sabato 28 giugno 2008

Il maestro della paura incontra il pubblico di Pesaro, mentre in Malesia l'orrore vien cantando


PESARO, 28 – Ultimo giorno per la 44a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro che chiuderà i battenti stasera con la premiazione in Piazza alla presenza di Dario Argento - già arrivato e stamattina al centro di un convegno -, e sigillata con la proiezione della versione ‘integrale’ di “Opera” del maestro italiano.

Il maestro della paura ha ricordato un episodio accaduto non molti anni fa, a Bologna, dove era stato invitato per una conferenza al Dams. "In un sala piena si parlava di me. Ma dopo poche parole venivo definito in modo sprezzante come un personaggio pericoloso, schifoso , addirittura fascista. Tanto che a quel punto un giovane un po' fichetto si alza per far vedere che non ero così schifoso, altrimenti perché mi avrebbero invitato. Allora sono stato io a dire 'Mi sono stufato e me ne vado finché non mi chiederete scusa'. Qui, oggi, accade l'opposto e mi sento un po' imbarazzato. Tutto per colpa dei critici che mi hanno sempre perseguitato e insultato per anni".

Argento è stato anche lui rivalutato? Forse, ma lo amano quelli che anno amato allora e oggi i suoi film e le nuove generazioni cresciuti con i suoi film famosi e apprezzati in tutto il mondo. Meno in Italia perché l'horror non è mai stato amato dagli intellettuali, forse perché - nel suo caso - ripropone, anzi svela, le nostre paure più nascoste e i nostri istinti più bassi. Quel Male che non è il demonio, ma un male che ci portiamo dentro di noi e che difficilmente viene sconfitto totalmente. Per il quale non c'è un Paradiso possibile come sostiene la Chiesa della colpa e del perdono.

Però ieri abbiamo visto gli ultimi film in concorso e tanti altri delle diverse sezioni. Apertura, la mattina, con un lungo (2 ore e 20’), cupo e pessimistico, anzi apocalittico, dramma esistenziale “Abendland - Nightfall” di Fred Keleman, co-produzione con il Portogallo, e in gran parte lì girato. Tutto il disagio e lo squallore di fine millennio (è del 1999) nella vicenda del disoccupato Anton e del suo rapporto con Leni, stiratrice in una lavanderia. Tutto in una notte per constatare che l’amore non c’è o forse non c’è ancora stato in questo mondo violento e indifferente, cieco e spietato.

Poi è stata la volta della tavola rotonda sul cinema malese o malaisiano come dir si voglia, alla presenza dei registi, produttori e critici. Un cinema giovane e dinamico che è esploso grazie al digitale e si è sviluppato in tutta libertà e indipendenza per ottenere negli ultimi anni risonanza internazionale.

Nel pomeriggio ancora Cinema Tedesco Contemporaneo con “Stadt des Lichts – Città delle luci” di Mario Mentrup & Volker Sattel (anche fotografia) che prende spunto dal cinema western del periodo del muto per raccontare una storia vecchia (ma non troppo) che però si rivela ancora attuale, allora in America oggi in Germania, e ovunque ci sia ‘sviluppo e speculazione’. Girato come un film ‘amatautoriale’, ovviamente senza dialoghi ma con un narratore, è come lo definiscono gli stessi registi un “wurstel western” anziché spaghetti. Senza cavalli ma con tanti personaggi, tra cui anche uno dei registi, Mentrup.

Il progetto di una ferrovia a Berlino, chiamato Pasadena Project (ripreso da uno stesso piano anni ’90 in California) ha trascinato parecchi investitori sull’orlo della bancarotta e ha devastato molti quartieri e sobborghi periferici. La popolazione (in gran parte immigrati) è diminuita, afflitta dai debiti, dalle malattie e rimasta senza tetto.

A seguire il penultimo film in concorso, il filippino “Balikbayan Box" di Mes De Guzman, anche stavolta una storia che ha per protagonisti i bambini, ma dirottata più sul dramma (dal finale tragico) che sulla commedia. Il più grande divertimento dei ragazzi, i fratelli Ilyong e Jun Jun, e Momoy che li segue come un cagnolino, è guardare action-movie all’improvvisato Betamax House, una sorta di cinemino ricavato in una capanna, dove si proiettano (a pagamento) dvd pirata. Però intorno ai ragazzi ci sono la lavandaia Mameng che vorrebbe andare a lavorare a Hong Kong, Tiago che fa il guardiano di una piantagione e beve per allontanare le sue ossessioni, e poi genitori, zii, vicini.

Un quadro di vita quotidiana nella provincia-campagna dove regna l’arte d’arrangiarsi e l’istinto di sopravvivenza, infatti i bambini pescano e poi vendono il pesce al mercato, raccattano e, quando possono, rubacchiano qualcosa da mangiare. E lo fanno anche gli adulti, infatti una delle ossessioni di Tiago sono quelli che rubano nella piantagione e che lui cerca di spaventare con la sua mitraglietta. Perciò andrà a finire male.

“Spero di riuscire a trasmettere – afferma De Guzman – il significato paradossale della B alikbayan Box, che non è un recipiente che trasporta semplici merci e chincaglierie, bensì un prodotto culturale, una sorta di geroglifico sociale, quasi un’urna sacra contenente sacrifici e memorie di battaglie personali combattute in nome della sopravvivenza quotidiana che rappresenta la lunga e tormentata lotta e storia del popolo filippino”.

