 'che fare?' ne segue subito un'altra più angosciante: 'Chi e in base a quale potere e quali risorse potrà attuare qualsiasi idea di cambiamento?'

Per questo ho pensato che il lavoro successivo dovesse affrontare questo tema: Come si trova la fiducia in un progetto sulla realtà? Come si trova la fiducia nel proprio lavoro, nel proprio passato, nel proprio presente, negli altri?

"Le ragioni dell'aragosta' – conclude l'attrice-regista – è un esperimento sull'agire, sulla difficoltà di organizzarsi, di aggregare; è un discorso sulla frustrazione e il dubbio costante sull'utilità dell'azione e sulle strategie possibili".

Forse meno graffiante del precedente (la satira politica è meno presente), la "docummedia" riesce comunque a far ridere e a lanciare ancora frecciate che colpiscono il bersaglio.

Per "Venezia Maestri" è stato proiettato "DISengagement – DISimpegno" di Amos Gitai, un dramma meno incisivo del solito, con Juliette Binoche, Liron Levo, Barbara Hendricks, Tomer Russo e Jeanne Moreau.

Naturale che la storia ruoti sempre sulla realtà israeliana e sulla sempre rimandata pace con i palestinesi. Per la morte del padre, l'israeliano Uli approda ad Avignone e si riconcilia con la sorellastra Ana. Anche lei decide di andare in Israele per ritrovare la figlia che aveva abbandonata al momento della nascita, venti anni prima, e che suo padre incontrava di nascosto. Ma non sarà facile.

"Mio figlio Ben – afferma Gitai – è in un certo senso il responsabile di questo film, colui che mi ha spinto a girarlo. Nel mese di agosto 2005, stava facendo il servizio militare obbligatorio, mi telefonò e mi disse che avrebbe partecipato alla smobilitazione israeliana da Gaza. Avrebbe filmato e fotografato l'evento. Mi suggerì di andarci. Giacché faccio il regista e mi interesso alla società israeliana, dovevo partecipare e testimoniare materialmente quello che stava avvenendo. Presi la macchina e dissi a Ben che non avevo il permesso. Sapevo che l'esercito stava sigillando la zona. Mi disse che sapeva che avrei trovato il modo di arrivarci. E' vero che a vari posti di blocco dovetti sfruttare tutti i miei aneddoti sulla guerra del Kippur per convincere i soldati a farmi passare. Infine, assieme ad alcuni giornalisti, potei accedere agli insediamenti appena prima che fossero evacuati. Ci andai di notte e vidi l'inizio del conflitto tra i militari e i coloni. Questo episodio della vita pubblica di Israele mi ha davvero molto colpito".

Nell'ambito della 64a. edizione della Mostra di Venezia sono stati presentati anche altri festival, come la 44a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, in programma dal 21 al 29 giugno 2008, che – oltre al concorso – presenterà una retrospettiva dell'autrice francese Agnés Varda, un evento speciale dedicato a Dario Argento e un Focus on: documentari statunitensi.

Presentata anche la decima edizione del Future Film Festival che, come di consueto, avrà luogo a Bologna dal 15 al 20 gennaio 2008. I direttori Giulietta Fara e Oscar Cosulich hanno anticipato le linee del programma e presentato la quarta edizione di Enel Digital Contest, concorso organizzato in collaborazione con Enel per la realizzazione di cortometraggi sul tema dell'energia.

Ma la giornata è (quasi) tutta concentrata su Tim Burton, di cui ne parleremo a parte.

José de Arcangelo

martedì 4 settembre 2007

Festival di Venezia: In attesa di Tim Burton, al lido i Francesi-Arabi

VENEZIA, 4 – A una settimana dall'inaugurazione si può provare a fare un pre-bilancio della 64a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Riguardo ai film in concorso, la selezione anglo-americana è la più forte, anche se qualche pellicola è sotto la media (il deludente "The Assassination of Jesse James…" per esempio), ad eccezione di "Redacted" di Brian De Palma, "Sleuth" di Kenneth Branagh, "In the Valley of Elah" di Paul Haggis, "The Darjeeling Limited" di Wes Anderson e, forse, "I'm Not There" di Todd Haynes, ispirato alle canzoni e ad episodi della vita di Bob Dylan. Infatti, presentato ufficialmente ieri il film ha un po' diviso (soprattutto il pubblico) perché chi si aspettava un biopic del cantautore è stato deluso, così come chi magari voleva sentire le sue canzoni e la sua voce.

