sabato 11 settembre 2010

Venezia 67. I Leoni per Sofia Coppola e Alex de la Iglesia. Italia a mani vuote

Undicesimo e ultino giorno alla 67a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con la cerimonia di premiazione ufficiale, alle ore 19.00 in Sala Grande, preceduta da quella della sezione Orizzonti alle 17,30 in Sala Perla. Il Leone d’oro a sorpresa (ma non troppo) e “all’unanimità” a “Somewhere” di Sofia Coppola – i maligni hanno ricordato la passata love story del presidente della Giuria Tarantino, vistosamente commosso, con la regista -; ma anche il Leone d’Argento per la miglior regia allo spagnolo Alex de la Iglesia, autore di “Balada triste de trompeta”, hanno lasciato perplessa parte della critica, perché il mix di generi con preferenza per l’horror del regista non piace a tutti - ma sì a Quentin -, tanto che il film si è aggiudicato anche l’Osella d’Argento per la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista. Premio speciale della Giuria per uno dei preferiti, “Essential Killing” di Jerzy Skolimowski, e Coppa Volpi per il miglior attore al protagonista Vincent Gallo, assente alla premiazione ma presente al Lido.
La Coppa Volpi per la miglior attrice è, invece, andata alla greca Ariane Labed, protagonista di “Attenberg” di Athina Rachel Tsangari. Leone speciale per l’insieme dell’opera a Monte Hellman; Osella per il miglior contributo tecnico a Mikhail Krichman per la fotografia del film “Silent Souls” di Aleksei Fedorchenko, Premio Marcello Mastroianni per giovane attore/attrice emergente a Mila Kunis, attrice non protagonista del film “Black Swan”; e Leone del Futuro, premio Venezia Luigi De Laurentiis, all’opera prima “Cogunluk” (Majority) del turco Seren Yuce, presentato nelle Giornate degli Autori. Nonostante la massiccia e buona presenza italiana in concorso (ben quattro film) e fuori nemmeno un premio di consolazione. Mazzacurati forse è stato penalizzato perché il suo film è una commedia, così come il francese “Potiche” di Ozon, però in un certo senso lo è anche il film spagnolo, sorta di miscela esplosiva di generi diversi.
Anche la critica online ha trascurato le opere italiane e decretato come migliori film della 67a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Mouse d’Oro 2010, a Ovsyanki (Anime silenziose) di Aleksei Fedorchenko – che però era uno dei più quotati candidati al Leone d’oro - “per aver saputo unire con efficacia sperimentazione e narrazione all’interno di un’opera capace di uscire dagli schemi e al tempo stesso di analizzare le culture della sua terra”; Mouse d’Argento 2009 a “Incendies” di Denis Villeneuve (Giornate degli Autori) “per aver testimoniato in modo tragico ed esplicito l’insensatezza della guerra contaminando cinema della realtà e tragedia greca”.
Dopo la premiazione, il film di chiusura “The Tempest” di Julie Taymor, che torna a Venezia (fuori concorso) dopo “Frida” e reduce del successo di “Across the Universe” al Festival di Roma, qualche anno fa. Nel quarto centenario della prima messa in scena del celebre testo di William Shakespeare, già oggetto di tantissime riduzioni e rivisitazioni sul grande e sul piccolo schermo, in tutto il mondo, riecco “La tempesta”. Una versione moderna, fantasiosa e al femminile, visto che il celeberrimo stregone Prospero diventa donna e ha il regale aspetto di Dame Helen Mirren, una bravissima attrice da quasi quarant’anni sulla cresta dell’onda e pluripremiata, anche con l’Oscar (dopo tante nomination) per “The Queen”.
Il mago Prospero, anzi la maga Prospera manovra spiriti, mostri, un re in lutto, un anziano e saggio consigliere, due fratelli furfanti e un mare in tempesta per orchestrare una congiura fantastica che porta l’esilio, la stregoneria e il naufragio nelle vite di due sventurati amanti, accelerandone e suggellandone il destino. L’aspetto femminile del personaggio conferisce, in questo modo, al suo percorso verso la vendetta e la scoperta di sé una risonanza del tutto nuova. Quando Prospera spezza il suo bastone fatato sullo sfondo di un drammatico paesaggio vulcanico, al termine della sua eroica avventura, questa struggente vicenda d’amore e perdono si trasforma in un racconto cinematografico affascinante e mistico, che parla al nostro tempo.
“Anni fa avevo prodotto e diretto ‘The Tempest’ in teatro a New York – esordisce la regista – ed è stato il primo dramma di Shakespeare che ho realizzato. Mi sono innamorata subito della pièce e anche se erano stati girati già tanti altri film sull'opera, tra cui “L'ultima tempesta” di Peter Greenaway, il testo originale permette una tale quantità di soluzioni e di riletture che ognuno può interpretarlo come vuole, e c'è sempre spazio per una visione originale, personale. Poi ho avuto il cast migliore che potessi desiderare che, unito alla ineguagliabile bellezza del paesaggio (è stato girato su un’isola delle Hawaii ndr.) e agli effetti visivi che avevo a disposizione, ho pensato che il cinema potesse essere un altro mezzo perfetto per raccontare Shakespeare e la sua tragedia, la più complessa e completa che abbia mai letto in vita mia”.
“Non mi ero mai avvicinata a ‘La Tempesta’ prima – confessa la Mirren -, neanche a teatro, quando mi è stato offerto il ruolo ne sono rimasta affascinata perché Shakespeare è stato l'autore che tanti anni fa mi ha spinto ad intraprendere la carriera di attrice teatrale. Pensate che il mio primo ruolo in una recita scolastica è stato proprio quello di Caliban (lo schiavo, nel film interpretato da Djimon Hounsou ndr.). Alcuni anni fa sono andata a vedere la pièce insieme al mio amico (e collega ndr.) Derek Jacobi e ho pensato che Prospero avrebbe potuto essere interpretato anche da una donna, senza bisogno di cambiare tanto i dialoghi né la storia. Infine, due anni fa l'incontro con Julie, non ci conoscevamo ma in un certo senso la pensavamo allo stesso modo. Entrambe avevamo voglia di lavorare insieme e lei mi chiese cosa mi sarebbe piaciuto fare al cinema. Io risposi senza dubbi che mi sarebbe tanto piaciuto recitare nella versione femminile di Prospero e lei mi disse che ci aveva già pensato. Eravamo come due universi paralleli che non si erano mai incontrati”.
Gli altri premi: il Premio Orizzonti è andato al messicano “Verano de Goliat” di Nicolàs Pereda e il Gran Premio Speciale della Giuria a “The Forgotten Space” di Noel Burch e Allan Sekula. Ma in giornata erano stati presentati ben venticinque titoli della sezione Orizzonti in proiezione dalle ore 8.30 al pomeriggio, in Sala Perla. Tra gli altri riconoscimenti paralleli il Premio Orizzonti Cortometraggio a “Coming Attractions” di Peter Tscherkassky; Premio Orizzonti Mediometraggio a “Tse” (Out) di Roee Rosen; Menzione Speciale a “Jean Gentil” di Israel Cardenas e Amelia Laura Guzman; Venice Short Film Nominee for the European Film Awards “The External World” di David OReilly. I Premi FIPRESCI: per il Miglior film Venezia 67 è stato assegnato al russo “Silent Souls” di Aleksei Fedorchenko e per il Miglior film delle sezioni Orizzonti e Settimana Internazionale della Critica a “El Sicario - Room 164” di Gianfranco Rosi, co-produzione Italia-Francia. Un premio collaterale, Selezione Cinema Doc, per un altro documentario italiano, “Il sangue verde” di Andrea Segre sui braccianti, immigrati africani, di Rosarno. Il film sarà presentato a Roma (Cinema Farnese alle 20.30) il 13 settembre e a Milano (Milano FilmFest ore 17.30 al Teatro Studio) il 14 settembre. Il giorno dopo andrà in onda su Raitre (Doc 3) il 15 alle 23.00.
José de Arcangelo

venerdì 10 settembre 2010

Venezia 67. Ultima corsa per i Leoni tra il redivivo maestro Monte Hellman (Road to Nowhere) e il giovane Richard J. Lewis (Barney's Version)

