giovedì 22 ottobre 2009

I fratelli Coen e Meryl Streep, accoppiata vincente del Roma Film Fest



ROMA, 22 – Ultima giornata di proiezioni e di arrivi per il Festival Internazionale del Film di Roma con l’accoppiata fratelli Coen-Meryl Streep. I primi per presentare in anteprima, fuori concorso, “A Serious Man”, la seconda per ricevere il Marc’Aurelio d’oro alla carriera (che le sarà consegnato domani in Campidoglio) e, per l’occasione, l’anteprima italiana di “Julie & Julia” di Nora Ephron, da domani nelle sale. E per migliaia di giovanissimi, gli aspiranti divi della saga “Twilight” approdati al festival per promuovere il secondo capitolo “New Moon” (in uscita mondiale il 18 novembre) con la presentazione dei primi venti minuti: Jamie Campbell Bower, Charlie Bewley e Cameron Bright, ovvero i membri della famiglia Volturi, accompagnati dalla sceneggiatrice Melissa Rosenberg.

Il film dei Coen dovrebbe essere il più personale dell’attivissimo e incorreggibile duo di autori perché, oltre che ambientato nella loro città natale (Minneapolis), scava a fondo nelle loro radici ebraiche. Una corrosiva e pessimistica commedia – naturalmente più nera che rosa – sulla disperazione. Ma “niente di autobiografico” spiegano.

Ambiente e personaggi che i Coen conoscono nei minimi particolari, visto che ci sono cresciuti.

“L'essere ebrei è gran parte della nostra identità - confessano – e, ovviamente, si riflette nei nostri comportamenti, in quello che facciamo. Compreso quella sorta di pessimismo che pervade i nostri film”. Però il grande Woody non c’entra, perché gli inseparabili fratelli si muovono in un contesto molto diverso. “Sì, è vero – affermano all’unisono Joel ed Ethan - il paragone tra questo film e quelli di Allen è interessante, ma in negativo: lui infatti ha una sensibilità ebraica tipicamente newyorkese, completamente differente rispetto ai nostri personaggi”.

La vicenda raccontata nella commedia, ambientata nel 1967, è quella di Larry (Michael Stuhlbarg, attore che proviene dal teatro), professore di fisica alle prese coi problemi della sua famiglia. La consorte (Sari Lennick) lo vuole lasciare per “un uomo serio”, al contrario di lui; il fratello disoccupato (Richard Kind) che dorme sul suo divano; il figlio Danny (Aaron Wolff) che aspira solo di fumare erba e ascoltare musica; la figlia Sarah (Jessica McManus) ossessionata dall’idea di rifarsi il naso. E, di fronte a tutto questo caos, lui decide di chiedere consiglio a tre rabbini diversi.

Già perché la pellicola è la somma di cultura e riti ebraici, incluso il prologo in yiddish ambientato nella Polonia dell’Ottocento.

Infatti, per quanto riguarda le reazioni della comunità ebraica americana, i due registi affermano: “Sarà perché gli ebrei ortodossi non vanno al cinema, ma ci aspettavamo all’uscita una qualche reazione magari perché c’è sempre quando si parla di una comunità specifica, di dinamiche precise e circoscritte, ancora di più se lo si fa ridendoci sopra. E, invece, la maggioranza delle reazioni, anche da parte della comunità ebraica, sono state positive. Oltre ogni aspettativa”.

In “Julie & Julia”, invece, Meryl Streep è Julia Child, una cuoca molto popolare negli States negli anni ’60 che aveva imparato a cucinare in Francia, stufa di fare la casalinga al seguito del marito funzionario d’ambasciata. “Tornando in patria – afferma l’attrice – ha mostrato all’intero paese come cucinare in maniera sana. La ricordo perfettamente perché era molto famosa nell’epoca in cui stavo crescendo”.

Julie Powell (Amy Adams, già al fianco della Streep in “Il dubbio”) è, invece, la trentenne che - nel 2002 - cambiò la sua vita imparando che cosa si può fare in cucina, ma partendo proprio dagli insegnamenti dell’altra Julia. Insomma le due avevano in comune, oltre il nome, l’ossessione per il cibo. Un’ossessione che, però, ha regalato loro la felicità. Nella vita e nel film, almeno è quello che ci racconta la ‘leggenda’.

Quindi, una commedia che - come spiega la Streep - è un inno ai veri piaceri dell’esistenza: “Amore, sesso e cibo: sono i tre gioielli che questa storia esalta, le cose che veramente contano, più di lavoro e carriera. Finché abbiamo un tetto sulla testa e le nostre necessità sono soddisfatte, si può essere felici. Per me, personalmente, è del tutto vero”.

Riguardo la vera Julia Child (ora scomparsa), l’attrice dice: “Ho avuto uno scambio di corrispondenza con lei: sono stata sempre molto attiva nel movimento slow food, che sostiene il piacere del gusto e del buon gusto, e la necessità di ingredienti freschi e genuini. Credevo che ci avrebbe sostenuto, invece con noi si è mostrata molto scorbutica! Però poi ha cambiato atteggiamento”.

“Mi sono riguardate tutte le trasmissioni televisive di cui era protagonista – confessa la due volte premio Oscar e con un record di nomination -, ho letto tantissimo di lei, di certo non ho avuto il tempo per aver paura di entrare nelle sue vesti perché ormai faccio passare pochissimo tempo tra un film e l’altro. Poi, come faccio sempre più spesso, mi sono ispirata a mia madre, donna solare ed energica. L’occasione di interpretare una persona reale ma tenendo sempre presente una donna che amo come mia madre, capace di guardare non alle cose negative ma solo a quelle positive, belle, della vita. Una donna cui ho tentato di somigliare. Tutte le donne avide di vita e vivaci che ho interpretato finora le ho fatte pensando a lei. E spero di farne altre in futuro”.

L’antidiva Meryl non ama gli elogi e non stravede per i premi anche se li accetta, come un ulteriore incoraggiamento. “Non mi interessano i complimenti eccessivi, tendo a pensare al lavoro più che ai premi, anzi tendo a non pensare agli Oscar anche se ho constatato che le nomination contano tanto proprio perché sono colleghi come me a poter scegliere. Però io sono sempre alla ricerca di ciò che è imperfetto, fragile, che si può migliorare”.