Certo la sua presenza e il suo spirito ci sono eccome, attraverso ben sei personaggi diversi che però non assumono mai il suo nome. Storie parallele e incrociate che narrano spezzoni della vita del piccolo Woody Guthrie (proprio come il cantautore folk e padre di Arlo, celebre negli anni '70), interpretato da Marcus Carl Franklin, ragazzino afroamericano che attraversa l'America con chitarra sottobraccio sui treni merci/bestiame come negli anni '30/'40, ma nel '59; Arthur Rimbaud (Ben Wishaw) giovane poeta contestatore sottolineato dalla fotografia in bianco e nero; Jack Rollins (Christian Bale), ex cantautore di protesta accusato di tradimento dai suoi fan che ora, negli anni '80, è diventato pastore, mentre la sua vicenda viene ricostruita dal racconto dei testimoni di allora, tra cui l'ex compagna (Joan Baez?) interpretata da Julianne Moore; Robbie (Heath Ledger) è invece un attore egoista che non pensa ad altro che al successo e al denaro, trascurando e tradendo la moglie pittrice (Charlotte Gainsbourg) che invece ne ha rinunciato per dedicarsi alla famiglia; Jude (Cate Blanchet, irriconoscibile e impagabile in panni maschili e la più somigliante!), ancora un cantante degli psichedelici anni '60 (c'è l'incontro con i Beatles) e sempre in BN; e infine Billy (the Kid, invecchiato, cioè non ancora morto), interpretato da Richard Gere (presente al festival anche per "The Hunting Party") che all'inizio del Novecento si trova nell'utopica città di Enigma, minacciata dall'arrivo di un'autostrada.

"Il permesso – afferma il regista di "Lontano dal Paradiso" – di portare sullo schermo il primo film drammatico sulla vita di Bob Dylan era un onore che mi atterriva. La decisione di avvicinare il personaggio sfruttando molteplici prospettive, in modo di accentuarne i contrasti, le contraddizioni e la complessità, mi ha fatto sentire in grado di poterlo rappresentare fedelmente. Mi sembrava inoltre l'unico modo per accedere all'originale pazzia della sua musica".

Un film dalla narrazione non lineare dove le storie, dicevamo, si accavallano e si sovrappongono, quasi a ricomporre un suggestivo puzzle di quarant'anni di America e di una figura contraddittoria, forse, ma indubbiamente grande.

Simile nella struttura, storie incrociate (almeno tre) e gli stessi protagonisti che si ritrovano e si confondono cambiando ruoli e nomi, in "The Nines" (I Nove) di John August, già sceneggiatore per Tim Burton, al suo debutto nella regia con un film indipendente presentato dalla "Settimana della Critica". Una comedy-drama, come la definiscono in patria, complessa e complicata, ma suggestiva e coinvolgente, forse, troppo cerebrale per convincere/conquistare tutti. Comunque, si tratta di una riflessione sul difficile rapporto realtà-finzione che, nel caso di un autore televisivo (non solo), può creare una certa confusione psicologica e soprattutto esistenziale. Ma se riuscite ad entrare nel gioco può essere non solo gradevole, senz'altro divertente e intelligente, anche perché gli attori sono tutti bravi, dal protagonista Ryan Reynolds (Gary/Gavin/Gabriel) a Melissa McCarthy (Margaret/Melissa/Mary) e la più nota Hope Davis (Sarah/Susan/Sierra).

Riuscito anche l'italiano proiettato nella stessa sezione (perché non in concorso?) "La ragazza del lago", opera prima di Andrea Molaioli, un avvincente dramma (giallo ma non troppo) – ispirato al romanzo norvegese "Lo sguardo di uno sconosciuto" di Karin Fossum (Frassinelli) ‑ con un bel cast: Toni Servillo (sempre inimitabile), Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Anna Bonaiuto, Omero Antonutti e Marco Baliani.

La bellissima e giovanissima Anna viene trovata morta in riva al lago di un paesino di montagna, ma la sua morte non è il solo mistero, anzi tutti nascondono un segreto. Ben costruito, senza sbavature, in un lieve crescendo di tensione, il film di Molaioli ha il pregio di mantenere il ritmo e di avere la durata giusta per non far cadere l'interesse dello spettatore. Inoltre sfrutta magistralmente il paesaggio della provincia di Udine, trascurato dal nostro cinema. Non è poco.