L’ultimo film del concorso è stato invece presentato in piazza, preceduto dal corto della premiata ditta Flavia Rastrella & Antonio Rezza “Nell’aldilà”. Si tratta di “Eldorado”, scritto, diretto e interpretato dal belga Bouli Lanners. Una gustosa commedia – apprezzata e premiata alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes - ispirata a un fatto realmente accaduto. “Una notte – racconta il regista – sono tornato a casa e ho trovato due ladri. Uno era nascosto sotto il mio letto, l’altro sotto la scrivania! Una situazione assurda; tre persone spaventate e una lunga notte a parlare. Partendo da questa circostanza, ho costruito e inventato una storia in cui gli aneddoti sono trasformati e approfonditi. L’avventura tra Yvan ed Elie è pura finzione ma mescola le cose della vita reale a momenti di invenzione”.

Quindi, una commedia on the road – perché il quarantenne Yvan decide di riportare a casa dei genitori lo sfigato ladro Elie – sulla scia del demenziale che però non trascura emozioni e sentimenti, illustrando la nascita di una bizzarra amicizia.

Ora tocca alla giuria, tutta al femminile, quale dei film visti è il migliore. Secondo noi i favoriti dovrebbero essere il malese “Flower in the Pocket” di Liew Seng Tat, l’italiano “La terramadre” di Nello La Marca, “Vasermil” dell’israeliano Mushon Salmona, oppure “Eldorado” stesso o ‘a sorpresa’ il visionario “Nirvana” del russo Igor Voloshin. Molto dipende anche dal gusto personale di ognuna delle componenti della giuria e, la cosa più difficile, che poi coincidano nella scelta.

Visti anche, per Bande à Part, il russo “The Best of Times” di Svetlana Proskurina che racconta l’odio-amore tra due donne che si sono conteso lo stesso uomo per quasi cinquant’anni, anche dopo la morte di lui. Un (melo)dramma in tre tempi e con tre attrici diverse per ognuna delle protagoniste perché parte con le donne oggi, ormai anziani, che rievocano attraverso lunghi flash-back, la giovinezza quando si sono conosciuti i tre giovani, la maturità e, infine, la vecchiaia. Un mélo, quindi, sobrio e non privo di fascino, grazie anche al cast, e che ha il merito di una durata standard (93’), fatto raro in un film del genere.

Conclusasi la personale Amir Muhammad con “Susuk”, firmato a quattro mani con Noeim Ghalili, un originale e curioso horror che racchiude in sé altri generi come il musical (la protagonista sogna di fare la cantante), la commedia di costume e, in parte, il dramma.

La giovane infermiera Soraya, capitata per caso nel mondo delle star della musica leggera, decide di fare la cantante. La diva Su zana, di cui lei è fan accanita, le confessa che la pratica proibita del Susuk l’aiuterà senza dubbi come ha fatto con lei stessa e le sue colleghe. Ma esiste un rito estremo, ancora più potente: il Susuk imperiale…

Il film per un pubblico occidentale forse troppo lungo, ma risulta comunque ‘divertente’ e non è privo di citazioni, dallo stesso Dario Argento di “L’uccello dalle piume di cristallo” e “Suspiria”, passando per l’horror giapponese di ultima generazione.

José de Arcangelo

venerdì 27 giugno 2008

Pesaro: rincontro con Solanas quarant'anni dopo


PESARO, 27 – Siamo arrivati al penultimo giorno della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro 2008, ma ieri è stata un’altra giornata ricca di film e di eventi culturali. La mattina si è aperta con la proiezione, per la monografica Cinema Tedesco Contemporaneo, di “Milchwald” di Christoph Hochhausler, e si è chiusa con l’interessante tavola rotonda sul tema in presenza dei registi ospiti del festival.

Il primo pomeriggio è stato all’insegna del cinema malese con la presentazione di una selezioni di sei cortometraggi realizzati negli ultimi sei-sette anni, cioè da quando il digitale è diventato mezzo di espressione a portata di tutti e ha visto nascere una vera e propria generazione di registi, di cui Amir Muhammad – che li ha selezionati – è il più noto rappresentante. Presente all’incontro anche Tan Chui Mui, anche lei produttrice, regista di “A Tree in Tanjung Malim” e protagonista del corto “Sometimes Love is Beautiful” di James Lee.

Poi l’evento del 40° Anniversario del ’68, con la proiezione della terza parte de “La Hora de los Hornos” e l’arrivo del regista, direttamente dall’Argentina via Parigi-Bologna, Fernando Solanas. Un rincontro davvero emozionante perché l’autore, con il fondatore Bruno Torri, hanno rievocato l’allora quarta edizione del festival prima contestata, come ogni manifestazione culturale promossa dalle istituzioni “borghesi”, e poi trasformatasi in una sorta di assemblea permanente tra registi latino-americani e italiani. Tra i “nostri” c’erano l’attivissimo Valentino Orsini che - secondo Solanas che l’aveva conosciuto in Argentina, dove era andato a girare un documentario industriale - l’aveva spinto a realizzare la post-produzione e le copie del suo film in Italia, precisamente nei suoi laboratori di Roma. Ma nell’ormai lontano ’68 c’erano anche Bertolucci, Bellocchio, Gregoretti e tanti altri, tra brasiliani, argentini – c’era anche il co-sceneggiatore collaboratore di Solanas, Octavio Getino – venezuelani, cubani, e, ovviamente, studenti di tutt’Italia.