E il tempo che passa, anche per le star? “L’antidoto per me è un forte senso di gratitudine – dichiara -, perché ‘sono ancora qui’. Sì, ho sessant’anni, la mia vita è stata fortunata e devo ammettere che nella nostra professione ci sono carriere diverse. Io non mi sono mai preoccupata del glamour e della bellezza e ho sempre pensato di me stessa che mi si poteva plasmare come l’argilla. Posso dire di essere contenta di questa scelta ma capisco che oggi tutto è diverso: l’attenzione alla forma è costante e asfissiante rispetto a quando io ero giovane e chi comincia ora subisce una pressione molto forte. Trovo che la moda possa intralciare la strada di un’attrice, condizionare la scelta di un ruolo piuttosto che un altro. Io sono grata a questa professione per tutto ciò che essa mi ha permesso di esprimere ma temo che oggi anche le mie figlie che fanno le attrici siano costrette a fare scelte difficili. Io le mie le ho già fatte e, quando oggi in Cina, la gente mi indica dicendo ‘Kramer vs. Kramer’, un film vecchissimo, mi commuovo e capisco di aver fatto la cosa giusta”.

Ma ieri era passato anche l’ultimo film in concorso “Broderskab – Brotherhood”, opera prima del fotografo di moda danese (di origine italiana) Nicolo Donato. Un forte, lucido e inquietante dramma d’attualità sull’ondata di razzismo e omofobia (non solo) che sta sconvolgendo l’intera Europa e che si identifica nei gruppi neonazisti. Una storia dove il disagio e l’insoddisfazione, le apparenze e il pregiudizio portano alla violenza, ma anche dove l’avvicinamento, la conoscenza, il contatto portano alla riscoperta dei sentimenti più nascosti e dei desideri repressi.

Lars è costretto dai pregiudizi (e dalle dicerie) a lasciare l’esercito e, avvicinato durante una festa, viene convinto ad entrare in un gruppo neonazi che organizza raid punitivi contro musulmani e omosessuali. L’apprendistato alla ‘fratellanza’ è duro e Lars viene affiancato dal mentore Jimmy, incaricato di testarne l’affidabilità e la preparazione sui testi fondamentali (leggi Mein Kampf di Hitler). Imprevedibilmente, tra i due scoppia la passione. Un amore prima represso, poi vissuto in segreto, finché alla fine le regole razziste e violente del gruppo metteranno gli amanti di fronte all’inevitabile contraddizione: tradire i ‘fratelli’ di ideologia o tradire l’altro e i propri sentimenti. Però, qualunque sia la scelta, porterà dritti alla violenza, fisica e/o psichica.

Domani si chiude con la cerimonia di premiazione, stavolta di sera, a partire dalle 18.30 e, a seguire, la proiezione di "Julie & Julia", appunto, anteprima fuori concorso.

José de Arcangelo

mercoledì 21 ottobre 2009

Roma FilmFest. L'Italia diventa protagonista nel raccontare Marzabotto e l'Aquila


ROMA, 21 – Il cinema italiano diventa protagonista del Festival Internazionale del Film di Roma grazie soprattutto all’opera seconda di Giorgio Diritti che, raccontando una storia di un passato da non dimenticare, ci fa riscoprire il potere delle immagini e sentire le emozioni che può (deve) offrire il grande schermo. “L’uomo che verrà” – in concorso nella selezione ufficiale – interpretato da Claudio Casadio, Alba Rohrwacher e Maya Sansa, ricostruisce – attraverso gli occhi di una bambina - la vicenda di una povera famiglia contadina, alla vigilia della strage di Marzabotto: 771 esseri umani sterminati dai nazisti.

Diritti, autore del non dimenticato “Il vento fa il suo giro”, lo fa senza retorica e senza colpi bassi, facendo uso di quella ‘naturalezza’ di situazioni e immagini, tipica del suo cinema, e del dialetto del posto. E, infatti, lui formatosi nel documentario e che ha poi lavorato a “Ipotesi cinema” - la scuola di cinema fondata da Ermanno Olmi -, non può che ricordare i capolavori del maestro, con “L’albero degli zoccoli” in testa. Anche quando ha un suo stile personale e dei tempi diversi.

Il quadro di un quotidiano lento, duro e crudo in un’Italia che non c’è più – quella del fascismo e della Seconda guerra mondiale –, dipinto in modo quasi inedito. Un sobrio dramma (imploso) che sboccerà nella tragedia.

Inverno, 1943. Martina, unica figlia di una povera famiglia di contadini, ha otto anni e vive alle pendici di Monte Sole. Anni prima ha perso un fratellino di pochi giorni e d’allora ha smesso di parlare. La madre rimane nuovamente incinta (l’azione del film si svolge lungo l’arco dei nove mesi di gravidanza) e la piccola vive nell’attesa del bambino che nascerà (l’uomo del titolo), mentre la guerra pian piano si avvicina e la vita diventa sempre più difficile, stretti fra le brigate partigiane del comandante Lupo e l’avanzare delle SS. E, infatti, quasi contemporaneamente i nazisti scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti…

Un’altra tragedia, recentissima, viene rievocata dal documentario “L’Aquila bella mè” di Pietro Pelliccione e Mauro Rubeo. Il terremoto che ha distrutto una città e ucciso centinaia di persone raccontato dall’obiettivo cinematografico in una sorta di diario dei giorni successivi e dalla testimonianza dei sopravvissuti. Infatti, il film ha gli occhi di chi a L’Aquila è nato, cresciuto e vissuto. Una troupe che vive nel tessuto sociale della città mostra il “fuoricampo” di ciò che è successo e sta accadendo dopo la catastrofe. Filma la realtà dal ventre delle sue macerie: in gioco è il futuro della propria città, delle proprie famiglie, degli amici, delle case e delle scuole e delle montagne.

Infatti, se alcune immagini vi sembreranno già viste fate caso al commento delle persone e allo ‘sguardo’ della cinepresa, e capirete che è tutta un’altra cosa.

Il film prodotto da Gregorio Paonessa e Valerio Mastandrea, supervisionato da Daniele Vicari, è la prima tappa, in anteprima mondiale, di una documentazione che durerà un anno intero, per raccontare la lunga e complessa storia della “ricostruzione”.