Anche per "Venezia 64", cioè in concorso, è stato presentato un altro bel film, "La graine et le mulet" di Abdellatif Kechiche, già noto non solo al Lido per "Tutta colpa di Voltaire". Attraverso le vicende di una famiglia magrebina-francese, divisa tra sentimenti e conflitti quotidiani, e soprattutto del padre – separato, legato a un'altra donna e alla figliastra, e vicino al licenziamento – i disagi e i problemi ormai comuni a tutti. Uno stile sobrio, quasi documentaristico, ma ricco di tensioni ed emozioni, che un po' ricorda il cinema del marsigliese Guediguian. Dovrebbe essere già tra i possibili candidati, se non al Leone d'oro, almeno per la regia o il cast, su cui eccelle la giovanissima protagonista Hafsia Herzi.

"Si tratta di un racconto – dice il regista – che parla di un'avventura, dove la dimensione umana dei personaggi tende a costituire il motivo centrale. Impegnandomi a focalizzare l'interesse per mantenerlo su questo filo conduttore principale, era importante per me anche lasciare spazio alle digressioni che potevano venire a innestarsi sul racconto. E' per me primordiale l'associazione tra dimensioni romanzesche e resa dei personaggi nel loro ambiente naturale. L'ambiente descritto è quello a cui appartengo, e volevo rappresentare questa famiglia di "francesi-arabi" nella sua complessità, mentre si lancia nell'apertura di un ristorante familiare, guardando quindi al futuro. Una difesa energica, ma senza complessi, del diritto all'essere diverso, rappresenta una doppia sfida alla quale il mio modo di vedere mi predispone, credo, anche per un coinvolgimento sul piano affettivo".

Quasi venti minuti di applausi da parte del pubblico (pagante) confermano che si tratta di un film toccante ed emozionante, pregi che il regista aveva già ampiamente dimostrato di avere anche nel sorprendente "La schivata" (2004).

Mancano all'appello gli italiani, soprattutto in concorso dove si è visto soltanto la deludente (ma non per tutti) opera seconda di Paolo Franchi "Nessuna qualità agli eroi" con il giovane sempre più in ascesa Elio Germano, ma stasera è il turno di "Il dolce e l'amaro" di Andrea Porporati con Luigi Lo Cascio, Donatella Finocchiaro e la partecipazione straordinaria di Fabrizio Gifuni e giovedì all'atteso "L'ora di punta" di Vincenzo Marra con Fanny Ardant e (la scoperta, dicono) Michele Lastella.

E domani è la giornata dedicata al fantasioso Tim Burton, Leone d'oro alla carriera che gli verrà consegnato dal suo attore feticcio e amico Johnny Depp. Grande attesa.

José de Arcangelo

lunedì 3 settembre 2007

Festival di Venezia: Demenziale viaggio esistenziale in India per Wes Anderson

VENEZIA, 3 – Presentazione ufficiale oggi del film di Wes Anderson "The Darjeeling Limited" preceduto dal corto "Hotel Chevalier", sorta di prologo e riuscito divertissement che non uscirà in sala accoppiato al film come sarebbe giusto; ma anche del cinese "The Sun Also Rises" di Jiang Wen e del francese "La Graine et le mulet" di Abdellatif Kechiche che ha strappato un quarto d'ora d'applausi al pubblico pagante, non solo. A mezzanotte è stato il turno di "The Hunting Party" di Richard Shepard, un thriller d'azione che diventa "tragicommedia", ovviamente nera, di cui l'autore dice: "Ciò che mi ha spinto a scrivere e dirigere il film è stato l'umorismo macabro di molti reporter di guerra, la forza elettrizzante e drammatica di una storia vera e gli aspetti oscuri e al contempo comici della caccia internazionale ai criminali di guerra".

Però nella superaffollata giornata di ieri non c'era rimasto il tempo per parlare della conferenza stampa di Claude Chabrol e del cast di "La fille coupée en deux".

"Semplificata nella forma – esordisce Chabrol ‑, quella che raccontiamo (con la sceneggiatrice Cécile Maistre ndr) è una storia di grande intensità e complessià che si basa su un fatto vero trasposto ai giorni nostri. Un delitto passionale da cui è stato tratto "La ragazza sull'altalena" di Richard Fleischer, accaduto a New York nel 1907, quando un giovane uccise l'architetto (del Madison Square Garden ndr), Stanford White. Abbiamo pensato che adattandolo ad elementi, modi e costumi dei tempi nostri potesse illuminare e far emergere alcuni personaggi interessanti".