Poi l’autore argentino ha parlato non solo della realizzazione e della diffusione ‘clandestina’ del suo documentario-saggio socio-politico dell’America Latina, ma anche della situazione nel continente e nel paese sudamericano oggi. Ne riparleremo.

In serata, per Bande à part, un altro film malese del 2007: “Taufu - Prigione” di Brando Lee. Un dramma quotidiano che narra la vicenda di Hong, uscito dal carcere dopo cinque anni e ancora assillato dal ricordo della moglie e del figlio, uccisi in un incidente stradale mentre guidava ubriaco. E la vita fuori dalla prigione sembra peggiore, nonostante il padre insista nel fargli prendere in gestione l’attività familiare di produzione di taufu. Anzi il giovane finirà nel giro della prostituzione.

“Una volta lessi un libro religioso – confessa il regista – e rimasi molto attratto dal credo: ‘Ciò che dai, è ciò che ottieni’. Tutti fanno errori nella vita, ma sarà data una seconda possibilità, o dovrebbe essere data? Io credo di sì, ma si può fuggire dalla punizione per gli errori fatti? Credo di no, proprio perché: ‘Ciò che dai, è ciò che ottieni’”.

In piazza invece è stato presentato un ambizioso film tedesco scritto e diretto da Martin Gypkens, presente alla Mostra, “Nichts als Gespenster - Nothing but Ghosts”. Cinque storie incrociate e raccontate parallelamente, girate in cinque paesi diversi (Germania, Italia, Giamaica, Usa e Islanda) in cinque mesi. Un dramma on the road per parlare ancora di disagio, crisi dei rapporti (di coppia) e solitudine che ci fa constatare che il viaggio non basta se non riesce (né riusciamo) a cambiare noi stessi. Emergono in primo piano soprattutto i ruoli-ritratti femminili.

Ellen e Felix (l’episodio più intrigante-inquietante) sono in viaggio in macchina nel Sud-Ovest degli Stati Uniti per vedere il deserto, ma è la loro relazione ad essere arida; Caro (quello più autorial-esistenziale, forse), di ritorno da Praga, si ferma a Berlino a casa della sua amica Ruth che le presenta il suo nuovo ragazzo, e lui finisce per innamorarsi (ricambiato) di lei; Jonas e Irene (il più curioso e ‘carnale’) – che si dichiarano ‘migliori amici’ – cercano rifugio in Islanda da un vecchio amico sposato per superare relazioni fallite, ma finiscono a letto insieme; Marion (forse l’episodio più debole e banale) vuole festeggiare il suo compleanno con i genitori che si trovano in viaggio a Venezia; Christine (nella vicenda più ambigua) si ravviva quando un tornado si avvicina alla Giamaica, dove è ospite di amici.

Un buon film che però non eccelle, nonostante l’ottimo cast corale con volti ormai popolari in patria e che noi, in soli cinque giorni, abbiamo già imparato a riconoscere, tra cui August Diehl, Maria Simon, Jessica Schwarz, Janek Rieke, Brigitte Hobmeier. Da segnalare anche la fotografia di Eeva Fleig.

Va ancora avanti la retrospettiva-omaggio (quasi completa) Dario Argento che ieri ha presentato i suoi lavori degli anni Ottanta-Novanta: l’episodio del dittico, firmato con George A. Romero, “Due occhi diabolici” (1990), ovvero “Il gatto nero”; “Opera (1987), “Phenomena” (1985), “Trauma” (1993) e “La Sindrome di Stendhal” (1996). Nel Dopofestival altri cinque corti di video arte: “Nummer Vier” di Guido van der Werve, “Hit Me” di Oliver Pietsch, “Real Remnants of Fictive Wars – Part I” di Cyprien Gaillard, “Senza titolo (Dirigibili)” di Matteo Rubbi e “Balcus’ Latvia 1989-91” di Arnis Balcus.

José de Arcangelo

giovedì 26 giugno 2008

"Flower in the Pocket", la rivelazione della Mostra di Pesaro

PESARO, 26 – Ormai è iniziato il conto alla rovescia – chiude i battenti sabato – per la 44a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, anche se mancano ancora tanti film e l’Omaggio a Dario Argento si può dire che è appena iniziato (martedì).

Ancora due interessanti lungometraggi della sezione Cinema Tedesco Contemporaneo nella mattinata di ieri. “Mein Stern – La mia stella” di Valeska Grisebach (coproduzione con l’Austria) che narra con delicatezza e sincerità i primi amori di due adolescenti di oggi. I quattordicenni Nicole e Christopher si incontrano proprio mentre attendono – soprattutto lei - che nella loro vita succeda qualcosa di importante. Tra i due nasce una piccola grande storia d’amore: i due si vedono nell’appartamento di Nicole, anche perché la madre ha iniziato a lavorare di notte. Seduti attorno al tavolo di cucina o sul divano, mentre le sorelle più piccole di lei ‘dormono’, i due giocano a fare la coppia. Ma ben presto scopriranno che le cose non sono così semplici come sembrano.

“Talvolta osservo queste coppie di ragazzini – ha detto Grisebach -: vivono il loro primo amore con assoluta sfrontatezza e sembrano perfettamente a loro agio quando fingono di essere marito e moglie. L’immagine del loro amore è pura e unica”. Però, possiamo aggiungere, poi si ritrovano ad affrontare gli stessi problemi degli adulti, o quasi.