Decimo e penultimo giorno per la 67a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ultimi tre film in gara, “Road to Nowhere” del redivivo e poco prolifico maestro Monte Hellman, Barney's Version” di Richard J. Lewis, tratto dal best-seller di Richler e “Drei” di Tom Tykwer. Tra le altre pellicole in programma “Dante Ferretti: Production Designer” di Gianfranco Giagni, un documentario sul celebre scenografo premio Oscar, insignito al Lido col Premio Bianchi del SNGCI e “L'ultimo Gattopardo” di Giuseppe Tornatore, dedicato al rimpianto e inimitabile produttore Goffredo Lombardo, fuori concorso. News from Nowhere” di un altro autore americano redivivo, Paul Morrissey, e “The Forgotten Space” di Noel Burch e Allan Sekula in Orizzonti.
Cinema nel cinema (e altro) nel film-puzzle di Hellman che ha disorientato e/o lasciato perplesso qualche spettatore, quindi realtà e finzione, sogno e vita si intersecano e si confondono. Il giovane regista cult statunitense Mitchell Haven – alter ego dell’autore - ha trovato il materiale per il suo nuovo capolavoro: un film giallo tratto da una storia vera che ha per protagonisti una bella ragazza, Velma Duran, e il suo compagno Rafe Taschen, più anziano e politicamente impegnato. Il fallimento del loro truffaldino piano di corruzione causa l’uccisione di un vicesceriffo e culmina nel drammatico suicidio della sfortunata coppia. Mitchell si innamora di questa storia dal finale tragico, e ancor più della splendida Velma Duran. E il suo amore si accende ancor di più quando ingaggia per il film Laurel Graham, modella e attrice emergente che può vantare un’inquietante somiglianza con Velma. Quando però iniziano le riprese, nel luogo stesso degli avvenimenti, Mitchell scopre che…
“Steven Gaydos (co-sceneggiatore ndr.) ha sognato il film – confessa Hellman, tornato dietro la cinepresa a oltre vent’anni dal suo ultimo lavoro, “Iguana” - e da ciò è nata l'idea di realizzarlo davvero. E’ stata la prima idea che è piaciuta anche a me in trent'anni. Questo è il vero primo dei miei film perché mi appartiene completamente. Prima avevo lavorato solo su commissione”.
“Nel film io faccio una piccolissima parte – dice Fabio Testi, che è stato protagonista 30 anni fa del western italiano firmato dal regista “Amore, piombo e furore” ¬ . E visto che non potevo spostarmi a Miami per impegni di lavoro, Monte è venuto a casa mia sul lago di Garda e abbiamo girato lì le mie scene perché lui mi voleva ad ogni costo. Ci conosciamo da trent'anni e lavorare con lui significa stare con un grande maestro. Questo, come tutti i suoi film, sarà attuale tra dieci anni perché ciò che lui ha cominciato a fare trent'anni fa lo stanno facendo tutt'oggi”.
“La cosa più difficile al mondo è fare un film – conclude il regista -. Nel nostro caso però abbiamo usato tutto ciò che avevamo e con i mezzi di cui disponevamo. Le produzioni indipendenti permettono di avere una maggior libertà”.
Tratto dall’omonimo romanzo di Mordecai Richler – morto quando stava già lavorando alla sceneggiatura -, il riuscito adattamento “Barney’s Version” firmato da Lewis (che si è fatto le ossa col televisivo “CSI scena del crimine”), narra la storia emozionante, arguta e divertente di Barney Panofsky (sempre grande Paul Giamatti), uomo apparentemente comune con una vita fuori dal comune. Il candido racconto autobiografico di Barney copre quattro decenni e due continenti, includendo tre mogli, un padre stravagante (Dustin Hoffman, assente alla mostra) e un migliore amico amabilmente dissoluto. Barney’s Version ci accompagna tra i numerosi alti – e i bassi ancor più numerosi – di una vita lunga e pittoresca che ruota attorno all’improbabile eroe: l’indimenticabile Barney Panofsky.
Il film, però, era in cantiere da quasi dieci anni perché oltre la scomparsa dello scrittore, ha dovuto affrontare anche altri problemi di produzione e, circa cinque anni fa, al produttore canadese si è affiancato anche Domenico Procacci, anche perché la parte ambientata a Parigi era stata spostata a Roma dallo stesso Richler. Quindi nel cast c’è anche qualche attore italiano e il figlio di Barney è interpretato, invece, dal vero figlio di Hoffman, Jake. I riferimenti ‘politically scorrect” e sottilmente eversivi presenti nel libro sono stati però trascurati per concentrarsi sull’eccentrica esistenza del personaggio e, in un certo senso, edulcorati. Comunque, la commedia di vita funziona e diverte.
“Anch'io come Barney – ammette Giamatti - sono un tipaccio orribile e come lui un romantico frustrato, dolce ma anche bastardo. Ho pensato anch’io di scappare dal mio matrimonio (con la cameriera), come lui, però poi mi sono trattenuto, non bisogna mica essere dei selvaggi! Perciò ho accettato il ruolo proprio per poter fare quello che nella vita ho desiderato ma non ho avuto il coraggio di fare”.
Dramma intimo ed intimista di un (in) solito triangolo quello firmato dal tedesco Tykwer, autore del già acclamato “Lola corre”, ma molto meno convincente. Berlino, oggi: Hanna e Simon sono una coppia mondana, che ha vissuto assieme per anni. Lavoro, amore, sesso e quotidianità si sono ormai amalgamate in una belligerante armonia. Poi Hanna incontra Adam. E Adam incontra Simon. Inaspettatamente, i tre si innamorano. Hanna e Simon non sanno della relazione dell’altro. Ma il segreto comincia lentamente a confondere tutti e tre gli amanti, e minaccia di spezzare i fragili legami della coppia. “Tre” è un’indagine sulla vita emozionale di una generazione che prova a riconciliare nuove possibilità e antichi desideri.
Il documentario di Giagni ripercorre la vita e la carriera del grande artista e scenografo Dante Ferretti, distintosi nell’ambito del cinema italiano e internazionale (due Oscar, tre Bafta Awards, cinque David di Donatello e dodici Nastri d’Argento). È lo stesso Dante a guidare lo spettatore nei luoghi che hanno fatto da cornice ai più importanti momenti della sua vita personale e professionale: dalla sua infanzia a Macerata agli inizi della sua carriera sempre nelle Marche sino a Cinecittà dove insieme a lui entriamo nel suo studio: è lì che ci mostra i suoi splendidi disegni, i plastici, i premi ricevuti; sino al Museo del Cinema e lo Statuario del Museo Egizio di Torino. Il documentario è arricchito da sequenze di alcuni dei più emozionanti film cui ha contribuito e da immagini di repertorio, alcune inedite, interviste e backstage che ricostruiscono a 360 gradi l’anima e la carriera di questo grande artista. Tra gli intervistati: Martin Scorsese, Harvey Weinstein, Terry Gilliam, Leonardo Di Caprio, Giuseppe Tornatore, Liliana Cavani, Jean Jacques Annaud, Valentino, Carla Fendi e tanti altri.
Goffredo Lombardo è stato uno tra i più illustri produttori del panorama cinematografico italiano e grande testimonial – come si dice oggi – nel mondo; “L’ultimo Gattopardo” di Tornatore ne ripercorre la vita e l’attività grazie a una serie di sequenze di film prestigiosi della Library Titanus con testimonianze d’epoca e dei nostri giorni di attori, registi, sceneggiatori sia italiani che stranieri, che hanno lavorato con lui e che tracciano la storia centenaria di una delle più prestigiose case cinematografiche italiane.
“News from Nowhere” (Notizie da nessuna parte) di Morrissey, già allievo di Andy Warhol, segue gli incontri fra un enigmatico sconosciuto e gli abitanti di una città portuale statunitense affacciata sull’Atlantico, allo scopo deliberato di ritornare non solo allo stile delle opere giovanili del regista, ma anche al tipo di film che il cineasta ha realizzato in Europa (inclusa l’Italia) negli anni '60 e '70: uno stile cinematografico che è praticamente scomparso e, proprio come il protagonista di questa pellicola, è di fatto indesiderato. La natura e l’aspetto dello straniero lo separano dagli autoctoni che tentano di stabilire un contatto con lui; il protagonista, che mantiene solo un’identità di facciata, non ha alcuna intenzione di dare spiegazioni o di raccontare storie drammatiche sulla propria vita. Quali che siano le sue motivazioni, preferisce tenerle per sé.
“Lo spazio dimenticato” è il mare, almeno finché non accade un disastro. Ma, secondo il documentario girato a quattro mani, forse il maggiore disastro dei trasporti marittimi è la catena di distribuzione che porta l’economia globale verso l’abisso. Il film, infatti, ‘insegue’ i container a bordo di navi, chiatte, treni e camion, ascoltando i lavoratori, tecnici, progettisti, politici e quelli che vengono marginalizzati dal sistema globale dei trasporti. Si tratta di visite presso agricoltori costretti ad abbandonare la propria terra in Olanda e Belgio, camionisti sottopagati a Los Angeles, marinai a bordo di mega navi che fanno la spola tra l’Asia e l’Europa e operai cinesi, i cui salari bassi sono la fragile chiave dell’intero rebus. A Bilbao, scopriamo l’espressione più sofisticata dell’idea che l’economia marittima, e il mare stesso, sono in qualche modo obsoleti.
Fuori concorso anche l’horror (tridimensionale) giapponese “The Shock Labyrinth 3D” di Takashi Shimizu, che uscirà nelle sale italiane il mese prossimo. Una ragazza riappare a dieci anni dalla sua misteriosa scomparsa, avvenuta durante una gita al lunapark. Gli amici la accolgono sorpresi e felici, ma sono costretti a portarla d'urgenza in ospedale per un improvviso collasso. L'ospedale si rivelerà però un luogo da incubo, un vero e proprio labirinto… degli orrori!
Ad un giorno dai Leoni sono arrivati i premi collaterali. Il “Premio Brian”, alla sua V edizione, è stato attribuito al film “I baci mai dati” di Roberta Torre. Messo in palio dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR), il “Premio Brian” (dal titolo del film satirico dei Monty Python “Brian di Nazareth”) viene attribuito a “un film che evidenzi ed esalti i valori dal laicismo, cioè la razionalità, il rispetto dei diritti umani, la democrazia, il pluralismo, la valorizzazione delle individualità, le libertà di coscienza, di espressione e di ricerca, il principio di pari opportunità nelle istituzioni pubbliche per tutti i cittadini, senza le frequenti distinzioni basate sul sesso, sull’identità di genere, sull’orientamento sessuale, sulle concezioni filosofiche o religiose”.
Il Leoncino Agis-Scuola è andato a “Barney’s Version”, mentre il Premio “Pari Opportunità” alla protagonista del discusso “Venus Noire” di Abdellatif Kechiche, Yahima Torres e consegnato dal Ministro dell’omonimo dicastero, Mara Carfagna. E domani, invece, ci sarà l’attesa premiazione ufficiale.
José de Arcangelo