"Ci sono elementi del fatto originale – aggiunge la Maistre – che non ho mantenuto per ovvie ragioni, come il fatto che lei aveva 16 anni e lui 50, perché non erano più importanti. Mi sono occupata del triangolo e di punti di riferimento precisi, dando a lei le motivazioni moderne di una ragazza di 25 anni che lavora e vive ancora con la madre".

Infatti, il film di Chabrol sotto l'apparente convenzionalità del triangolo, fotografa sempre ottimamente (è il suo forte) la provincia francese, tra ipocrisia, passioni e delitti, ma indaga soprattutto nelle pieghe più imprevedibili e cupe dei nostri sentimenti.

"La cosa più facile – afferma la bella e sempre più brava Ludivine Sagnier – è fare quello che è già stato scritto. Ho cercato di far eliminare la scena della piuma nel sedere ma non ci sono riuscita. Sono stata conquistata da Claude e dai due (attori e personaggi ndr) come accade a tante. Gabrielle mi interessava perché è un personaggio tragico molto moderno, reagisce perché è stata umiliata, travolta dallo scandalo, e si deve difendere con forza".

"Perché il mio personaggio non è una donna gelosa? – ribatte Valeria Cavalli che nel film è Donà, la moglie tradita dello scrittore –, perché Claude ha talento nel raccontare le cose che teniamo nascoste. Le coppie reggono fino alla fine perché le donne accettano spesso il tradimento, perché hanno condiviso molte cose, perché lasciamo che ognuno faccia la propria vita. E' una profonda verità che nessuno ha il coraggio di raccontare. Io mi sono lasciata andare senza problemi".

"Le donne gelose – ribatte il regista – sono più rare degli uomini. Ho scelto Lione (per l'ambientazione ndr), anche se esitavo tra Lione e Bordeaux, perché me ne sono innamorato. Esitavo sul dare un'immagine turistica, ma non volevo neanche nascondere le origini della città. L'origine del personaggio (Paul, il giovane milionario che s'innamora della ragazza e la sposa ndr) è vera, perché i laboratori farmaceutici sono una realtà propria di Lione. Volevo fossero fatti di cronaca non inventati di sana pianta. Credo esistano in Francia solo 3 o 4 città con queste caratteristiche".

"I personaggi femminili più importanti – continua il grande autore – sono quattro e si trovano in fasi diverse del percorso di liberazione. Donà si trova più a suo agio e sopporta in silenzio, Capucine (Mathilda May) è una donna libera e lo ripete diverse volte, la madre è la donna della metà del secolo XX che, alla fine, fa quello che non dovrebbe, mentre Gabrielle, forse, porta a compimento una certa idea di libertà, forse riuscirà a liberarsi completamente".

"La mia idea – conclude Chabrol – era far sì che grazie alla tivù (Gabrielle presenta il Meteo ndr) gli stereotipi e gli uomini si confondano, non solo i due protagonisti. L'immagine di sé e sé stesso, lo scambio tra la superficie e il fondo, tra apparenza e realtà. La televisione fa parte di quelli che creando problemi ci deve poi aiutare a risolverli. Ma con attenzione, anche perché rivela la realtà delle sue menzogne. Vi ricordate Colin Powell che diceva di avere le prove della presenza in Iraq di armi di distruzione di massa, se fosse stato vero avrebbe alzato almeno il braccio per farcele vedere. Invece si è tenuto sempre in basso e in realtà non abbiamo visto niente. E' come quel film tedesco dove c'è solo un bacio ma alla fine scopriamo che è pornografico".

"Il percorso di questa giovane – chiude anche la Sagnier – mi aveva lasciato un po' interdetta. Ma dopo è stata la forza di Gabrielle che mi ha segnato, l'ambiguità fra parola e realtà, fra l'immagine di sé e quello che si è, che sei veramente. Colpisce proprio che poi scelga (nel sorprendente finale ndr) l'illusione, la magia, per esorcizzare le proprie sofferenze. Per me attrice è una metafora".

Grande attesa, non delusa, per il film di Anderson "The Darjeeling Limited" che si è rivelato una gustosissima e intelligente commedia tra l'avventura demenzial-esistenziale e il gioco del Blake Edwards più scatenato ("Hollywood Party" per intenderci). Anche perché la storia dei tre fratelli Whitman, cioè Francis (Owen Wilson), Peter (Adrien Brody) e Jack (Jason Schwartzman, anche co-sceneggiatore col regista e Roman Coppola, a sua volta coproduttore), è ambientata in India e soprattutto sul treno che dà il titolo al film. Pieno di riferimenti e citazioni (se volete anche di "Sciuscià" di De Sica), cameo di Bill Murray e Natalie Portman (anche protagonista del corto con Schwartzman), e piccola parte per la grande Angelica Huston (la madre), il film segue il viaggio "spirituale" di questi tre fratelli che non si vedono da un anno, dalla morte del padre, per andare alla ricerca della madre scomparsa, appunto, in India.