“Atome - Atoms” di Till Steinmetz è invece un dramma quasi apocalittico, girato nell’ex Germania dell’Est che ben si adatta all’atmosfera. In un “mondo che - secondo il regista - sta andando a pezzi ma in cui loro (gli uomini, tutti noi ndr.) provano lo stesso a sopravvivere”, le vicende on the road di Hannah alla ricerca della ‘felicità”.

“Come puoi cercare la felicità – aggiunge Steinmetz – se non hai il tempo per pensare al suo significato? Afferra il tuo tempo, siediti, rilassati. Lentamente ti trascineremo in un mondo parallelo dove tutto sembra identico ma niente è uguale al mondo che si sta distruggendo”.

Nel primo pomeriggio la seconda parte di “La Hora de los Hornos” di Fernando Solanas (Argentina 1968), dal sottotitolo “Atto a favore della liberazione” che ricostruisce, soprattutto, gli anni del peronismo (1945-1946) e i primi anni Sessanta. Oggi la terza e ultima parte “Violenza e liberazione”, alla presenza del regista, a cui seguirà un ‘dibattito’ in piena regola, preceduto da immagini della Mostra del 1968 (4 minuti) dell'Archivio di Movimento Operaio.

Deludente, purtroppo, il film cileno in concorso “Mami te amo – Mammina ti amo”, opera prima di Elisa Eliash. Originale e sperimentale al punto giusto ma senza colpi di genio né vere emozioni.

Una madre quasi cieca ogni giorno lascia la figlia adolescente da sola. La ragazzina per far piacere alla mamma fa un gioco macabro in modo da sembrare come lei, almeno fin quando il gioco sembra produrre risultati al di sopra di ogni aspettativa.

“Abbiamo messo da parte le certezze – dichiara l’autrice – per puntare sulla ricerca come luogo più onesto per esplorare senza cadere negli stereotipi e per fare in modo che la verità del film venisse fuori. Inevitabilmente, il narratore è incarnato nella figura di una ragazzina nella fase della crescita, per alcuni versi inquietante, con molti misteri ma tenace, proprio come la sua regista, in viaggio verso le origini, il linguaggio e la casa. Dove una maschera non nasconde, ma rivela”.

Peccato che le intenzioni non vengano confermate dal risultato, però la Eliash è al suo primo lavoro e crescerà bene, anzi meglio di Raquelita, la protagonista del suo film perché le doti ce l’ha.

A seguire uno dei più riusciti – tra quelli visti finora – documentari di lungometraggio di Amir Muhammad “The Last Communist” che non ha avuto il visto di censura nel proprio paese, proprio quando il regista l’ha chiesto per la prima volta. Il film gira in patria grazie a internet e copie pirata. “E’ questa la vera globalizzazione” scherza l’autore a proposito di dvd e pirateria.

Un documentario particolare, come altri suoi, ma stavolta in musical, perché oltre a ricostruire la storia del comunismo in Malesia, attraverso il suo leader Chin Peng e visitando i luoghi dove lui è stato negli ultimi ottant’anni per intervistare la gente, Muhammad intercala dei gustosi numeri musicali che ‘inneggiano’ ironicamente al comunismo e alla Malesia. Quindi un gradevolissimo non-documentario.

Gelido e inquietante il cortometraggio di Jean-Gabriel Periot (l’anno scorso c’è stata a Pesaro la monografica dei suoi corti e cortissimi) “Entre chiens et loups”. Un giovane alla disperata ricerca di un lavoro, oggi, attraverso un ritratto lucido e disarmante.

In piazza una riuscitissima commedia di vita, sempre in Malesia, precisamente a Kuala Lumpur, dalla mano di due simpaticissimi fratellini cinesi “Flower in the Pocket” di Liew Seng Tat.

Li Ahn e Li Ohm vivono abbandonati a loro stessi. Il padre Sui, malato di lavoro, da quando è morta la moglie, spende tutto il suo tempo a riparare manichini nella sua bottega. Mentre si chiude nel suo mondo (e dorme dopo sedici ore di lavoro), i due ragazzi si svegliano, si vestono e corrono a scuola. E, di ritorno, instaurano nuove amicizie – soprattutto con una ragazzina -, fanno scherzi, giocano, litigano, adottano un cucciolo abbandonato e a tarda sera si incamminano verso casa, si fanno qualcosa da mangiare e vanno a letto. Ma i piccoli disastri, ad un certo punto, rischiano di diventare drammatici e il padre sarà costretto a rivedere la sua vita in rapporto con i figli.

“Quel che ha sempre caratterizzato il mio lavoro – confessa il regista – e che lo caratterizzerà sempre, è l’elemento della commedia. Quando i miei amici vedono i miei film, li riconoscono come perfettamente rispondenti alla mia personalità”.

E veramente riesce a raccontare una storia, per certe versi molto drammatica, con leggerezza, delicatezza ed ironia, in equilibrio fra tragedia e commedia, appunto. Quasi a metà strada fra Comencini e Truffaut, soprattutto perché si tratta di bambini.

Seconda ‘nottata’ per il Dopofestival con altri sei corti di video arte: “Loves Come To Me” di Oliver Pietsch, “Nummer Drie” di Guido van der Werve, “Wrong Side of a Gun” di Amis Balcus, “You Can’t Keep a Good Snake Down” di Moira Tierney, “Chi ha amato Desiderio” dell’italiano Werther Germondari ed “Everything I Knew About America I Learned from the Movies” di Nomi Talisman. Collage e montaggi sperimentali che giocano sul fascino delle immagini e, soprattutto, sul cinema che li ha ispirati. Come appunto gli ultimi due titoli, quello della Tierney gioca con l’avventura esotica tra Maria Montez e Jackie Chan, mentre il secondo (assemblando 11 corti 8 e 16 mm in uno) rivisita i generi dal western a porno, passando per il musical e il vecchio caro Hitch.