Anche “Immota manet” di Gianfranco Pannone con gli allievi dell’Accademia dell’Immagine de L’Aquila, affronta lo stesso argomento. Ad Aprile, Pannone e gli allievi dell’Accademia del Cinema de L’Aquila, stavano preparando un documentario dedicato a Ignazio Silone. Il sisma di aprile ha fermato tutto, la stessa scuola ha subito ingenti danni. Così è nato questo documentario breve dove convivono le immagini del terremoto e i brani tratti da “Uscita di sicurezza” di Silone. Lo scrittore abruzzese racconta del terremoto del 1915 in cui perse la madre ed altri cari e lascia, infine, un monito rivolto a tutti coloro che approfittarono di quella catastrofe per rimediare affari con i fondi economici destinati alla ricostruzione. Un monito che ci riporta ai timori dei nostri giorni.

Tutta un’altra storia ci aspetta domani con il premio alla bravissima attrice americana Meryl Streep e la cerimonia di premiazione.

José de Arcangelo

martedì 20 ottobre 2009

Al Festival di Roma: Argentina in concorso, Italia fuori


ROMA, 20 – Giro di boa ormai per la quarta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma - che si conclude venerdì -, pieno di appuntamenti e proiezioni, spesso in contemporanea e perciò sempre più difficile da seguire, anche perché in periodo di crisi siamo sempre più costretti a ‘presenziare tutto’ e spesso con più ‘ostacoli’. Incontro con la ‘romana’ Asia Argento, che ieri sera ha presentato il suo minifilm (42 registi per 42 clip di 42 secondi ciascuno) del film collettivo “Onedreamrush” nell’incontro col pubblico. “Le menti di 42 malati”, lo definisce, prodotto da Michele Civetta, dove diversi autori raccontano in un flash i sogni “come in una brevissima poesia”. Il suo, “S/He” (ovvero Lei/lui in inglese), racconta la vita di un quartiere popolato di trans. “Sono entrata nella loro vita – afferma l’attrice-autrice -, ho visto come si vestono, ho osservato come vivono, insomma, abbiamo giocato”.

Nel concorso ufficiale è passata l’opera prima dell’argentino (di padre norvegese) Marco Berger “Plan B” (Piano B). Una commedia sentimentale particolare ed inedita girata tutta in piani sequenza, a loro volta collegati da panoramiche di Buenos Aires dall’alto incentrate su una palazzina, una torre moderna, e giocata sul filo dell’ambiguità dell’amore (e del sesso) e soprattutto della seduzione. Una commedia agrodolce che conquisterà il pubblico che ama le scoperte e il cinema d’autore, perché la pellicola non ha il ritmo scatenato dei film d’azione contemporanei né tanto meno è interpretata da star, nemmeno del cinema argentino, ma da giovani di oggi, come del resto è il regista stesso.

Bruno ha lasciato la sua ragazza ma vorrebbe rimettersi insieme ma come lei, nonostante continui a vederlo (ed andare a letto con lui), rifiuta progetta una fredda e dolce vendetta. Scoprendo che lei esce ‘ufficialmente’ con Pablo e, spinto dal pregiudizio degli altri, Bruno decide di diventargli amico, anzi di sedurlo. Naturalmente chi gioca col fuoco (sentimenti) finisce ustionato: i due giovani saranno sempre più confusi emotivamente e la ragazza si ritroverà sola. Già perché il gioco della seduzione ha funzionato troppo bene dando il via a un “Plan C”. L’amore fra i due maschi.

Ancora un film italiano in anteprima, fuori concorso, “Oggi sposi” di Luca Lucini (da venerdì nelle sale) con un cast (italiano) all stars (soprattutto trentenni e non, in ascesa e/o affermati): Luca Argentero, Moran Atias, Dario Bandiera, Carolina Crescentini, Francesco Montanari, Filippo Nigro, Gabriella Pession, Isabella Ragonese e con le partecipazioni di Lunetta Savino, Michele Placido e Renato Pozzetto.

Una commedia corale su quattro matrimoni che, secondo il regista di “Amore, bugie e calcetto”, si rifà ai classici nel tentativo di aggiornare il vero spirito, le atmosfere (e gli incassi) per “dare nuova forza” al genere per eccellenza del nostro cinema. “In realtà – dice Lucini – è stato più bello che duro realizzarlo perché c’era una sceneggiatura forte” (di Fabio Bonifacci con la collaborazione di Fausto Brizzi e Marco Martani), però – tra alti e bassi – la commedia non riesce ad uguagliare quelle di una volta, nonostante i richiami all’attualità (il matrimonio multietnico ma non solo) perché gioca ancora un po’ con i vecchi stereotipi. E non ci sono (ancora) dei veri “mattatori”.

Ma ieri era stato presentato l’evento speciale dedicato al sacerdote cattolico Jerzy Popieluszko, sequestrato e ucciso proprio venticinque anni fa, il 19 ottobre 1984. Per l’occasione è stato proiettato in anteprima “Popieluszko. Freedom is Within Us” di Rafal Wieczynski. Una sobria e appassionata ricostruzione storica degli anni di Solidarnosc e degli avvenimenti che portarono alla caduta del comunismo, non solo in Polonia. Una grande produzione (settemila tra attori e comparse, due ore e mezza di proiezione) per raccontare la vita e il sacrificio di padre Popieluszko, il “cappellano di Solidarnosc”, appunto, divenuto simbolo di coraggio nella lotta per la libertà e la verità. Ai suoi funerali parteciparono oltre mezzo milione di persone e il clamore che seguì all’evento fu enorme, travalicando i confini nazionali.

“Ho ascoltato il racconto dei testimoni – esordisce il regista che allora era poco più di un ragazzino – e visto i filmati sulla sua vita. Non si occupava di politica ma delle persone, era un uomo al servizio degli altri, che trascende l’opera della sua vita. Non ha mai convertito nessuno, aiutava le persone a mettere a posto le loro vita senza influenze né imposizioni. Popieluszko lasciava una traccia nelle persone che incontrava, perché non creava una distanza tra lui e l’altro, anzi gli dava ascolto, e possedeva una saggezza popolare che viene da lontano”.