A proposito di "The Darjeeling Limited", il regista ha comunicato che "è composto da due parti. La prima, il cortometraggio, è una storia a sé ma in qualche modo collegata al film principale. Il corto non sarà proiettato nei cinema, ma sarà disponibile su internet, sarà mostrato nei festival e sarà contenuto nel dvd. Il nostro obiettivo sarebbe quello di far sì che ogni spettatore che va a veder il film abbia visto prima il cortometraggio".

Interessante il documentario cinese indipendente presentato nella sezione "Orizzonti", "San – Ombrello" di Du Haibin che, attraverso le immagini e le dichiarazioni dei protagonisti (cioè senza nessun commento aggiunto) ci fa vedere come lo sviluppo economico del grande paese sia soprattutto nelle grandi città, mentre nelle campagne operai e contadini riescano appena a sopravvivere. Infatti, molti di loro emigrano in città per dedicarsi a una più allettante attività commerciale, per entrare nell'esercito, cercare lavoro o tentare di frequentare l'università. Nessun problema di censura invece per i film indipendenti, hanno detto regista e produttori, anche perché la distribuzione avviene solo se il film ottiene un riconoscimento nei festival internazionali.

Per la "22a. Settimana della Critica" è stato presentato "Small Gods" di Dimitri Karakatsanis (Belgio-Olanda), un interessante dramma costruito come un giallo, tra violenza e disagio. Un quadro della società contemporanea attraverso la storia di una donna, col senso di colpa per la morte del figlioletto, che viene rapita in ospedale da un misterioso giovane. Anche qui siamo dalle parti del racconto esistenziale ma strutturato, appunto, come un thriller psicologico.

José de Arcangelo

domenica 2 settembre 2007

Festival di Venezia: La vita è fondamentalmente tragica, parola di Woody

VENEZIA, 2 – Giornata piena zeppa di proiezioni e conferenze stampa, questa prima domenica del festival di Venezia. Prima della presentazione ufficiale del suo film nella Sala Grande, Woody Allen, Ewan McGregor, Colin Farrell e Hayley Atwell hanno presentato alla stampa "Cassandra's Dream".

"Si può pensare a un confronto tra Caino e Abele – esordisce l'autore – nella scena, in giardino sotto l'albero, dei due fratelli con lo zio. Ma è una conseguenza delle storie mitologiche e bibliche che ho letto nell'adolescenza. Non è stata una scelta in modo deliberato. Vorrei fare un altro film a Londra – continua – perché è una metropoli cosmopolita che ha tanto in comune con New York, ma anche con Parigi e Barcellona, dove ho appena finito di girare il mio nuovo film. Tante cose sofisticate in comune, gli aspetti culturali… e credo che, in estate, sia più bella".

"Non penso – aggiunge – che i miei film siano mai cambiati in modo radicale. Ogni anno ho un'idea. Può darsi che sia tragica, morale, sul male, oppure quella di una piccola commedia. E' un po' un gioco, tutto dipende dall'idea. Quello che ho appena girato in America chiamiato comedy-drama, un dramma romantico con aspetti divertenti. Non ha ancora un titolo, ne cercherò uno adeguato".

Poi sul senso di colpa, idea centrale del film, confessa: "Ho sempre lottato col senso di colpa che si presta a due visioni. Prima perché è bello esagerare su una parte tragica della vita, una grande parte, ed è bene riderci sopra. Secondo, se la storia è seria la prospettiva della colpa diventa anch'essa seria, e il non esagerare serve per illuminare i personaggi, ossessionati e torturati dal senso di colpa. La madre (nel film ndr) vede in un figlio la consapevolezza, la coscienza; l'altro invece non ha questo senso, tanto che ruba anche quando sa che il padre incolperà qualcun altro. Sono due ragazzi con lo stesso background familiare che interpretano un atto in modo diverso. Ho fatto il film concentrandomi sui due fratelli perché penso fosse interessante il fatto che dipendano l'uno dall'altro, dalla famiglia. E quando a un membro della famiglia si chiede un favore e già compiuto prima di chiederlo. Ho tentato di sviluppare i personaggi e poi gli attori hanno fatto il resto, anche perché l'ho scritto al mio meglio. Sono riuscito ad averli tutti e hanno dato moltissimo al film. Un grande contributo. Grazie a loro vedi che i personaggi e le parole diventano carne e ossa, e si 'sente' che diventano personaggi tragici, non come sulla carta".