José de Arcangelo

mercoledì 25 giugno 2008

A Pesaro le 'lame' spietate di Argento e Desplechin

PESARO, 25 – Quarta giornata per il festival di Pesaro e inaugurazione di nuove sezioni, quindi, il programma si infittisce ed entra in gioco un’ardua scelta. Cosa vedere? Come fare a recuperare le opere ‘perse’? Sono questi i dilemmi di cinefili, appassionati e addetti ai lavoro, ma non solo.

La giornata è cominciata con un dramma del Cinema tedesco contemporaneo: “Der Wald vor Lauter Baumen – The Forest for the Trees” di Maren Ade. Ancora insicurezza e solitudine al centro della vicenda di una giovane insegnante idealista, Melanie Proeschle, che inizia il suo primo lavoro alla scuola superiore della cittadina dove è stata trasferita. Ma tutte le sue buone intenzioni vengono subito deluse da colleghi anziani e conservatori, allievi ribelli, irrispettosi e addirittura presuntuosi. Per di più si ritrova sola in un ambiente a lei ostile, ma lei non demorde e tenta di fare amicizia con la vicina Tina. Riesce ad entrare in contatto con la donna, anche perché la donna è stata appena lasciata dal ragazzo e vede in Melanie l’occasione per distrarsi. Solo che Melanie, man mano che la situazione a scuola peggiora, diventa sempre più invadente e insistente portando Tina all’esasperazione, anzi a troncare la loro amicizia. A questo punto a Melanie resta solo la disperazione. Sostenuto da un ottima interprete (Eva Loebau), il film coinvolge ed emoziona ma, ovviamente, lasciando l’amaro in bocca. Grazie a un sottile crescendo di sentimenti e situazioni che acquistano le atmosfere del thriller esistenziale.

Di seguito un’altra opera per l’Omaggio a Amir Muhammad, il documentario “The Year of Living Vicariously” (Malesia/Indonesia, 2005) che, girato durante la lavorazione del film indonesiano “Gie” – pellicola su uno studente scrittore e attivista degli anni ’60 morto in giovane età – combina immagini delle riprese e numerose interviste che illustrano la situazione culturale e politica di quelli anni.

Nel primo pomeriggio l’evento speciale “La hora de los hornos” di Fernando E. Solanas. Proiezione della prima parte (oggi la seconda e domani la terza), del monumentale documentario sulla situazione economica, sociale e politica dell’America Latina nel 1968, e soprattutto dell’Argentina, paese del regista, presentato in anteprima mondiale quarant’anni fa proprio a Pesaro. Un film a lungo proibito in patria, dove si riusciva a vedere solo in proiezioni clandestine, improvvisate tramite una sorta di appuntamento al buio, per incontri, riunioni o addirittura feste. Un documento storico che, nonostante gli anni, riesce ancora ad emozionarci e a chiarirci le idee sul destino del Sudamerica che non sembra cambiato minimamente, tranne che superficialmente. Sono cambiati invece i tempi, c’è stato un ritorno alla democrazia ma le risorse finiscono ancora altrove, e “il popolo” - come si diceva allora - “jamas serà vencido” ma è sempre più povero.

Nel concorso di scena il Giappone con “Asyl – Park and Love Hotel” di Izuru Kumasaka, sempre sui temi solitudine e mancanza di affetto, in un dramma al femminile con spunti da commedia.

Proprietaria di uno ‘strano’ hotel nel centro di Tokyo, Tsuyako – dopo la sparizione del marito – ha trasformato il terrazzo-giardino in una sorta di parco pubblico, frequentato soprattutto dai bambini della zona. Ma la presenza di tre donne riesce a ravvivare la sua solitaria esistenza: la tredicenne Mika, la casalinga Tsuki e la sofisticata Marika. Il rapporto che si instaura e l’aiuto di Tsuyako le porterà, non senza conflitti, a ritrovare la forza di andare avanti.

“Sebbene sorrida raramente – dice il regista -, accoglie nel suo cuore il profondo dolore delle persone. Il rigore e la radiosità della vita, splendidamente rappresentata nella malinconia e nel garbo di Tsuyako, si instilleranno dentro il cuore degli spettatori”. E, grazie alla protagonista (e anche alle colleghe), ci riesce.

Ancora un interessante documentario per Bande à part: “No London Today” della francese Delphine Deloget che racconta le storie dei profughi che arrivano a Calais per poter entrare, ad ogni costo, in Inghilterra. E, attraverso i suoi ‘pedinamenti-interviste’, la regista è riuscita a instaurare con loro delle relazioni – come donna, come occidentale, come ‘privilegiata’, come cineasta - che mettono a fuoco la situazione e le vicende di cinque rifugiati che attendono il momento giusto per passare illegalmente il confine: Chafik, Aron, Abraham, Henok ed Ernias.

In serata, al Teatro Sperimentale, ancora Cinema Tedesco Contemporaneo con “Montag Kommen Die Fenster – Windows on Monday” di Ulrich Koeler, cronaca dell’improvvisa ‘fuga’ di una moglie, Nina. A seguire cortometraggi di Amir Muhammad e, poi vedremo, altri da lui selezionati.