Ad un appuntamento di importanza internazionale non poteva mancare Lech Walesa, leader sindacale e poi Presidente della Polonia, che ha dichiarato: “Avendo un polacco come Papa eravamo convinti di portare la Polonia fuori dal comunismo, verso la normalità e la democrazia. E’ stato un compito enorme e difficile ma in cui molte persone hanno creduto fortemente. Popieluszko ha pagato con la sua vita e, riflettendo sul suo sacrificio in questo terzo millennio, ho capito che il nostro percorso ora è differente perché oggi si dà più valore all’economia che alle persone in senso lato. Bisogna creare nell’uomo una coscienza perché il nostro sogno ancora non è fino in fondo realizzato. Ma un po’ più in là raggiungeremo lo scopo".

"Considerando la situazione geografica polacca - aggiunge il leader polacco -, il nostro paese non ha potuto mai parlare con voce propria. E talvolta la Chiesa si sostituiva alla nazione per farlo, perciò esiste un forte legame con la Chiesa. Senza questa simbiosi la Polonia sarebbe sparita già da tempo”.

Proiezione affollatissima anche alla presenza di autorità (tra cui il sindaco Alemanno), funzionari, prelati e suore (anche in passerella sul red carpet), stampa e pubblico. Il film comunque uscirà prossimamente nelle sale distribuito da Rainieri Made, che già ha fatto vedere nei cinema (non senza difficoltà) “Katyn” del grande maestro Andrzej Wajda.

Altro film presentato in anteprima, fuori concorso, è stato il cinese “The Warrior and the Wolf – Il guerriero e il lupo” di Lang Zai-Ji, con Joe Odagiri e Maggie Q. Un’ambizioso fantasy che mescola storia, avventura e leggenda con quella che sembra essere diventata oggi una mania (soprattutto all’inizio), l’andare avanti e indietro nel tempo con i flashback finendo per confondere lo spettatore più smaliziato. Non mancano immagini suggestive e risvolti inquietanti, ma nel complesso la pellicola non riesce a (s)coinvolgere il pubblico né la critica.

Duemila anni fa, l’imperatore Han invia il suo esercito nell’estremo confine occidentale della Cina, oltre il deserto del Gobi, per sottomettere le tribù ribelli. La zona, pericolosa e inospitale, al giungere dell’inverno è popolata solo dai lupi. Dopo cruente e sanguinose battaglie, il comandante Lu e i suoi uomini iniziano la ritirata, trovando rifugio in un villaggio della tribù maledetta degli Harran, che vivono sottoterra e di cui la leggenda racconta si tramutino in lupi dopo l’accoppiamento con ‘stranieri’. E, infatti, accadrà proprio a Lu e ad una misteriosa vedova.

José de Arcangelo

lunedì 19 ottobre 2009

Roma FilmFest. L'esordio dietro la cinepresa di Stefania Sandrelli con la storia di una poetessa del medioevo


ROMA, 19 – La ‘famiglia Sandrelli’ al Festival Internazionale del Film di Roma per il debutto dietro la macchina da presa della cara, bella e brava, attrice Stefania: “Christine Cristina” con Amanda Sandrelli protagonista, presentato in anteprima - fuori concorso. Una storia importante, un personaggio speciale – ovviamente femminile – e una bella idea per un discreto film d’esordio che, purtroppo, non riesce a coinvolgere fino in fondo e ‘rimanda’ la sempre affascinante, simpatica ed entusiasta star del cinema italiano ad una seconda prova.

“Non credo ci sia una grossa differenza tra fiction e cinema – esordisce Stefania -, quello che conta è il senso di responsabilità nel lavoro e nei confronti del pubblico. Si ruba inconsapevolmente e poi lo si restituisce. Io ho cominciato con Pietro Germi (“Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata” ndr.), poi ho lavorato con Scola, Pietrangeli, Comencini e tanti altri, ho assorbito qualcosa da ognuno di loro. Li spiavo, li guardavo, cercavo di capire e di capirli. Risucchiavo il meglio delle persone come un’ape. E’ quasi inevitabile per gli attori la voglia di passare dall’altra parte. Sono quasi dieci anni che ci provavo, avevo proposto precedentemente una sceneggiatura, ‘Buongiorno amore’, ma nessuno me l’ha fatto fare”.

Come è nata l’idea? “E’ stata una questione di intuito, di fiuto. Cercando in occasione del Natale alcuni libri in via Cola di Rienzo, vidi nella vetrina di Gremese la miniatura di una donna che attirò la mia attenzione. Piccola quasi eterea, compita e attenta davanti a un mobile scrivania, seduta in posizione di scrittura. La moltitudine dei colori, la sospensione tra cielo e terra di quel luogo misterioso, mi incuriosì. Frugai tra le pagine di quel libro e trovai Cristina da Pizzano. E la storia di questa poetessa medioevale si è impossessata di me”.

“Pochi conoscono il suo nome – continua la neoregista -. Eppure Cristina è stata una figura esemplare nella storia della letteratura. Italiana, vissuta in Francia nel momento del passaggio dalla notte del Medioevo all’alba dell’Umanesimo, fu la prima donna a vivere soltanto grazie alla propria penna, cioè scrivendo e pubblicando opere poetiche. Poeti si nasce o si diventa? Nel caso di Cristina fu precisamente una conquista. Ed è proprio la storia di questa conquista avventurosa che il film vuole raccontare”.

Scritto da Giacomo Scarpelli, Stefania Sandrelli, Marco Tiberi con la supervisione di Furio Scarpelli, il film non è però un pamphlet femminista.

“E’ un film che ho portato nella pancia – confessa l’autrice – perché l’ho pensato e ideato e ho avuto la possibilità di farlo. La sceneggiatura è il sostegno del film, ma credo sia stata la forza e la grazia femminile che ha evitato che diventasse femminista tout court, e anche perché mi sono affidata a grandi sceneggiatori maschi dotati anche di una sensibilità femminile”.

“Secondo Scott Fitzgerald – aggiunge Tiberi – c’è uno spunto maschile e uno femminile, il primo è Pollicino, il secondo Cenerentola. Questa è una favola realistica perché Cristina passa prima dalle stelle alle stalle, e poi di nuovo dalle stalle alle stelle”.

Infatti, da un’agiata condizione (il padre era un astronovo al servizio del re Carlo V) Cristina precipita nella miseria più nera, con due figli piccoli, nell’imperversare delle lotte tra Armagnacchi e Borgognoni, e ha un solo imperativo: sopravvivere.