giovedì 9 settembre 2010

Al Lido, l'Italia in un horror (Costanzo) e un western (Cecere) dei sentimenti

Dopo la pioggia (per due giorni di seguito) è arrivato il sereno, e uno splendido sole, al Lido dove è stato presentato il quarto e ultimo film italiano in concorso, “La solitudine dei numeri primi” di Saverio Costanzo, tratto dal romanzo omonimo di Paolo Giordano, che è stato accolto dalla stampa da un grande applauso e qualche fischio. Ma si sa dalle pellicole tratte da opere letterarie difficilmente si resta soddisfatti, anche quando l’autore stesso – come in questo caso - ha scritto la sceneggiatura col regista, perché ognuno ha nella memoria “le proprie immagini” (e le impressioni / emozioni) del testo originale. Poi, il fatto che Costanzo si appelli all’horror per smorzare la cruenta realtà del dolore e della solitudine non è stata ben accolta da tutti.
La storia per chi ancora non ha letto il premiato romanzo-esordio di Giordano, il più giovane a vincere il Premio Strega e poi il Campiello, che è stato anche star in passerella a Venezia. I numeri primi sono divisibili soltanto per uno e per se stessi. Sono numeri solitari e incomprensibili agli altri. Alice e Mattia sono entrambi “primi”, entrambi perseguitati da tragedie che li hanno segnati nell’infanzia: un incidente sugli sci per Alice, che le ha causato un difetto a una gamba; la scomparsa della sorella gemella per Mattia. Quando da adolescenti si incontrano nei corridoi di scuola, riconoscono il proprio dolore l’uno nell’altra. Crescendo, i loro destini s’intrecciano in un’amicizia speciale, finché Mattia, laureatosi in Fisica, non decide di accettare un posto di lavoro all’estero. I due si separano per molti anni e sarà una sequenza di eventi a ricongiungerli, per riportare in superficie una quantità di emozioni mai confessate.
Quindi un ‘horror dei sentimenti’ da amare o da odiare, costruito con la sapiente professionalità dall’autore di “Private” e “In memoria di me”.
“Mi hanno proposto il romanzo in un momento in cui non ero interessato a una storia d'amore – confessa Costanzo -. Dopo però il libro è cresciuto moltissimo, commercialmente, diventando un segno popolare. Allora mi sono proposto come sceneggiatore e ho iniziato a collaborare con Paolo (Giordano ndr.). E solo alla fine ho deciso di fare la regia”.
“Il dolore presente nel romanzo è tale che se non si stempera un po' diventa irrappresentabile – afferma il regista -. L'horror permette di rileggerlo attraverso l'ironia, offre la libertà di sdrammatizzare. La musica che apre il film è un pezzo dei Goblin (autori delle musiche di ‘Profondo rosso’ ndr.) e il coretto presente nella parte dell'infanzia è di Morricone, tratto da ‘L'uccello dalle piume di cristallo’. Quando giravamo la musica era sul set, l’operatore di macchina ce l’aveva nelle cuffie e gli attori recitavano sopra la musica”.
Passati in secondo piano gli altri film della giornata: “13 Assassins” di Takashi Miike. “Notizie degli scavi” che segna il ritorno di un Autore come Emidio Greco, “That Girl in Yellow Boots” di Anurag Kashyap e “Zebraman 2”, ancora di Miike, fuori concorso.
Il film in concorso firmato dal regista giapponese cult Miike è il remake di un samurai-movie anni Sessanta e fonde, quindi, tradizione e modernità sia nella narrazione sia nello stile, tanto che il tocco dell’autore verrà fuori nel finale, dove trionfano l’ironia e l’iperrealismo esasperato. Il nobile samurai Shinzaemon Shimada riceve in segreto l’incarico di assassinare il crudele signore feudale Naritsugu in seguito alla sua violenta ascesa al potere. Insieme a un gruppo di abilissimi colleghi, Shinzaemon progetta un’imboscata per catturare il feudatario. Naritsugu, però, è protetto da un micidiale esercito capeggiato dallo spietato Hanbei, acerrimo nemico di Shinzaemon, e gli impavidi samurai sanno che stanno per avventurarsi in una missione suicida. Shinzaemon e i suoi uomini trasformano un piccolo villaggio di montagna in una trappola mortale, ma all’arrivo di Naritsugu scoprono che il nemico ha una superiorità numerica di quindici a uno. È giunta l’ora per i 13 intrepidi assassini di affrontare la morte in un’epica battaglia con esplosioni infuocate, diluvi di frecce e clangore di spade.
L’altra pellicola dell’autore giapponese – fuori concorso – è il sequel di “Zebra man” proiettato nei giorni scorsi, sorta di avventura grottesco-satirica sulla scia del trionfo dei supereroi nei fumetti e sul piccolo e grande schermo non solo nipponici.
Quindici anni sono trascorsi dall’epica battaglia tra Zebraman e gli alieni… Nel 2025, Zebra City è una metropoli modello dove si sperimentano riforme politiche. Uno di questi esperimenti è “L’Ora della Zebra”. Ogni giorno alle 5:00 e alle 17:00, per cinque minuti, la legge permette ogni sorta di atto criminale! I potenziali criminali vengono annientati, e insieme a loro, anche i malati e gli anziani. Dall’entrata in vigore dell’Ora della Zebra il tasso di criminalità inizia a diminuire, rendendo Zebra City la metropoli più sicura al mondo – e finalmente il nero e il bianco sono chiaramente distinti! Sulle strade di Tokyo, completamente trasformate, Shinichi si risveglia all’improvviso: ha perso la memoria. Sono esattamente le 5:00 – comincia l’Ora della Zebra! Ed ecco che un agente della Zebra-Polizia apre il fuoco contro di lui. Nell’area destinata agli sfollati, Shinichi incontra Asano-san, un dottore, e Sumire, una misteriosa giovane. Quando Shinichi la sfiora, su una parte del suo corpo spuntano strisce da zebra e nel medesimo istante recupera la memoria! Yui è presa da violente convulsioni… È l’inizio di una battaglia in bianco e nero tra il Bene e il Male, e la posta in gioco è il destino dell’umanità!
Tratto dall’omonimo racconto di Franco Lucentini, l’opera di Greco (da “L’invenzione di Morel” a “L’uomo privato”) è un dramma delicato ma ancora attuale, perciò il regista stesso l’ha riadattato riportandolo dagli anni Sessanta all’oggi.
Soprannominato ironicamente il “professore”, il protagonista è un quarantenne (Giuseppe Battiston) dall’aspetto scialbo, dall’espressione assorta e stupita. Apparentemente chiuso alla coscienza, ha nei confronti delle cose un’attenzione spiazzante e imprevedibile, che lo porta a distrarsi, inseguendo il filo di un pensiero spesso incongruo rispetto alle contingenze. Conduce una grama vita di tuttofare in una casa equivoca, a Roma, finché la piattezza della sua vita viene scossa dalla conoscenza della Marchesa (Ambra Angiolini), una prostituta che in passato era una della casa, e che ha tentato di suicidarsi per una delusione d’amore. Il “professore” va a trovarla in ospedale e in un crescendo di attenzioni, di piccoli favori, di gesti semplici e gentili complicità, sembra che tra i due possa nascere un improbabile sentimento di simpatia. Ma un altro episodio inciderà più profondamente nella coscienza dell’uomo: la visita agli scavi di Villa Adriana, a Tivoli. Sarà la bellezza e la suggestione dei reperti archeologici a risvegliarlo alla coscienza, in uno scambio e un intreccio di significati con la mediocrità della sua vita.
L’indiano “Quella ragazza dagli stivali gialli” narra, invece, la ricerca di Ruth per ritrovare il padre in un luogo a lei estraneo, Mumbai. Per disperazione, la ragazza accetta un impiego, senza permesso di lavoro, in un salone di massaggi dove offre il “lieto fine”. Il film è ambientato nella brulicante metropoli, una città che chiede a gran voce spazio e indipendenza eppure esita a farsi trascinare nelle implicazioni politiche di questa richiesta. Una città dotata di un’identità unica che cerca di integrarsi ma anche di tenersi a distanza dalle proprie radici e in cui ognuno vuole la sua parte. Anche Ruth si trova in una condizione simile sullo sfondo di questo territorio estraneo e insieme stranamente familiare, in cui ognuno vuole un pezzo della sua vita.
Tra gli altri film in programma oggi, anche “Il primo incarico” di Giorgia Cecere, in Controcampo Italiano, cui è seguita la cerimonia di premiazione della sezione. Il premio è andato – giustamente – a “20 sigarette”, opera prima di Aureliano Amadei – unico sopravvissuto (civile) alla strage di Nassirya - e una menzione speciale per il suo protagonista Vinicio Marchioni.
Definito dall’autrice un western dei sentimenti e con Isabella Ragonese (la madrina del festival) protagonista, “Il primo incarico” è ambientato nell’Italia del 1953: Nena, una ragazza del Sud, deve trasferirsi lontano da casa per il suo primo incarico come maestra. Le dispiace, non perché lascia sua madre e sua sorella – con loro è tutto chiaro e, a volte, duro. Ma soprattutto perché in paese ha una storia d’amore importante, cui crede molto, con un giovane dell’alta borghesia che sembra ricambiarla sinceramente. Si promettono che nulla cambierà tra di loro, “è solo fino a giugno”, poi lei chiederà il trasferimento. Così parte, un po’ triste e un po’ curiosa di ciò che l’aspetta. Però ciò che trova è ben diverso da ogni sua immaginazione, anzi è molto peggio. Una scuola sperduta su un altopiano, ragazzini ingovernabili, gente con cui non ha niente in comune, una natura ostile. Resiste per orgoglio e perché Francesco l’ama anche per quello, per il suo coraggio. Finché in un freddo giorno di febbraio tutto precipita, tutto sembra per sempre perduto. Non è così, non è mai davvero così. Nena lo scoprirà a poco a poco...
José de Arcangelo

mercoledì 8 settembre 2010

Dall'Ottocento ad oggi, dalla Francia agli Stati Uniti: violenza, disagio e sfruttamento sul grande schermo del Lido