In Piazza, reduce del festival di Cannes e del premio per la miglior attrice a Catherine Deneuve, “Un conte de Noel – Un racconto di Natale” del francese Arnaud Desplechin. Un mélo apparentemente vecchia maniera, ma nello stile sobrio e spietato dell’autore. Infatti lo spunto può sembrare banale, tanto che a raccontarlo si rischierebbe quasi di narrare un altro film, persino “Parenti serpenti” di Monicelli, perché si tratta di un rincontro familiare in occasione del Natale, e anche perché Junon, la madre-matriarca, ha scoperto di avere una grave malattia genetica e ha bisogno di un trapianto di midollo osseo. Visti i preliminari ognuno dovrebbe lasciare da parte vecchi conflitti e rancori, ritrovare l’armonia perduta, ma ovviamente accade tutto il contrario.

Desplechin però ne trae un complesso ritratto di famiglia, anche psicologico, attraverso un melodramma esistenziale con cui affonda la sua gelida lama nel corpo di ogni personaggio, per tirarne fuori colpe e segreti, sentimenti repressi e mancanze nascoste.

In giornata però è partita, al Cinema Astra, la rassegna monografica dedicata al maestro Dario Argento – a cura di Vito Zagarrio – con due tv-movie della serie La porta sul buio: “Il Tram” e “Testimone oculare”, entrambi del 1973, che hanno preceduto la proiezione del “Gatto a nove code” (1971) e “L’uccello dalla piume di cristallo” (1970), entrambi in versione restaurata, e conclusasi con “Inferno” (1980).

Inaugurato il Dopofestival, dopo mezzanotte inoltrata, con cinque corti di video-arte. “Maybe Not” di Oliver Pietsch, sorta di accattivante ‘collage’ che parte con le immagini di un uomo dall’aspetto orientale, avvolto da una coperta, in bilico su un trampolino, che finalmente si butta. Ma dietro a lui tutte ‘le lunghe cadute-suicidi’ cinematografiche più celebri (da “La donna che visse due volte” a “Dr. Stranamore”). “Nummer Twee” di Guido van der Werve, mette in scena l’artista in strada, ma fa qualche passo indietro e… viene travolto da una macchina. A quel punto arriva un furgone della polizia ma anziché i poliziotti scendono cinque ballerine classiche che danzano sulle note di Corelli. “Why We Came” del collettivo ZimmerFrei, prodotto dal Museo d’Arte Man di Nuoro e girato in Sardegna, prende spunto dal brano “By This River” di Brian Eno, e mette in scena gli elementi naturali, roccia, sabbia, vento, mare, facendoci riscoprire il deserto e la vastità degli spazi vuoti.

“Untitled” dell’irlandese-americana Moira Tierney, è una sorta di omaggio all’horror attraverso ululati, rumori indistinti ed inquietanti, immagini e ambienti ‘paurosi’ in bianco e nero. Infine “You Don’t Love Me Yet” della svedese Johanna Billing che, in un crescendo di musica e canto, ‘disegna’ il coinvolgimento come opera d’arte. Un gruppo di persone: un giovane al piano, altri suonano svariati strumenti musicali, una ragazza canta al microfono, poi un ragazzo, infine altri ancora… a cui si aggiunge la partecipazione dello stesso spettatore trascinato dalla musica. E siamo arrivati ormai alla quinta giornata del festival.

José de Arcangelo

martedì 24 giugno 2008

"La terramadre" conquista il pubblico in piazza a Pesaro



PESARO, 24 – Giornata piena e ricca di proposte, ieri, alla 44°. Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, nonostante comincino oggi la Retrospettiva-Omaggio a Dario Argento (al cinema Astra) e il Dopofestival a Palazzo Gradari, a mezzanotte circa, dedicato alle nuove tendenze ed al cinema altro, cioè video soprattutto ma non solo.

Di primo mattino, per la sezione Cinema Tedesco Contemporaneo, abbiamo visto “L’amour, l’argent, l’amour” di Philip Groening che già fin dal titolo si rifà ad un certo cinema francese, incentrato sull’amour fou e dintorni. Forse il riferimento più eclatante è il Rivette anni Settanta, anche se con meno inventiva e, per certi versi, più urlato e meno riflessivo, anzi. Groening è, sicuramente, meno ‘filosofico’ del maestro francese. Ma, comunque, la sua è una pellicola più che interessante e (quasi) on the road, che dimostra come alla fine i soldi condizionino le nostre scelte e la nostra esistenza.

Per la stessa sezione, in serata, è stato proiettato “Aus der Ferne – From Far Away” di Thomas Arslan. Un documentario che racconta il viaggio del regista, tra maggio e giugno 2005, da Istanbul al monte Ararat, la terra di suo padre.

Nel pomeriggio, per Cine en Construcciòn, è stato presentato l’ecuadoriano (il paese sudamericano ne produce uno al massimo due film all’anno) “Esas no son penas” (t.l. Quelle non sono pene) di Anahi Hoeneisen e Daniel Andrade (2006). Gruppo di donne – della piccola borghesia di Quito, la capitale – in un interno, amiche fin dai tempi del liceo che non si vedevano né sentivano da quindici anni e si ritrovano perché una di loro ha scoperto che ha i giorni contati. Ne viene fuori il ritratto di quattro donne (Marina, Diana, Elena, Tamara) che conosciamo prima dell’incontro con la quinta, Alejandra. E quello che le accomuna in fin dei conti è la solitudine, anche quando hanno un marito o un amante, o entrambi.