“Ho trovato in Amanda – dichiara l’autrice sulla scelta della figlia attrice – la disponibilità, la bravura e l’affetto che forse solo lei poteva darmi a tutto tondo. Christine ha dei lati in comune con Amanda, è tenerella, buffetta, ma è anche una donna che si è conquistata un posto illustre nella storia. Ha un suo contegno, non fa qualsiasi cosa per apparire e si capisce perché. Non ho costruito il personaggio su di lei, e ho rispettato l’essenza di Christine”.

“Non mi sono sentita investita da grande responsabilità – ribatte Amanda – ma mi sono affidata alle sue scelte. Al di là dell’affetto, credo che ero quella giusta per dare a Christine quello che meritava. Visto che la gestazione è stata lunga, ho avuto la possibilità di conoscere Christine a fondo e pian piano. E mi sono lasciata andare. Mai in vita mia mi sono sentita sostenuta in tutti i sensi da tutto e tutti. Non trovo vizi in mia madre a parte quello di seguirmi con la spremuta di arance, ma sul set si annullano i meccanismi della vita quotidiana. Sono onorata di essere Christine ma non mi sono mai preoccupata di essere all’altezza o meno, altrimenti non ci sarei riuscita”.

Ma nella pellicola - che la Sandrelli firma col compagno Giovanni Soldati - recitano anche Alessio Boni, Alessandro Haber, Blas Roca Rey (attore e marito di Amanda nella vita), Naomi e Nicholas Marzullo, Paola Tiziana Cruciali, con la partecipazione di Mattia Sbragia e con la partecipazione straordinaria di Roberto Herlitzka che, nei panni del saggio Sartorius, offre una scena da antologia, quella dell’incontro-sfida con Amanda-Christine.

La Francia dell'opera prima della Sandrelli - dato che si tratta di una produzione italiana a basso costo (2 milioni e mezzo di euro) - è stata ricostruita nel Lazio, con il sostegno della Film Commission, e negli studi di Cinecittà, 'riciclando' il "set di un vecchio San Francesco".

José de Arcangelo

domenica 18 ottobre 2009

Da Roma, un omaggio al caro amico e grande attore Heath Ledger


ROMA, 18 - Al Festival Internazionale del Film di Roma è stato reso omaggio, dalla sezione L’altro Cinema - Extra, a Heath Ledger, l’attore australiano che in pochissimi anni è diventato star indiscussa di Hollywood e che, dopo un’assurda e precoce morte a soli 28 anni, è già diventato mito. E’ stato una sorta di James Dean del terzo millennio perché anche lui come il ‘ribelle senza causa’ - e nonostante ne abbia girato qualche film in più di lui - è stato tormentato ed inquieto protagonista dentro e fuori dal set. Un attore in ascesa che raggiunse la maturità e l’affermazione con “Brokeback Mountain” di Ang Lee e la consacrazione, postuma, con il premio Oscar per il ruolo ne “Il cavaliere oscuro” ultimo (finora) capitolo cinematografico di Batman.

Prima della première italiana dell’atteso film del sempre visionario Terry Gillian di “The Imaginarium of Doctor Parnassus / Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo”, che Heath Ledger non ha potuto ultimare e in cui è stato poi ‘sostituito’ egregiamente in alcune sequenze dai bragi colleghi e amici Johnny Depp, Colin Farrell e Jude Law (hanno devoluto i loro guadagni al figlio del rimpianto attore), il pubblico dell’amata-odiata kermesse romana ha potuto apprezzare alcuni suoi brevi film inediti firmati da regista, portati da (altri) suoi amici-colleghi del collettivo denominato ironicamente The Masses, malgrado i loro progetti non siano certo popolari né tanto meno dei blockbusters.

Già perché l’amato interprete di "Casanova" e "I fratelli Grimm" studiava il mestiere del regista-autore, diventando una specie di mecenate del gruppo di amici artisti. Imparava così tutto il processo creativo: dalla sceneggiatura al montaggio. E, da grande appassionato di musica, ha firmato 6 videoclip con tecniche diverse, dall’astratto all’animazione, passando dalla sperimentazione vera e propria. Tra questi, “Morning Yearning” di Ben Harper e “Black Eye Dog”, dedicato alla memoria del cantautore inglese Nick Drake (pensava anche a un biopic su di lui) che, per uno strano scherzo del destino, morì a soli 26 anni a causa di un’overdose di medicinali, proprio come Ledger.

Secondo la testimonianza dei suoi amici, la produttrice Sara Cline e il regista Mat Amato, Heath si stava preparando ad esordire dietro la macchina da presa con la trasposizione del romanzo “The Queen’s Gambit” (La regina degli scacchi) di Walter Stone Tevis (1983), un ‘gioco’ che era una sua passione. Infatti, Cline e Amato, hanno ricordato l’amico scomparso attraverso gli archivi del collettivo (con il benestare della famiglia dell’attore scomparso), in cui Ledger era entrato negli ultimi 18 mesi di vita.

Il lungometraggio di Gillian - nelle sale dal 23 ottobre, distribuito da Moviemax -, lo vede invece nei panni del misterioso e seducente giovane Tony, strappato dalle grinfie della morte – un’altra coincidenza, visto che proprio il film fa rivivere Ledger ora e per sempre sullo schermo – e che si rivelerà l’asso nella manica di Parnassus nelle sue secolari scommesse col diavolo.

Infatti, il suggestivo e travolgente “Parnassus” è una fiaba senza tempo che racconta le vicende dell’omonimo dottore (Christopher Plummer) che ha lo straordinario dono di realizzare i sogni del pubblico del suo piccolo spettacolo itinerante chiamato l’Immaginarium, coadiuvato dalla figlia Valentina (la fotomodella Lily Cole), dal sarcastico e cinico assistente nano Percy (Verne Troyer) e dal giovane e bonario tuttofare Anton (Andrew Garfield). Tutti i desideri vengono esauditi e le ambizioni realizzate grazie ad un magico specchio. Ma questo dono così speciale gli è stato fatto centinaia di anni fa da Mr. Nick (Tom Waits), uomo divertente e scanzonato che altri non è sennò il diavolo in persona e che in cambio gli aveva preteso, se mai avesse avuto una figlia, la consegna della sua anima al compimento del sedicesimo anno di età.