Ottavo giorno alla 67. Mostra con “Attenberg” di Athina Rachel Tsangari (Grecia) e “Venus noire” di Abdellatif Kechiche (Francia), in concorso. Gli altri film della giornata, fuori concorso, “La prima volta a Venezia” di Antonello Sarno, “Sorelle mai” di Marco Bellocchio e, soprattutto, “The Town” di Ben Affleck, che ha attirato su di sé quasi tutta l’attenzione di addetti ai lavori e non. “Tajabone” di Salvatore Mereu in Controcampo Italiano. “A Espada e a Rosa” di João Nicolau e “The Nine Muses” di John Akomfrah in Orizzonti.
Dramma sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, “Attenberg” (dal nome distorto del documentarista inglese Attenborough), non originale nei contenuti ma soprattutto nella forma, tra sperimentazione e ricostruzione a metà fra documentario e psicologico. Marina, una ragazza di ventitrè anni, vive con il padre morente (ma non morto), un architetto ateo e anarchico, in una città industriale sperimentale sul mare. Trovando la specie umana strana e repellente, se ne tiene lontana. Invece la osserva testardamente attraverso le canzoni dei Suicide, i documentari sui mammiferi di Sir David Attenborough in tivù e le lezioni di educazione sessuale impartite dalla sua unica amica e compagna di giochi (in cortile), Bella. Uno sconosciuto arriva in città e la sfida ad una gara di calcetto, sul tavolo di lei. Suo padre intanto si prepara ritualisticamente a lasciare il XX secolo, che considera “sopravvalutato”. Invischiata tra i due uomini e Bella, Marina indaga i meravigliosi misteri dell’altra fauna, quella umana.
Scioccante e lucido dramma sullo sfruttamento esasperato, l’opera di Kechiche – già premiato a Venezia per “Cous Cous” – ricostruisce la storia (vera) di una donna africana, fenomeno da baraccone e vittima di ogni sorta di umiliazioni/torture fisiche e psicologiche, nella ‘civiltà bianca’. Parigi, 1817, Accademia Reale di Medicina. “Non ho mai visto testa umana più simile a quella di una scimmia”. Di fronte al calco del corpo di Saartjie Baartman, l’anatomista Georges Cuvier è categorico. Un parterre di distinti colleghi applaude la dimostrazione. Sette anni prima, Saartjie lasciava l’Africa del Sud con il suo padrone, Caezar, per andare ad offrire il suo corpo in pasto al pubblico londinese delle fiere e degli zoo umani. Donna libera e schiava al tempo stesso, la “Venere ottentotta” era l’icona dei bassifondi, sacrificata al miraggio di un’ascesa dorata...
“Sartjie è un personaggio misterioso – dichiara il regista franco-tunisino -, perciò mi ha subito interessato. Per raccontarla non ho seguito un approccio psicologico, l'immagine da sola rivela molte più sfumature della natura umana. E’ stata una donna violentata da tutti: guardandola la gente vedeva solo la sua caricatura. E’ vero che gli uomini hanno sempre oppresso molto le donne, ma una donna nera dal corpo ‘diverso’ riassume in sé tutti i tipi di oppressione”.
Oltre il razzismo, la pellicola affronta un altro tipo di sfruttamento, forse più orrendo, quello scientifico: “Un orrore assoluto - dice. Non si può, col pretesto della ricerca, perdere così la propria umanità". E sulla polemica che in questi giorni infiamma la Francia, l’espatrio dei rom da parte del presidente Sarkozy, l’autore afferma: “una vera sciagura, anche per questo il mio film diventa così attuale”.
Tratto dal libro di Chuck Hogan “Il principe dei ladri” (di cui è stato cambiato solo il finale), l’opera di Ben Affleck - sceneggiatore con Peter Craig e Aaron Stockard, regista e, stavolta, anche protagonista - è ambientata a Boston, una città dove si contano oltre 300 rapine in banca l’anno. La maggior parte dei ladri professionisti vive nel quartiere di Charlestown. Tra questi anche Doug MacRay (Affleck), che però non è della stessa pasta dei suoi colleghi. Diversamente da loro, Doug avrebbeavuto la possibilità di riuscire nella vita, anziché seguire le orme criminali del padre. Invece, è diventato il capo di una banda di spietati rapinatori di banche che vanno fieri di arraffare tutto quel che vogliono e farla sempre franca. Per Doug è quella l’unica famiglia ed è legato soprattutto a Jem (il Renner di “The Hurt Locker”), che considera quasi un fratello, nonostante il temperamento avventato e il grilletto facile. Le cose cambiano durante l’ultima rapina: Jem prende brevemente in ostaggio Claire Keesey (Reb ecca Hall, lanciata da Woody Allen), la direttrice della banca e, sapendo di cosa è capace l’amico, Doug decide di intervenire. Va a cercare Claire, la quale non può immaginare che il loro incontro non sia casuale e che l’affascinante sconosciuto sia uno dei ladri che pochi giorni prima l’avevano terrorizzata a morte. Tra i due nasce un’intensa storia d’amore che spinge Doug a voler cambiare vita e città. Ma con gli agenti dell’Fbi (il principale è l’attore John Hamm del televisivo “Mad Men”) alle calcagna e i dubbi di Jem sulla sua lealtà, Doug si rende conto che non sarà un’impresa facile, e che la sua amata rischia di finire nel centro del mirino. La dura scelta è tradire gli amici o perdere la donna che ama.
“Senz’altro il gangsterfilm anni Trenta è stato parte della mia ispirazione – confessa Affleck -, ma ci sono tanti film a cui devo qualcosa. Abbiamo lavorato tanto con Jeremy Renner e mi sembra che lui assomigli a James Cagney, no? Anche l'aspetto sociale è stato importante perché credo che se non si ha un forte senso del luogo non si possa credere al film. Dopo è arrivato anche ‘Gomorra’, che ho trovato davvero straordinario, che mi ha influenzato non poco. Ricordo che quando l'ho visto ho avuto l’impressione che fosse tutto vero e ho apprezzato il suo realismo”.