"Lavorare con Woody non è come lavorare con un regista qualsiasi – ribatte McGregor ‑, volevo farlo da molto tempo e abbiamo girato in tempi brevi. Bisogna dare il meglio perché di consueto si fa un'unica ripresa, ci sono molti dialoghi e l'impossibilità di ripetere la scena. Perciò prima di girare ripetevamo le battute anche al trucco. Si sapeva che si cominciava e si girava subito, tutto in fretta. E questo dà quella incredibile sensazione di reale. Ci siamo sentiti liberi di cambiare le battute ma non si vuole cambiare nulla perché è già perfetto".

"La stessa cosa. Condivido tutto – rilancia Colin Farrell, di solito in ruoli da duro ‑, ma è bello fare esperienze diverse. E' comunque il nostro lavoro, e sul set non c'era un senso di leggerezza ma una grande pace. Un gruppo di persone che racconta una storia in un periodo limitato di 6 settimane e in modo molto pacifico. Lui parlava e noi ascoltavamo".

"Lavorare con Woody – dichiara Holly Atwell – appena uscita dalla scuola, senza sapere cosa facevo, è stato fantastico, ci si sente a proprio agio. Una preparazione perfetta, una nuova esperienza fantastica e molto divertente. Il miglior ingresso per me nel cinema".

"Non dover interpretare un uomo forte, duro – aggiunge Farrell –, è stata una liberazione. Poter recitare questo tipo di personaggio e cogliere un momento della vita come un qualsiasi uomo della strada, un uomo comune, è stato entusiasmante. Woody ci ha dato carta bianca a tutti".

"La vita è molto tragica – conclude Allen ‑, un caos. Ci sono sì momenti di piacere, divertenti, ma è fondamentalmente tragica. Ho sempre voluto scrivere una tragedia, del materiale tragico, ma i miei punti forti erano sul lato comico. Non ambivo interpretare Amleto ma scrivere qualcosa di tragico. La vita è un'esperienza tragica e ho una visione cupa, pessimistica, ma ci sono delle oasi in questo caos".

E sulla Johansson chiarisce: "Scarlett e io ridiamo molto, ma non è la mia musa ispiratrice. E' una giovane attrice fantastica. Ho fatto altri due film con lei, dopo "Match Point" e ho partecipato (come attore ndr) solo a uno. Mi piace dirigerla perché ha talento, mentre con Diane (Keaton ndr) quando eravamo l'uno accanto all'altra c'era una sorta di chimica, di perfetta alchimia, tra lei e me e ci divertivamo un sacco. Scarlett fa per sé, non ha bisogno di una spalla. Illumina chiunque le stia accanto, è splendida e bravissima e ha un futuro radioso davanti a sé".

Anche il brasiliano Julio Bressane e la protagonista del suo "Cleopatra", Alessandra Negrini – diva televisiva in Sud America ‑ hanno presentato il loro film.

"La storia di Cleopatra – comincia il regista – la si può ritrovare nella storia della musica, della pittura. Appropriarsi del mito attraverso la prospettiva della lingua portoghese, la lirica di un percorso significante, è una visione molto locale, intraducibile, che poggia sulla potenza della suggestione delle immagini. Non si può, ovviamente, fare tutto in due ore, ma l'universalità viene fuori attraverso la lirica della lingua portoghese. Il tema segue tutta l'iconografia, anche kitsch, di un mito che non esisteva nella nostra lingua".

"E' stato girato in due parti – afferma la bella attrice ventisettenne ‑. Quella con Giulio Cesare è la razionalità, la politica; la seconda con Antonio (Miguel Falabella, anche lui divo tv ndr) muta diventando dionisiaca, quasi in trance (come la protagonista ndr)".

Poi sala conferenza stracolma per l'arrivo del bel Brad Pitt, con al seguito il regista Andrew Dominik, i coprotagonisti Casey Affleck, Sam Shepard, e i produttori (sempre con Pitt) Ridley Scott, Dedè Gardner e Jules Daly, in concorso con "The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford".