Nella Londra contemporanea, la figlia di Parnassus è alla vigilia dei 16 anni e Mr. Nick si prepara a riscuotere l’agognato premio. Per fortuna Parnassus è convinto di conoscere il diavolo come le sue tasche e spera di riuscire ad ingannarlo coinvolgendolo nell’ennesima scommessa con una posta ancora più alta. Entrambi dovranno sedurre cinque anime e portarle dalla loro parte. Il primo che raggiungerà l’obiettivo, deciderà del fato della ragazza. E a questo punto ‘arriva’ Tony che, non solo sconvolgerà l’esistenza e i piani dei quattro girovaghi, ma s’innamorerà – ricambiato – della bella e giovanissima Valentina.

Il grande regista è riuscito a sincronizzare la magnifica interpretazione di Ledger ripensando alla storia – scritta con lo stesso co-sceneggiatore di “Brazil” e “Le avventure del barone di Munchhausen”, Charles McKeown - e senza l’aiuto la tecnologia digitale. Infatti, ogni sequenza interpretata da Depp, Farrell e Law rappresenta uno dei vari aspetti del personaggio che Heath andava recitando, ogni volta che ‘entrava’ nel magico specchio. In questo modo, la ‘favola’ umana diventa ancora più suggestiva e si arricchisce di riferimenti all’esistenza umana di ieri, di oggi e di sempre.

“Parla delle persone creative – confessa Gillian a proposito della sua pellicola -, degli artisti. Cercano di ispirare gli altri, incoraggiandoli ad aprire gli occhi per apprezzare la verità del mondo, ma la maggior parte di loro non ha successo. Questa è la realtà. E’ un’idea magica e tragica al tempo stesso, un gruppo di persone straordinarie in un teatro favoloso che viaggia per Londra, ma senza che nessuno ne faccia caso. Sono convinto che, nel mondo moderno, la gente non veda più quello che è veramente importante. Tutti sono concentrati sul loro Ipod, sui videogiochi o a investire in borsa, tutte attività interessanti e che richiedono tempo, però ci sono tante cose straordinarie e importante che accadono là fuori e nessuno presta attenzione”.

Ed ecco che spuntano i riferimenti alla nostra società attuale che, appunto, non sogna più ad occhi aperti, non partecipa a riti culturali collettivi come faceva una volta per il teatro e per lo stesso cinema, dove fantasia e cultura sono tornati ad essere interesse di pochi.

José de Arcangelo

sabato 17 ottobre 2009

Giornata nel segno dell'amato George Clooney al Festival di Roma


ROMA, 17 – Terza giornata nel segno dell’amato George Clooney – che ha ‘incrociato’ il collega Richard Gere, fermatosi per l’incontro col pubblico, e ha portato Elisabetta Canalis sul red carpet - al Festival Internazionale del Film di Roma, dove è stato presentato in anteprima “Tra le nuvole” di Jason Reitman, il giovane autore già consacrato alla Festa del Cinema per “Juno”. Una riuscita, divertente e graffiante commedia, più amara che dolce, nell’America della crisi.

Ryan Bingham (Clooney), un esperto tagliatore di teste (incaricato di ‘licenziare’ per conto delle aziende), in superlavoro e superstress per via della crisi, è riuscito a prendere una decisione vitale: si è staccato da tutto e da tutti per avere una vita senza legami. La sua esistenza on the road, di aeroporto in aeroporto, millemiglia dopo millemiglia, è però minacciata proprio quando sta per ottenere da una compagnia aerea il premio fedeltà, un superbingo da dieci milioni di miglia, e subito dopo aver incontrato la donna dei suoi sogni, appassionata di viaggi e alberghi.

Il tutto raccontato con sottile ma pungente ironia, fra la tragedia di chi si trova da un giorno all’altro su una strada e la commedia di chi la provoca ‘involontariamente’ per lavoro (che scaccia lavoro). Dal personale e privato la commedia diventa universale, esasperata da un’attualità di cui siamo vittime un po’ tutti.

‘Soliti problemi organizzativi’ ci hanno fatto partecipare a ‘conferenza stampa’ già iniziata, nonostante fossimo in fila con gli altri giornalisti accreditati da quasi mezz’ora (in anticipo) e non solo, perché siamo finiti in ‘galleria’ e, quindi, senza la possibilità di fare domande. Comunque, siamo riusciti a sapere che Clooney “non è mai stato licenziato”, cioè “non ha mai perso un lavoro” ma qualche volta – soprattutto agli inizi della carriera – è stato disoccupato; mentre ora è lui che sceglie cosa fare, quando non è addirittura produttore e/o regista di se stesso.

“Ho una vita stupenda – confessa – con tanti legami. Amici, famiglia ed altri. Io e Ryan siamo molto diversi, io mi trovo spesso circondato dagli altri, lui è solo. La sceneggiatura era stata scritta anni fa, molto tempo prima del crollo finanziario. Era una sofisticata commedia a tutto tondo. Poi Jason (il regista ndr.) ha introdotto elementi di attualità e lo ha fatto egregiamente senza nulla togliere all’atmosfera della storia. E così, a guardarlo si ride, ma c’è anche molta commozione. C’è molta gente che si identifica con le vittime della logica del profitto, una logica che è diventata dominante”.

“Avevo cominciato a scriverla sette anni fa (con Sheldon Turner, dal libro di Walter Kirn) – ribatte Reitman – e non avevo mai pensato di poter lavorare con George. Infatti, quando ha accettato ero eccitato ed entusiasta all’idea di lavorare con lui. E’ stato splendido e anche facile perché io stavo li a guardare. Credo che gli americani si identificheranno con i personaggi del film, sono fiero del protagonista e orgoglioso dei due personaggi femminili (la donna di Ryan e la sua giovane collega che propone di esercitare la loro professione attraverso internet ndr.). Sono personaggi molto attuali perché l’individuo negli Stati Uniti pensa di non essere solo, visto che oggi è facile interconnettersi. Ti sembra di essere dappertutto ma in realtà non sei da nessuna parte”.

“Capisco molto bene il mio personaggio – aggiunge l’attore -, il suo lavorare ‘sospeso in aria’. Succede anche a me di passare da un aereo all’altro, ma in questi casi ti mancano la famiglia e gli amici. E alla fine ti chiedi quando tempo hai passato con gli amici”.