Ben costruito e meglio interpretato, i registi hanno il pregio di narrare le quattro storie contemporaneamente ma, forse, per il pubblico europeo il film sa di déjà vu. Anche quando il titolo allude, indirettamente, al fatto che “queste pene d’amore e solitudine” non sono niente in confronto a tragedie ben più gravi che accadono nei dintorni della stessa capitale sudamericana.

Per Bande à Part è toccato a “The Prisoner / Terrorist” di Masao Adachi (2007) che abbiamo visto in copia dvd da lavoro perché la dogana di Milano tiene fermo il film da quasi una settimana, forse a causa del titolo. D’altra parte il regista stesso non è potuto essere presente al festival perché il governo giapponese non gli concede il passaporto, forse perché, a suo tempo (35 anni fa), era un collaboratore nel Libano del gruppo Armata Rossa che compì un attacco suicida all’aeroporto. E, secondo il produttore Naruhiko Onosawa, anche perché si è sempre dichiarato contro le istituzioni. Probabilmente pure perché l’azione suicida sembra essere il punto di partenza del terrorismo contemporaneo.

Infatti il film si ispira alla storia dell’attentato e narra soprattutto la vicenda carceraria dell’unico sopravvissuto. Ma lo fa dal punto di vista esistenziale, in una sorta di spietata (e lunga per il pubblico occidentale) riflessione su libertà e oppressione, punizione e tortura.

“Disegnando questa fantasia – ha detto in patria l’autore – di complicazioni contraddittorie, come la questione della libertà, ho cercato di fare appello a quelle persone che vivono gli stessi problemi nel mondo presente, quello dell’attuale società ben controllata”.

Di seguito quattro cortometraggi del giovane Ben Rivers “Ah, Liberty!”, “House”, “The Coming Race” e “This Is My Land”, realizzati tra il 2005 e il 2008. Con una tecnica che ricorda il cinema muto, perché senza dialoghi e in bianco e nero, e il (finto) documentario, Rivers ricrea mondi lontani di ieri e di oggi, veri o fantastici. Dal ritratto del solitario Jake Williams, che vive a poche miglia dalla foresta di Aberdeenshire, in Scozia; alla storia di un vago, misterioso e inquietante pellegrinaggio denso di intenzioni sconosciute, tratto da un romanzo vittoriano di E.G.E. Bulwer-Lytton (1870).

In serata “Ten Oxherding Pictures 3 e 4 del sud coreano Ji-Sang Lee, il primo è un documentario di mediometraggio girato in Tibet, il secondo è un cortometraggio ispirato a un racconto popolare su due mele cotogne cinesi.

La vera sorpresa in piazza, in parte preannunciata dalla calorosa accoglienza alla berlinale, con l’unico film italiano del concorso, “La terramadre” di Nello La Marca che, raccontando di gente che viene e gente che va – ma non siamo al Grand Hotel ma bensì in un paesino della Sicilia –, fotografa la dura e cruda realtà di emigranti e immigrati. I siciliani che sono emigrati venti-trent’anni fa in Germania e gli extracomunitari che approdano sulle coste siciliane – quando ci riescono – in cerca di fortuna ma che finiscono nella rete di speculatori e sfruttatori. Ma il giovane protagonista, Gaetano, non vuole lasciare la sua terra, anche se il padre - che la definisce “terra dei morti” -, pretende ad ogni costo che lo segua in Germania dove intende aprire un bar.

Il tutto raccontato con grande freschezza e lucidità, senza calcare la mano né denunciando nulla, ma soltanto illustrando fatti e personaggi in modo giusto e sincero. Inoltre, affronta un tema che in Italia tocca un po’ tutti, nonostante la più grande emigrazione sia partita dal Meridione, perché per i nostri antenati, amici e parenti è stata (quasi) sempre una scelta forzata, spinta dalla necessità, quando non dalla miseria e dalla fame.

Il lungometraggio è stato preceduto dal corto documentario “Ayazma, un ghetto curdo nel cuore di Istanbul” di Matteo Pasi e Marcello Dapporto - prodotto dal Ciscase con il supporto dell’Associazione Non Governativa “Un Ponte per…” -, su un vero e proprio villaggio sorto nella periferia della ex capitale turca (sotto il supertecnologico nuovo stadio di calcio), e abitato dai profughi curdi, i cui villaggi erano stati distrutti. Un quartiere che per l’amministrazione municipale e persino per gli abitanti d’Istanbul non esiste e, quindi, non offre né servizi né diritti a nessuno.

José de Arcangelo

lunedì 23 giugno 2008

Da Pesaro in viaggio per Russia e Sudamerica


PESARO, 23 – Nel pomeriggio della seconda giornata della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ancora un film brasiliano nella sezione “Cine en Construcciòn”, ovvero “Otavio e as letras – Otavio e le lettere” di Marcelo Masagao. Un’opera più interessante di quella vista ieri, perché Masagao lavora su più campi espressivi, giocando con l’arte e la metafora da una parte, e in bilico tra realtà e finzione dall’altra. Per certi versi può essere considerato enigmatico o addirittura ermetico, ma si tratta sempre di un ‘gioco’, sebbene intellettual-esistenziale, che può sedurre anche il pubblico non cinefilo, basta che si lasci trasportare da situazioni e personaggi, sì bizzarri ma pieni di iniziativa e di curiosità per la vita in tutte le sue sfumature.