"Non è che non lo conoscesse – esordisce Pitt su Jesse James – ma non abbastanza. Sono nato nel Missouri, conosco benissimo la regione, mi piace la maniera di parlare e sentire l'accento. Non conoscevo molto la leggenda, i suoi ultimi anni di vita. E' un film complesso e complicato che non fa parte dell'odierno cinema hollywoodiano, forse somiglia più a quello degli anni Settanta. Abbiamo tagliato parecchio. La prima versione durava quattro ore e mezza. Penso che ora sia un film bellissimo che respira come un buon vino. Ogni volta che un film ha un significato storico si cerca di essere il più autentici possibile. Anche nella recitazione uno lo fa ma, forse, nessuno lo noterà. La fa per se stesso".

"Credo – continua in una conferenza concentrata quasi esclusivamente su di lui – che la definizione western sia un po' stretta, casomai è un film di gangster come dice il regista"

A proposito del rapporto amore-odio tra Jesse e il suo assassino, afferma: "Se vi fa piacere, potrebbe esserci un sottofondo omosessuale, lo si può interpretare come vuole. Forse Ford ha bisogno di valorizzare il ruolo dell'eroe, così arriva anche a distruggerlo in modo sbagliato"

"Racconto nel film – aggiunge Dominik – le difficoltà all'interno dei personaggi, non fra i personaggi".

José de Arcangelo

sabato 1 settembre 2007

Festival di Venezia: Il maestro Woody Allen e il divo Brad Pitt a Venezia

VENEZIA, 1 -Week-end superaffollato al Lido, non solo addetti ai lavori da tutto il mondo, ma anche dal pubblico locale e internazionale che approda per avere almeno un assaggio della kermesse cinematografica. Tanti gli ospiti arrivati oggi, alla vigilia della presentazione ufficiale dei loro film: prima di tutti il divo Brad Pitt (e consorte Angelina Jolie al seguito), ma anche Casey Affleck (fratello del più noto Ben) e il regista Andrew Dominik per "The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford"; la bellissima Charlize Theron, ancora in un ruolo dove la bellezza conta poco, in "In the Valley of Elah"; Woody Allen e due dei protagonisti del suo film "Cassandra's Dream", Colin Farrell e Hayley Atwell. Dal fronte europeo il maestro Claude Chabrol con la protagonista Ludivine Sagnier e la sceneggiatrice Cucile de Maistre per "La fille coupée en deux" (La ragazza tagliata in due), e poi gli italiani Marta Bifani ("Hotel Meina" di Carlo Lizzani), Anna Bonaiuto e Omero Antonutti ("La ragazza del lago"), Fabrizio Gifuni (per lo stesso film e per "Il dolce e l'amaro"). Per l'omaggio a Michelangelo Antonioni Carlo Di Carlo e la vedova del maestro Enrica Fico Antonioni. Dal Brasile l'ultima "Cleopatra", ovvero l'attrice Alessandra Negrini, protagonista del film di Julio Bressane.

Tornata in primo piano la guerra in Iraq con il film, in concorso, "In the Valley of Elah" dello sceneggiatore-regista premio Oscar per "Crash – Contatto fisico", Paul Haggis, con un cast d'eccezione capeggiato da Tommy Lee Jones e Charlize Theron. Un dramma sul filo del thriller che parte come un giallo d'attualità e finisce pian piano tra omicidi e misfatti conseguenze della guerra, appunto.

Un dramma amarissimo, che prende spunto da un articolo di Mark Boal apparso su "Playboy": la storia vera di un veterano in pensione che scopriva la crudele verità sul brutale omicidio del figlio, soldato a sua volta, scomparso dopo il ritorno dall'Iraq.

"La Bibbia racconta – dice Haggis – che Golia, ogni giorno, per 40 giorni, sfidò al combattimento, nella valle di Elah, i guerrieri più valorosi di re Saul, ma che nessuno di loro accettò la sfida. All'is="MsoNormal">"La Bibbia racconta – dice Haggis – che Golia, ogni giorno, per 40 giorni, sfidò al combattimento, nella valle di Elah, i guerrieri più valorosi di re Saul, ma che nessuno di loro accettò la sfida. All'improvviso, un giorno, si presentò un ragazzo di nome David, che portava del pane, dicendo: 'Combatterò il gigante'. E armato solo di una fionda e di cinque sassi levigati, avanzò per affrontarlo. Il gigante si lanciò subito alla carica. David non si mosse e, dopo aver fatto scoccare la fionda, colpì il gigante. Quello fu certo un atto di incredibile coraggio. La Bibbia, però, tace sul numero di ragazzi valorosi inviati dal re nella valle prima di Davide. Quante storie di giovani eroi sono andate perdute e oggi non vengono raccontate? Questa nostra guerra richiede che vengano prese ogni giorno decisioni al limite dell'impossibile, spesso senza avere nemmeno il tempo di pensare, con esiti a volte positivi e a volte disastrosi. Non mi interessava sapere in che modo le persone non giuste vivono in seguito a decisioni sbagliate. Volevo, invece, sapere come è la vita di una persona giusta che prende le decisioni giuste. Sia che siamo favorevoli o contrari alla guerra, quelle donne e quegli uomini si trovano là perché noi, e i nostri governi, le abbiamo inviate. Possiamo anche tentare di sottrarci a ogni responsabilità o di prendere le distanze, ma loro sono i nostri soldati, le nostre donne, i nostri uomini e noi siamo responsabili nei loro confronti. Fanno questo per noi. E sempre per noi sopportano quello che viene fatto loro".