“Volevo incontrare dei teen-ager per trovare una canzone adatta al film – dichiara il regista -, invece è stato in cinquantenne ha consegnarmi una cassetta. Un uomo che aveva appena perso il lavoro e aveva scritto questa canzone molto lucida e onesta, che riguarda circa un milione di persone, di cui non vedi mai le facce, e alle quali dà voce. E perciò nel film ho fatto lavorare circa 25 persone di Detroit che avevano perso veramente il lavoro, e interpretano loro stessi (le persone licenziati ‘in diretta’ ndr.). Perché oggi chiunque può perdere il posto”.

Consueta domanda sul Nobel a Barack Obama a Clooney e solita (con qualche variazione) risposta: “Ho cominciato a sostenerlo fin dall’inizio. Sono fiero che l’America abbia trovato e scelto Obama, ma tutti lo dobbiamo incoraggiare ed aiutare soprattutto per quel che riguarda il programma di una politica estera per la pace. Avevamo bisogno di qualche grande uomo, un presidente come Roosevelt o Jackson, e l’abbiamo trovato.

Riguardo i futuri impegni, Clooney dichiara: “Ho un paio di progetti, uno sul caso Guantanamo contro Armstrong. C’è in cantiere anche una commedia ma bisogna avere un buon copione ed è ancora presto per parlarne”.

E il regista, figlio d’arte, è costretto a parlare del padre, Ivan Reitman: “Mio padre è un eroe! – afferma orgoglioso -, un grande narratore di storie. Non mi sono mai sognato di avere il successo che ha avuto lui, sono sempre più fiero di mio padre”.

Ovviamente, nel frattempo, ci sono stati anche altri film nelle altre sezioni, eventi ed sono partite le retrospettive. Quella dedicata a Luigi Zampa, con la proiezione della versione restaurata di “La romana” con Gina Lollobrigida; e quella su Meryl Streep, premio Marc’Aurelio alla carriera. Fuori concorso / Anteprima è passata l’ultima fatica di James Ivory “The City of Your Final Destination” con Anthony Hopkins, Laura Linney, Charlotte Gainsbourg e Alexandra Maria Lara, l’attrice rumena attiva in Germania e lanciata internazionalmente da Francis Ford Coppola in “Un’altra giovinezza”, proprio alla Festa del Cinema due anni fa. Dal romanzo di Peter Cameron “Quella sera dorata” (Adelphi), ambientato in Uruguay e girato in Argentina, un sobrio ed elegante dramma targato Europa che i più cattivi hanno definito “il solito Ivory”, ovvero “Quel che resta di Ivory”. Per Proiezioni ed eventi speciali, l’interessante documentario musicale “Sound of Morocco” di Giuliana Gamba, che - sulla scia di “Crossing the Bridge: Sound of Istambul” di Fatih Akin, oppure di quelli sulla musica cubana – ci propone un viaggio musicale attraverso le antiche musiche etniche e le odierne contaminazioni o rielaborazioni, come per esempio il rap marocchino dei giovani che l’hanno fatto loro e ne sono orgogliosi. Così, guidati da Nour Edine, musicista marocchino che vive in Italia da vent’anni, conosciamo Abdellah Ed-Douch, giovane e poverissimo berbero che canta il sentimento struggente che lo lega alla sua terra; Omar Sayed, del gruppo rock anni ’70 “Nass El Ghiwane”, definiti da Scorsese i “Rolling Stones dell’Africa”, il primo che ha cantato l’orgoglio musulmano e l’unicità dell’anima e della cultura dell’Islam; fino al festival di Essaouira.

José de Arcangelo

venerdì 16 ottobre 2009

Una giornata fitta di incontri al IV Festival Internazionale del Film di Roma


ROMA, 16 – Seconda giornata fitta di incontri al Festival Internazionale del Film di Roma, che ha visto ancora una volta il sempre fascinoso divo hollywoodiano Richard Gere e l’ormai leggendario e sempre impegnato maestro cileno Miguel Littin, fino all’incontro a due (con pubblico e stampa) Giuseppe Tornatore-Gabriele Muccino per l’ormai tradizionale appuntamento della sezione L’Altro Cinema – Extra.

Gere – che domani alle 18.00 incontrerà pubblico e stampa per la stessa sezione – è il protagonista e coproduttore di “Hachiko: A Dog’s Story” di Lasse Hallstrom, presentato ufficialmente nel pomeriggio dopo il tipico rituale del red carpet, fuori concorso, per Alice nella Città, minifestival nel festival dedicato al cinema che parla dei, su e ai ragazzi. Invece, il film nonostante la storia si è rivelato una favola per adulti, che possono però vedere e apprezzare tutti, soprattutto i ragazzi più grandicelli, quelli che stando vivendo la loro adolescenza.

La possiamo considerare una “vera e propria storia d’amore” – l’ha definita giustamente la cinquantenne star – come ogni storia che parli di sentimenti (veri) che coinvolgono due essere viventi, uomo-donna, due uomini, due donne, un uomo o una donna e i loro ‘animali’ domestici che spesso si rivelano più ‘umani’ e ‘intelligenti’ di tanti uomini. Come del resto l’amicizia, dove il sesso non c’entra, ma in cui il rapporto è spesso profondo, cioè amore vero e proprio.

Non a caso, lo stesso attore ha detto: “Le persone hanno paura di parlarne e tutti lo definiscono amicizia, invece si tratta di amore nel senso più profondo del termine”.

Ispirato a una storia vera, diventato racconto popolare e poi l’omonima pellicola giapponese, il film – che uscirà nelle sale italiane per Natale distribuito da Lucky Red – racconta la vicenda di Hachi, un cane di razza Akita, e dell’amicizia speciale con il suo padrone (che, racconta Gere, nell’originale era un anziano anziché uno splendido cinquantenne). Ogni giorno Hachi accompagna il professor Parker alla stazione e lo aspetta al suo ritorno. L’emozionante natura di ciò che accadrà quando questa routine verrà bruscamente interrotta è il clou del racconto perché rivelerà allora lo straordinario potere dei sentimenti, ovvero come un semplice gesto possa trasformarsi nella più grande manifestazione di affetto mai ricevuta.

“Quando ho letto la sceneggiatura - confessa il protagonista - ho pianto tanto che non ero sicuro che fosse la reazione emotiva giusta, ma l’ho riletto qualche giorno dopo e ho pianto ancora. La potenza di questa storia per me resta un mistero. E’ quel qualcosa che comunemente chiamiamo amore, fedeltà, pazienza, compassione, comprensione; parti di noi stessi. Possiamo vederlo guardandoci allo specchio: noi non siamo il nostro lavoro, né il nostro look. Siamo quella forza misteriosa chiamata amore”.