Nel documentario firmato da Sarno, ormai regista ufficiale del Festival, ben ottantotto ricordi e “confidenze” sulla prima volta alla Mostra del Cinema: “A Venezia con gli Italian B Movies per me fu come stare in paradiso!”. Questa la confessione di Tarantino. Il film testimonia anche l’entusiasmo di Martin Scorsese, al Lido per la prima volta negli anni ‘70, e l’esperienza di Robert De Niro, a Venezia come regista con “A Bronx Tale”, cui si aggiungono le confidenze di uno sconosciuto (all’epoca) Hugh Grant in cerca di interviste, l’entusiasmo di Al Pacino, stregato dalla città lagunare durante le riprese del suo “Il mercante di Venezia”, di Charlize Theron, incredula per l’amore che il pubblico dimostra per il Cinema o lo stupore di Penelope Cruz al Lido per “Prosciutto. Prosciutto”.
Il film Bellocchio – già liquidato come “filmetto familiare” - è costituito da sei episodi di una stessa storia, girati a Bobbio in sei anni diversi tra 1999 e il 2008 (con i corsisti di “Fare Cinema”) e raccontano di Elena, nella sua crescita dai 5 ai 13 anni, di sua madre Sara, sorella di Giorgio, dei loro difficili rapporti. Elena vive con le zie a Bobbio, perché la madre, attrice, è sempre in giro e ritorna quando può, così come ritorna anche il fratello per ragioni diverse. Un giorno Sara decide che Elena vada a vivere con lei a Milano, lasci così il paese e si separi dalle zie, forse definitivamente. Sara invece ritornerà con Elena, nel quarto episodio, per la vendita della casa e ritroverà Giorgio sempre più inquieto riguardo a ciò che vuole fare. Il quinto episodio racconta di uno scrutinio in un liceo immaginario del paese: una delle professoresse è inquilina nella casa delle zie. Il suo dramma è legato alla decisione di bocciare uno studente per presunta “distrazione”. Poi lo promuove. Nel sesto episodio ritroviamo Giorgio che, minacciato per debiti, si rifugia a Bobbio; sarà la sorella a venirgli in soccorso. L’episodio finale è una rappresentazione sul Trebbia. Ne è interprete Gianni, l’amico di famiglia.
Il premiato regista dell’opera prima “Ballo a tre passi” (e poi di “Sonetàula”), Mereu, torna al Lido con una sorta di diario lungo un anno scolastico. Nelle scuole medie di via Schiavazzi e di via Meilogu, alla periferia di Cagliari, l’amore vale più della grammatica. Brendon ama Munira ma lei ha troppa paura che suo padre lo scopra. Anche Noemi vorrebbe Nicola. Per farsi accettare deve però nascondere il suo corpo ingombrante. E se Andrea e Michelle litigano ogni giorno per Antonio, Alberto e Jonathan devono dividersi per sempre quando nelle loro vita arriva Vanessa. Per Kadim non c’è tempo per tutto questo: deve trovare un lavoro per continuare a vivere in città e proseguire la scuola.
Quindi, secondo l’autore, è “una piccola cronistoria (filmata ndr.) di un anno di vita passato con loro ed è andato compilandosi come un diario segreto registrando le loro aspettative, i loro desideri, nello stesso modo fugace e libero con cui coi pennarelli dichiarano i loro amori ai muri della scuola e ai pali della luce”.
Il film portoghese di João Nicolau, passato in Orizzonti, narra una vicenda ambientata nel XV: Manuel dice addio alla sua routine e si imbarca su un vascello ancora sottoposto ai codici della pirateria. Un tradimento a bordo della nave innesca una serie di vicende terribili che il nostro protagonista supera mantenendo intatti i suoi principi morali.
Da parte sua “Nove muse” prende spunto narrativo dall’inizio dell’Odissea: “A vent’anni dalla partenza per la guerra di Troia, Ulisse non ha ancora fatto ritorno a Itaca. Il figlio Telemaco decide quindi di mettersi alla ricerca del padre…” Una storia che parla di destino, caso e redenzione, sfuggendo a qualunque classificazione di genere. Strutturato come una favola allegorica e vagamente ispirato alla fantascienza esistenziale, “The Nine Muses” racconta in modo insolito la storia dell’immigrazione di massa in Gran Bretagna nel dopoguerra, leggendola attraverso la lente del poema omerico. Suddiviso in nove capitoli musicali, nei quali le scene girate tra Usa e GB si fondono con un’ampia selezione di materiale d’archivio.
Un’altra sorpresa tutta italiana è stata “Et in Terra Pax” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, nella sezione Giornate degli autori. Sorta di noir vero e quotidiano ambientato nel quartiere Corviale di Roma, fra emarginazione e disagio. Gli autori riescono a fotografare (in digitale) una realtà non facile da raccontare senza cadere nella retorica né nel didascalismo sociologico ma con raro rigore, fra Pasolini e film di genere.
Pellicola greca anche nella Settimana della Critica: “Hora Proelefsis” (Terra madre) di Syllas Tzoumerkas. Storia di una nazione e di una famiglia in caduta libera. Tre generazioni (quella degli anni ‘50, quella protagonista del ripristino della democrazia in Grecia negli anni ‘70 e quella attuale) si scontrano in maniera definitiva in seguito a un’adozione avvenuta vent’anni prima.
Eccezionale ‘battesimo’ a sorpresa per i due protagonisti del Premio Biraghi. A festeggiare Nicole Grimaudo e Michele Riondino si è presentato un ‘giovane’ decisamente speciale come Manoel de Oliveira. L’ultracentenario regista portoghese, alla Mostra per il suo corto nella sezione Orizzonti, ha augurato lunga vita anche professionale e un “Buona fortuna” inatteso ai due giovani attori, che il Sngci ha scelto quest’anno per siglare il decennale del premio, tradizionalmente riservato ai nuovi talenti della stagione.
“E’ stato un magnifico regalo per Nicole Grimaudo e Michele Riondino, che il Sngci segue con attenzione non solo da un anno - ha commentato il presidente dei giornalisti cinematografici Laura Delli Colli -. E per il Premio Biraghi, il miglior augurio di longevità da parte di un ‘eterno giovane’ protagonista del cinema mondiale”.
Per il Sngci il Biraghi ha inaugurato tre giorni intensi di iniziative al Lido. Infatti, è arrivata alla Mostra Tilda Swinton per ricevere domani 9 settembre, prima del red carpet del film di Saverio Costanzo, il Nastro d’Argento Europeo, consegnato eccezionalmente insieme al Nastro d’Argento a Quentin Tarantino per il miglior film extraeuropeo. Altri due premi Oscar, Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, sbarcano a Venezia per il Premio Bianchi che riceveranno insieme in Sala Grande venerdì 10 settembre, alla vigilia della fine della Mostra.
José de Arcangelo