Infatti l'opera di Figgis mette l'accento soprattutto sul perché questi ragazzi siano indirettamente costretti ad andarci e come una volta là perdano man mano ogni sensibilità, ogni segno di umanità. Quell'andare oltre ogni limite da cui poi raramente si può tornare indietro. A parte l'ottimo lavoro degli attori e un crescendo di tensione ed emozioni, non possiamo rivelare di più sulla vicenda per non togliere allo spettatore l'effetto sorpresa. Perché la storia viene ricostruita attraverso le indagini del padre del ragazzo e dell'investigatore di polizia Emily Sanders. Nel cast anche una sempre incisiva Susan Sarandon (la madre).

E, come nel film di De Palma, anche qui le immagini quotidiane dell'Iraq, tra orrori e "divertimenti", vengono dal video, anzi sono quelle scattate o girate col telefonino.

Sempre più difficile conciliare proiezioni e conferenze stampa perché, ovviamente, si accavallano e si confondono sempre di più.

Affollatissima l'anteprima (unica) per la stampa del nuovo film di Woody Allen, anche lui nella sezione "Venezia Maestri", "Cassandra's Dream" che, come accade sempre dopo "Melinda & Melinda", si tratta di una commedia-tragedia. Così si ride poco e soprattutto nella prima mezz'ora scarsa con le consuete battute ironico-sarcastiche e poi si passa alla tragedia familiare. Il titolo si riferisce alla barca a vela sognata e comprata da due fratelli di origini irlandesi che vivono con i genitori a Londra. Uno fa il meccanico ma è un accanito giocatore d'azzardo che si mette nei guai, l'altro è più serio e prudente, aiuta il padre nel ristorante di famiglia, vuole gestire un albergo in California, ma intanto s'innamora di una bellissima attrice. Entrambi hanno bisogno di soldi e l'arrivo del miliardario zio chirurgo plastico sembra la soluzione ideale… solo che l'ammirato zio (la madre lo cita continuamente come esempio positivo) propone loro in cambio un omicidio.

Come dicevamo a questo punto la storia si fa pian piano sempre più drammatica per finire nella classica tragedia, di cui non mancano rimandi e citazioni.

Senza raggiungere i livelli di "Match Point", Allen continua la sua riflessione sul caso e sul destino. Ci capita, cioè è segnato, o ce lo facciamo noi? Bel cast anche qui, oltre a Farrell e la Atwell, ci sono Ewan McGregor e il grande Tom Wilkinson che abbiamo appena visto in "Michael Clayton".

Nella stessa sezione presentato il lungometraggio del brasiliano Julio Bressane "Cleopatra". Un'originale, se vogliamo bizzarra, rivisitazione del mito della regina d'Egitto attraverso il filtro della riflessione contemporanea, ma sempre in costume. Un po' alla Manoel de Oliveira (soprattutto all'inizio), un po' "cinema novo" (periodo in cui il regista si è formato), molto Bressane: interpretazione libera, sarcastica e, se volete, erotica di personaggi storici e letterari, tipica del suo "cinema marginal".

Tra le tante iniziative della giornata, è stato presentato – alla presenza di Spike Lee, presidente della giuria – il Babelgum Online Film Festival", aperto a corti e mediometraggi che abbiano partecipato a festival in tutto il mondo. Nessun costo d'iscrizione. Adesioni aperte fino a febbraio 2008 e sarà tutelato il copyright. I premi: Giovane talento, cortometraggio, documentario, animazione, opera di rilevanza sociale/ambientale e spot pubblicitario. info@babelgum.com

José de Arcangelo