Infatti, il film narra di Otavio, un trentenne solitario ed eccentrico di Sao Paolo, che vive in un buio e squallido appartamento dove passa il tempo a ‘collezionare’ giornali, libri, riviste, locandine e qualsiasi pezzo di carta su cui ci sia scritto qualcosa. Poi ne costruisce una sorta di collage/pacco di parole che lascia da ogni persona o in ogni luogo che visita. Nello stesso condominio abita Clara, una giovane attratta dalle immagini, che invece passa le sue giornate a spiare/fotografare i suoi vicini, anzi le sue vicine, circondata da libri di storia dell’arte e, precisamente, dalle riproduzioni dei dipinti dei più grandi artisti della storia. Un giorno Clara bussa alla porta di Otavio ed è questo l’incontro tra due solitudini che rappresentano, in un certo qual modo, quella di tutti gli uomini.

L’altro film della stessa sezione è stato presentato invece in piazza, dopo la partita ovviamente, l’uruguayano “La perrera” di Manuel Nieto Zas, co-produzione fra Uruguay, Argentina, Spagna e Canada. Un altro bel ritratto di giovane ‘senza belle speranze’ che colpisce per la sobrietà del tocco e per una narrazione serrata, quindi senza eccessi né lungaggini. Fatto più unico che raro soprattutto perché si tratta di un’opera prima che mette a confronto i comportamenti umani con quelli dei loro coabitanti canini.

Bello ma letargico, David non ha superato gli esami universitari e ora deve aspettare un anno prima di poterli ridare. Costretto dal padre a restare da solo nella casetta di villeggiatura, in un remoto villaggio costiero, popolato più dai cani – per lo più abbandonati dai villeggianti dopo l’estate - che dagli uomini (da lì il soprannome “La perrera”, il canile). Il ragazzo però trova sollievo nel fumo e nella pornografia, senza preoccuparsi minimamente della casa ma prendendosi cura dei cani, almeno finché non arriva suo padre, un uomo d’affari che per punizione, ma anche per costringerlo ad abituarsi ad arrangiarsi da solo, lo mette a lavorare alla costruzione di una casa da affittare a possibili turisti attratti dal posto.

Nel tardo pomeriggio un altro dei film in concorso, il russo “Nirvana” di Igor Voloshin, e sceneggiato da Olga Larionova. Anche qui ci troviamo dalle parti di un dramma ‘bizzarro’ – ma nel senso positivo del termine -, volutamente sopra le righe, tra il visionario e il surreale che privilegia l’immagine senza dimenticare il resto, come succede sempre più spesso.

“Il film è sulla morte inevitabile di una persona – afferma il regista – a cui è stata tolta una guida morale. Una morte, sia spirituale che fisica. Per una persona di oggi, qualche volta è necessario un forte shock, un evento drammatico, per risvegliare qualcosa di vero, una natura positiva”.

In una San Pietroburgo decadente, l’infermiera Alisa affitta una stanza nel fatiscente appartamento di una vecchia signora, e ha come ‘coinquilini’ la giovane Vel, barista in un night club, e il fidanzato, Valera, coinvolto in una pericolosa storia di droga. All’inizio tra le due donne non corre buon sangue, anche perché Valera è andato a letto con Alisa. Ma quando Vel, vittima di una dose mal tagliata, viene salvata da Alisa tra le due si instaura pian piano una forte amicizia. Valera viene rapito dallo spacciatore e Vel deve trovare diecimila dollari se lo vuole indietro…

Per la sezione “Bande à part” sono stati presentati invece il documentario “Gibellina” dell’austriaco Joerg Burger e il cortometraggio “Sag es mir Dienstag” della connazionale Astrid Ofner. Il primo, attraverso interviste agli abitanti della cittadina siciliana, colpita dal violento terremoto nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1968, ci fa capire cosa è successo quarant’anni dopo. E soprattutto che fine ha fatto la nuova Gibellina, ideata come una sorta di museo permanente di sculture disseminate per le vie, ed edifici che divenissero a loro volta opere d’arte. Però si tratta di una sorta di città utopica estranea alla cultura della zona e lontana dalle tradizioni della regione.

Il corto, invece, illustra in immagini la famosa lettera d’amore di Franz Kafka a Milena Jesenkà, cosparsa di dubbi e fragili promesse di felicità. Un piccolo grande cortometraggio che riesce a ricreare le atmosfere e a far rivivere i fantasmi del celebre scrittore.

In serata “Two in One” di Kira Muratova, veramente due film in uno. Peccato che le due storie non si fondano ma si discostino sia per lo stile sia per la narrazione. Nella prima, in un teatro un attore si è impiccato sul palcoscenico con il costume di scena. Una morte reale avvenuta nel mondo della finzione, anzi della falsità e dell’artificio, e nessuno ne conosce l’epilogo. Anche perché lo spettacolo deve continuare. Nella seconda storia un misterioso (grande) uomo, avanti con l’età, è afflitto dalla solitudine e l’unica donna che si occupa di lui è la figlia. Lei, stanca della sua vita e dagli approcci incestuosi del padre, invita in casa un’amica. L’uomo chiude tutte le uscite, e l’unica chiave che porterà alla libertà sarà un atto d’amore o la morte.

Originale e coinvolgente il primo, urlato e un po’ ripetitivo il secondo.

Ovviamente siamo solo all’inizio ma il livello dei film visti fin qui è medio-alto e oggi ci aspetta una giornata piena e da domani parte l’omaggio a Dario Argento.

José de Arcangelo