martedì 7 settembre 2010

Al Festival di Venezia 67, il Risorgimento visto da tre giovani meridionali nel film di Mario Martone in "Noi credevamo". E Gallo e de la Iglesia

Terzo film italiano in concorso, “Noi credevamo” di Mario Martone, un colossale affresco (quasi tre ore e mezza) sulla “nascita” dell’Italia, vista lucidamente (e pessimisticamente) attraverso le vicende di tre ragazzi meridionali, spinti dalla ribellione e dall’entusiasmo, e nato da una riflessione storica dell’autore dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Già ribattezzato da alcuni come “La meglio gioventù” dell’Ottocento, che ricorda, secondo altri, “Nell’anno del Signore” di Magni, il film – partendo dal romanzo di Anna Banti - analizza il Risorgimento con l’intenzione di rivelare le cause di un’unità rimasta ancora in gran parte sulla carta.
A proposito di riferimenti, Martone confessa “Abbiamo tenuto presente tutti i film realizzati sul Risorgimento da ‘Il Gattopardo’ e ‘Senso’ ai film dei fratelli Taviani, ma poi abbiamo preso la nostra strada. Però la mia grande fonte sia per l’approccio alla storia sia per l’utilizzo della Storia è stata Roberto Rossellini”.
Tre ragazzi del Sud Italia, dopo la feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi, che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l’Unità d’Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore verranno segnate dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci e disillusioni. Sullo sfondo, la storia dei conflitti implacabili tra i “padri della Patria”, dell’insanabile frattura tra Nord e Sud, delle radici contorte su cui si è sviluppata l’Italia in cui viviamo.
“Raccontare il Risorgimento nella sua interezza – conclude il regista - sarebbe stato impossibile e abbiamo dovuto fare delle scelte. Il processo unitario è stato complesso e noi (con il co-sceneggiatore Giancarlo De Cataldo ndr.) abbiamo individuato quattro momenti, che corrispondono ai quattro episodi, che potessero essere indicativi delle zone oscure della Storia. Il pubblico è invitato a porre questi episodi accanto a quelli che già conosce, come la spedizione dei Mille, da noi solo accennata. Infine, abbiamo scelto dei punti precisi per non essere approssimativi o frettolosi, ma per sviscerarli. Io mi aspetto che arrivi la risposta sabaudo-cavouriana a questo nostro film!”
Grande cast: Luigi Lo Cascio (Domenico), Valerio Binasco (Angelo), Francesca Inaudi (Cristina giovane), Guido Caprino (Felice Orsini), Renato Carpentieri (Carlo Poerio), Ivan Franek (Simon Bernard), Andrea Bosca (Angelo giovane), Edoardo Natoli (Domenico giovane), Luigi Pisani (Salvatore), Michele Riondino (Saverio), Franco Ravera (Gomez), Andrea Renzi (Castromediano), Edoardo Winspeare (Nisco), Anna Bonaiuto (Cristina), Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Fiona Shaw (Emilie), Romuald Andrzej Klos (Worcel), Pino Calabrese (maresciallo Del Carretto), Roberto De Francesco (Ludovico), Luca Barbareschi (Antonio Gallenga), Alfonso Santagata (Saverio o’ trappetaro) e tanti altri.
Ma il settimo giorno della 67a. Mostra ha riservato altri due film in gara: “Promises Written in Water” dell’italo-americano Vincent Gallo e “Balada triste de trompeta” dello spagnolo Alex de la Iglesia. “Surviving Life” di Jan Svankmajer fuori concorso. “Into paradiso” di Paola Rndi in Controcampo Italiano.
Il film di Gallo (oltre regista e protagonista anche produttore, autore delle musiche e del montaggio) racconta della morte di una ragazza, malata terminale che desidera essere cremata dal compagno, in un viaggio a ritroso che rievoca il loro percorso amoroso. Un’opera autoriale in bianco e nero, sperimentale e alternativa, in bilico fra i vecchi cari Godard e Warhol. Accolta tiepidamente da chi l’avrebbe voluta in un’altra asezione, ma non in concorso, per qualcuno è invece “la tipica pellicola da festival”.
Definito caotico, anarchico e confuso da alcuni, originale e travolgente da altri, “Balada triste de trompeta” (titolo preso in prestito da una celebre canzone anni ’60) dello spagnolo Eloy de la Iglesia è un invece coerente col cinema del suo autore. Sempre in bilico fra diversi generi – dalla commedia all’horror, dal musical al dramma – e (volutamente) sopra le righe.
1937. Le scimmie del circo urlano selvaggiamente nella loro gabbia mentre, fuori, gli uomini uccidono e muoiono in un altro circo: la guerra civile spagnola. Il Pagliaccio Triste, arruolato contro il suo volere dalla Milizia, finisce per commettere con un machete un massacro di soldati nazionalisti mentre ha ancora indosso il suo costume. E così inizia questa movimentata avventura in cui Javier e Sergio, due pagliacci orrendamente sfigurati, combattono all’ultimo sangue per l’amore ambiguo di un’acrobata durante il regime di Franco.
Come si potrebbe pensare non è (solo) un film sulla Spagna franchista ma piuttosto sul ‘baraccone’ chiamato spettacolo, fra vizi e virtù. Da amare o da odiare senza mezzi termini.
Dagli eccessi del regista spagnolo alla leggerezza della commedia multietnica di Paola Randi, già attivissima video-maker, che ci propone una Napoli insolita e misconosciuta. Alfonso è uno scienziato napoletano, timido e impacciato, che ha appena perso il lavoro. Gayan è un affascinante ex campione di cricket srilankese che non ha più un soldo, è appena arrivato a Napoli ed è convinto di trovare il Paradiso. Alfonso ha passato tutta la vita a studiare la migrazione delle cellule e a guardare telenovelas con la madre. Gayan ha viaggiato, ha conosciuto fama, gloria e denaro. Che cosa c’entrano questi due uomini l’uno con l’altro?