Qualcuno, provocatoriamente, gli chiede se è più facile recitare con una famosa star o con un cane, il divo risponde diplomaticamente con un sorriso: “Il trucco, durante le riprese, è stato quello di non addomesticare il cane. Abbiamo solo fatto in modo di creare un’atmosfera di fiducia per l’animale, aspettando che succedesse qualcosa di magico. E’ stato come lavorare con un bambino, e come sosteneva Robert Altman sul set ‘il segreto è non dire mai ai bambini cosa devono fare’. Solo nelle situazioni autentiche, quotidiane, si può catturare quel momento magico e nel nostro film non ci sono stratagemmi né giochi cinematografici: c’è e resta solo la potenza della storia”.

Non mancano certo i riferimenti al buddismo e alla sua amicizia col Dalai Lama - infatti Gere ha voluto inserire in apertura un monastero zen -, né al suo legame con i cani fin dalla sua infanzia.

“Ho sempre avuto cani, fin da piccolissimo – rivela -. Non avevo ancora un anno quando me ne andavo per casa carponi col mio cucciolo cocker spaniel, Clipper; poi è stata la volta di Billie, una femmina (come Billie Holiday). Per me il cane è un compagno speciale e soprattutto per questo ho fatto il film. In realtà, non voglio dare un nome a questo rapporto ma spesso penso che gli animali siano reincarnazioni di cari amici con cui riprendiamo l’amicizia”.

Immancabile la domanda su Barak Obama, visto il recente premio Nobel, e Gere la pensa come tutti noi: “Si tratta di un incoraggiamento – conclude – per ricordargli il motivo della sua elezione a Presidente. C’è sempre il rischio che, nonostante le buone intenzioni, possa diventare come i leader che l’hanno preceduto, anche se lui è una persona che parla direttamente ai nostri cuori. Perciò tutti lo amano”.

Dalla star indiscussa e impegnata, al maestro del cinema latinoamericano Miguel Littin che ha raccontato una storia vera, da non dimenticare, e dedicata soprattutto ai giovani di oggi che hanno riempito i cinema cileni e non hanno vissuto i terribili momenti del golpe e gli anni della dittatura di Pinochet, che il regista – volutamente – non ha voluto nominare nemmeno una volta nel suo film. Un colpo di stato militare – appoggiato non solo moralmente dagli Stati Uniti - che soffocò il primo ‘esperimento’ di governo socialista democratico eletto e sostenuto dal popolo. Ispirato al libro autobiografico di Sergio Bitar, allora ministro delle miniere per Salvador Allende, che quella orribile esperienza l’ha vissuta, “Dawson, Isola 10” ricostruisce la prigionia in un’isola dimenticata dal mondo, all’imboccatura dello stretto di Magellano, flagellata dal freddo polare.

“E’ un caso esemplare in cui la tortura – afferma l’autore -, oltre che fisica, diventa anche intellettuale e psicologica. E l’obiettivo centrale dell'oppressore è quello di cancellare l'identità e perfino la nazionalità, distruggere la volontà, estirpare ogni segno di appartenenza e capacità di ragionare. Ma se l'oppresso sviluppa la capacità di resistere e mantenere intatta la propria dignità, come accadde per i ‘prisioneros’ di Dawson, i ruoli si ribaltano e l'oppresso inizia a esercitare la sua superiorità intellettuale sull'oppressore, che può solo contare sulla forza (bruta ndr.). Così gli uomini dell’isola riuscirono a ricostruirsi uno spazio democratico. Utilizzando il loro stato di prigionieri di guerra, organizzarono corsi secondo le rispettive professioni precedentemente esercitate. Si può addirittura parlare di una 'Repubblica di Dawson' tenendo conto però che fu una conquista dei prigionieri e mai concessione degli aguzzini. Che non sapevano come comportarsi. Per questa ragione applicarono la Convenzione di Ginevra riservata ai ‘prigionieri di guerra di una nazione straniera’”.

Sempre la dittatura di Pinochet – che diede il via ai ‘golpes’ militari a catena in tutto il Sudamerica (Uruguay, Argentina pian piano fino all’America Centrale) – è al centro del documentario di Mimmo Calopresti dedicato ad Adriano Panata “La maglietta rossa”, perché nel 1976, proprio in pieno regime, la squadra italiana di tennis doveva affrontare non solo il Cile ma disputare la finale della Coppa Davis proprio a Santiago. Mentre tutta la sinistra chiedeva di boicottare i giochi, fu Berlinguer stesso a consigliare gli atleti italiani di parteciparvi per evitare che il dittatore strumentalizzassi il fatto a suo favore. Però è stato lo stesso Panata l’ideatore di una sottile ma riuscita provocazione: presentarsi in campo in maglietta rossa. Il colore della contestazione e della ribellione che tanto irritava ovunque i dittatori.

Però gli incontri non finiscono qui, ci sono state la regista Donatella Maiorca, l’autore del libro “Minchia di Re” Giacomo Pilati, il cast (Isabella Ragonese, Valeria Solarino e Corrado Fortuna), l’autrice delle musiche Gianna Nannini e la produttrice Maria Grazia Cucinotta a presentare “Viola di mare”, da oggi anche nelle sale. Una storia d’amore, anzi di frontiera geografica e identitaria, che intreccia leggenda, verità e poesia nella Sicilia dell’Ottocento, rievocando uno scandalo antico, perduto. La venticinquenne Angela ama Sara e cerca di sopravvivere allo scandalo della propria omosessualità fingendosi uomo. Ma pregiudizio, intolleranza e menzogna regnano.

Chiusura con due autori italiani, amati anche all’estero e soprattutto in America, a confronto. Incontro e dialogo col pubblico illustrato da un frammento dei documentari sulla Sicilia realizzati dal ventenne Tornatore che anticipano il suo cinema e il suo ‘stile’, e poi sequenze di film di uno scelte dall’altro (Muccino) e viceversa. Quindi, i due registi parlano del loro lavoro, delle loro ricerche, dei loro film più amati, delle loro paure e timidezze, dei loro segreti e dei loro sogni, avverati e non. La ‘ridondanza’ che vedono tanti nell’autore siciliano e la ‘profonda leggerezza’ del regista romano di cui parlano altri.

José de Arcangelo