Alfonso e Gayan si ritrovano a condividere giocoforza una catapecchia eretta abusivamente sul tetto di un palazzo nel cuore del quartiere srilankese della città, soprannominata appunto Paradiso. Alfonso è costretto, per un tragicomico equivoco, a nascondersi da una banda di malavitosi e Gayan diviene dapprima ostaggio e poi suo unico alleato. Da questa paradossale convivenza nasce tra i due una speciale amicizia, un sodalizio che darà loro il coraggio di affrontare il proprio destino.
Il film ceco, fuori concorso, è il ritratto di Eugene, un uomo sulla via della vecchiaia, che vive una doppia vita, reale e immaginaria. Dopo la visita da uno psicanalista, che prova a interpretare il significato dei suoi sogni, Eugene trova un modo di entrare a piacimento nel mondo dei suoi sogni e scopre finalmente la verità sulla sua infanzia e su ciò che realmente accadde ai suoi genitori. Quando infine sua moglie lo costringe a decidere tra realtà e sogno, Eugene sceglie il sogno.
Dedicato al regista Sergio Corbucci a 20 anni dalla sua scomparsa - un maestro del western all’italiana, ma protagonista eclettico in tutti i generi, dal melodramma al comico, dal musicale al mitologico, dal giallo all’avventuroso – è il Panel internazionale, moderato da Peter Cowie, che si è svolto al Lido oggi alle ore 15.30 in Sala Conferenze Stampa, organizzato dalla Mostra. Nell’ambito del convegno, lunedì 6 e martedì 7 settembre sono stati proiettati “Minnesota Clay” (1965) e “I crudeli” (1967), due fra i più singolari e sorprendenti western diretti da Corbucci, fra i più amati da Quentin Tarantino, che per l’occasione ha dichiarato: “Sergio Corbucci non è semplicemente uno dei più grandi registi dello spaghetti-western, ma anche uno dei più grandi registi del periodo western e non vedo l’ora di rendergli il dovuto omaggio a Venezia quest’anno”.
Per la Settimana della Critica, è stato presentato ieri l’intenso dramma “Beyond”, opera prima dell’attrice Pernilla August, scoperta da Ingmar Bergman in “Fanny & Alexander” (era la governante) e da Hollywood in “Star Wars – Episodio I”.
Storia di una famiglia felice in una mattina di festa. All’improvviso la giovane madre, Leena (la Noomi Rapace di “Uomini che odiano le donne”), riceve una telefonata che la informa che sua madre è ricoverata in gravissime condizioni. Contro la sua volontà, il marito decide di portarla, insieme alle due figliolette, a trovare la donna. Per Leena è anche l’inizio di un doloroso viaggio interiore che la costringe a rievocare un passato cancellato con una forza di volontà impressionante. I genitori, due emigrati finlandesi che non si sono mai veramente sentiti a casa propria in Svezia, vivevano tra abuso di alcol e litigi violenti una passione devastante e cieca, mentre Leena e il fratellino cercavano di sopravvivere come potevano. Lei vincendo gare di nuoto e annotando in un quadernetto i significati delle parole della nuova lingua, diversa da quella materna, lui chiudendosi in un suo mondo fino all’implosione. Per Leena, che ha scelto di perseguire la normalità a tutti i costi, mentendo a se stessa e agli altri, questa si rivela l’ultima occasione di affrontare quel mondo oscuro da cui proviene e che le appartiene.
Oggi, invece, è toccato allo slovacco “Oca” (Papà), un dramma in bilico fra dura realtà ed onirici pensieri. Un padre e un figlio trascorrono un’intera giornata nel bosco. Pescano, dialogano, verificano lo stato del loro rapporto. L’adulto avverte nelle risposte del bambino un’autonomia di pensiero e una lucidità di analisi che lo sorprende e lo rattrista. Il bambino ha reagito alla separazione dei genitori legandosi molto alla madre, ma covando dentro di sé il dolore legato all’assenza paterna. Le lacrime riusciranno forse a stemperare i ricordi inclementi e a suggellare questo momento d’incontro e il tentativo implicito di recuperare le distanze, le incomprensioni e il tempo perduto. E in parte a colmare il peso dei silenzi prolungati, che preoccupano il padre operaio non meno di tanti altri suoi colleghi ai quali la crisi economica e le precarie condizioni lavorative concorrono a rendere difficile la costruzione di un futuro per i propri figli.
Il direttore della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia Marco Müller e il Vice President Entertainment di Fox Channels Italy Fabrizio Salini hanno annunciato la partnership editoriale tra la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia e Cult (Sky, canale 319) che inaugurerà il ciclo “Cult a Venezia”: un appuntamento televisivo presentato dallo stesso Müller che porterà su Cult alcuni titoli che hanno partecipato al Festival, ma che il pubblico non ha mai potuto ammirare in sala né in home video, perché non distribuiti in Italia.
Il ciclo offrirà dunque a chi ama il cinema un’irripetibile occasione di approfondimento sulla selezione della Mostra e sull'eccellenza artistica della produzione cinematografica internazionale Cult a Venezia sarà in onda su Cult dal prossimo inverno. Ogni film verrà proposto in versione originale con sottotitoli italiani, come nelle proiezioni festivaliere. Questi i 5 titoli del primo appuntamento con Cult a Venezia: “Vegas” di Amir Naderi; “Plastic City” di Yu Lik Way; “White Material” di Claire Denis; “Vynian” di Fabrice Du Welz e “Sukiaky Western Django” di Takashi Miike, tutti presentati nell’edizione 2008.
José de Arcangelo

lunedì 6 settembre 2010

A Venezia 67, in primo piano la strage di Nassirya con "20 sigarette" di Amadei

Evento della quinta giornata del 67°. Festival di Venezia è stato - proposto dalla sezione Controcampo Italiano - l’autobiografico “20 sigarette” di Aureliano Amadei, un dramma che senza retorica né schieramenti di sorta rievoca la strage di Nassirya dal punto di vista dell’unico sopravvissuto, il regista stesso. Toccante e commovente al punto giusto, il film racconta nient’altro che la verità sull’accaduto. Ma si sa anche la verità ‘non è uguale per tutti’.
Novembre 2003: Aureliano (il bravo Vinicio Marchioni del “Romanzo criminale” televisivo), giovane anarchico e antimilitarista, quindi pacifista, precario nel lavoro e nei sentimenti, riceve l’offerta di partire subito per lavorare come aiuto regista (di Stefano Rolla, morto nell’attentato) in un film da girare in Iraq, al seguito della missione di pace dei militari italiani. Nonostante le critiche degli amici, dell’amica del cuore, Claudia (Carolina Crescentini), e la preoccupazione dei suoi familiari, soprattutto della madre con cui convive, Aureliano parte. Si ritrova così al centro di un mondo, quello militare, che non approva e su cui ha molti pregiudizi, scoprendo però in coloro che incontra un’umanità e un senso di fratellanza che gli appartengono. Al seguito di Rolla, il regista che lo ha coinvolto con la sua passione e il suo entusiasmo per il lavoro e per la vita, Aureliano non fa in tempo a finire un pacchetto di sigarette (ecco le 20 sigarette del titolo) che si ritrova nel mezzo dell’attentato alla caserma di Nassirya del 12 novembre 2003. Unico civile sopravvissuto di una strage che ha ucciso 19 italiani e un numero imprecisato di civili iracheni, il giovane, pur gravemente ferito, riesce a mettersi in salvo. Testimone e vittima dell’avvenimento, passa dall’ospedale americano di Nassirya a quello del Celio di Roma, in una lunga degenza in cui si ritrova assediato da politici, militari e giornalisti perché nel frattempo è diventato suo malgrado un eroe per caso. Assistito da Claudia, Aureliano si trasforma da ‘ragazzo’ in ‘uomo’.
E, dopo aver raccontato la vicenda in un libro, Amadei ha deciso di farne un film, debuttando nella regia. Come dicevamo, con un dramma coinvolgente - da mercoledì 8 nelle sale - in cui non mancano spettacolarità e riflessione, e la scena dell’attentato - ricostruita come soggettiva del protagonista - offre una visione inedita e sconvolgente del tragico episodio. Accolta da una standing ovation di quasi quindici minuti, l’opera prima ora attende il giudizio del pubblico.
Nel concorso sono stati presentati “Meek's Cutoff” di Kelly Reichardt, “Detective Dee” di Tsui Hark, e “Post Mortem” del cileno Pablo Larraín. “1960” di Gabriele Salvatores e “Niente paura” di Piergiorgio Gay, sono passati fuori concorso. “Caracremada” (Faccia cremata) dello spagnolo Lluís Galter, “21 ke” (21 grammi) di Xun Sun ed “El Sicario Room 164” di Gianfranco Rosi nella sezione Orizzonti.
“Meek’s Cutoff” è sì un dramma western, ma il primo diretto da una donna, regista indipendente al suo quarto film, e, dunque, visto dal punto di vista femminile in tutta la sua umanità e crudezza, tra il metaforico e il metafisico. Niente sparatoria né azione, ma indagine psicologica e riflessione. Una storia vera che diventa una visione assolutamente opposta ai classici miti fondanti degli Stati Uniti. 1845: il duro viaggio dei pionieri lungo l'Oregon Trail, pista battuta dagli emigranti che colonizzarono l'Ovest (e fecero l’America) in cerca di terre e di fortuna. Un viaggio che rievocando quelli del passato porta in primo piano il dramma degli immigrati di oggi.
Il cinese Tsui Hark ci riporta, invece, nell’anno 690 d.C., al tempo della dinastia Tang, nella città capitale Luoyang. Vi si sta costruendo un monumentale stupa buddista. Quando sarà completato, la prima donna Imperatrice della Cina, Wu Zetian, salirà formalmente sul trono del Paese più grande e potente del mondo. Ma una serie di misteriose sciagure minaccia l’ascesa al potere della donna: diversi uomini sono morti per autocombustione in pubblico. Decisa a risolvere il caso prima di salire sul trono, Wu si rivolge a un improbabile candidato, Di Renjie (il Dee del titolo internazionale), fatto imprigionare otto anni prima dopo che lui l’aveva criticata per aver preso il potere alla morte dell’Imperatore: lo nomina Giudice Supremo dell’Impero, affiancandogli nell’indagine il violento e ambizioso magistrato Bei Donglai...
Esempio dell’ormai genere xuxiapian (mix tipicamente cinese di storia, fantasy e arti marziali), il regista lo rinnova trasformando la sua storia in un sorta di thriller moderno in bilico fra avventura e commedia. Uno spettacolo dai colori fiammeggianti, magari con un eccessivo uso del digitale e qualche ‘difettuccio’ e/o compromesso, ma che comunque offre azione e fantasia per tutti.
Il dramma del cileno Larraìn rievoca i tragici anni della dittatura di Pinochet attraverso una vicenda privata, il ritratto di un uomo fra solitudine e disagio, fra amore e morte. Mario, 55 anni, lavora in un obitorio battendo a macchina i referti delle autopsie. Nel 1973, nel pieno del golpe militare, fantastica sulla sua vicina Nancy, ballerina di cabaret, che scompare misteriosamente proprio quell’11 settembre. Dopo una violenta irruzione dell’esercito in casa della famiglia della donna, Mario apprende dell’arresto del fratello e del padre di lei, esponente di spicco del Partito Comunista e sostenitore di Salvador Allende. Turbato e spinto dalla perdita dell’amante mancata, l’uomo si mette freneticamente alla sua ricerca. Il governo Allende è stato rovesciato e la gente muore per le strade, l’esercito sequestra l’obitorio e i cadaveri si accumulano però Mario non riesce a distogliere la mente da Nancy. E continua a fare il proprio lavoro, finché una notte...
Un dramma straziante, anzi un incubo angosciante, costruito magistralmente fra pubblico e privato, fra solitudine e isolamento, sorta di autopsia, appunto, di un paese visto da un testimone tanto anonimo – quasi un morto vivente, anzi un fantasma – quanto indifferente.
Il lavoro di Salvatores non è il tradizionale documentario costruito con materiale di repertorio (delle Teche Rai), ma un documento che diventa un film a tutti gli effetti perché fatti e personaggi diventano il centro della Storia (italiana). Ecco il racconto: estate 1959. Gente felice al mare. La voce di un adulto (quella di Giuseppe Cederna) rievoca quei giorni. Il ricordo di quella estate è ancora vivo nella sua memoria: è stata l’ultima che ha trascorso insieme al fratello Rosario prima che quest’ultimo partisse per il nord. Da questo momento a tenere uniti i due fratelli sono le lettere che Rosario manda da Milano. Racconta della sua nuova vita, della libertà che ha conquistato, degli amici con cui trascorre il suo tempo, scrive di un mondo magico, fatato dove ognuno ottiene ciò che desidera. Ma sono quelle stesse lettere a mettere in allarme la famiglia: Rosario da quando è nel capolugo lombardo si è trasformato in un ribelle, ha perfino dimenticato la promessa di matrimonio fatta a Rosalba, una ragazza del suo paese che lo ama. I genitori capiscono che bisogna fare qualcosa e allora decidono di partire per riportare il figlio a casa. Inizia così un lungo viaggio alla ricerca di Rosario che porterà questa famiglia ad attraversare tutta l’Italia ed a scoprire un paese che, trascinato dal boom economico, sta cambiando sotto i loro occhi. Presto quel viaggio si trasforma in una specie di sogno scandito dalle contraddizioni di Napoli, dalla Roma delle Olimpiadi e dalla Dolce Vita, dal mito della straniera e dalla riviera romagnola. Ma la mèta finale resta Milano dove scopriranno la verità su Rosario.
"Allora eravamo alla ricerca dell'identità – afferma il regista -, e lo siamo ancora. Non ci mancano creatività e bellezza: ci manca la coscienza nazionale. Allora la Fiat produceva un'auto al minuto: ora chiudiamo gli stabilimenti: la bolla si è sgonfiata, bisogna stare attenti ai sogni sbagliati. La memoria è un muscolo che va esercitato, mentre in questi anni tendono a farcelo atrofizzare. Ma non ho mai cercato l'effetto nostalgia". Infatti, il suo documentario sembra la scoperta di una realtà rimossa, di un passato dimenticato (mitizzato) troppo in fretta. Lo rivedremo prossimamente su Raitre in prima serata e poi sarà anche in edicola. E la Rai ha annunciato che intende produrre uno per ogni anno. Staseremo a vedere.
Da parte sua il regista Piergiorgio Gay ha deciso di raccontare un musicista italiano e il suo pubblico per ripercorrere gli ultimi trent’anni del nostro Paese. Ma possono le canzoni raccontare la società? E può il percorso artistico di un musicista - nel nostro caso Luciano Ligabue - raccontare come eravamo e come siamo adesso? Vedendo il film sembra proprio di sì. Anche perché la musica popolare parla di noi, e spesso ci ritrae meglio di tanti saggi o studi sociologici. Parte da un’emozione, dal ritmo, in maniera viscerale. Una canzone può semplicemente rimanere legata a un momento particolare della nostra vita, darci felicità, amarezza o nostalgia nel ricordo. Addirittura “celebrare” un evento cruciale, diventare “rito”, nel senso più laico e bello del termine. Canzoni ed emozioni. Canzoni nello scorrere della vita personale ma anche sociale e politica. Canzoni e memoria. Memoria personale e memoria collettiva, nel duplice senso di memoria di un Paese e memoria di tante persone insieme. Perché Ligabue? “Perché è un musicista italiano popolare; perché nei suoi concerti quando canta ‘Non è tempo per noi’, vengono proiettati sul maxischermo gli articoli della Costituzione italiana; perché quando canta ‘Buonanotte all’Italia’ scorrono alle sue spalle i visi delle persone che hanno fatto qualcosa per questo Paese; perché quando finisce i concerti si rivolge al pubblico dicendo: ‘Vorrei augurare la buona notte / a tutti quelli che vivono in questo Paese / ma che non si sentono in affitto, / perché questo Paese è di chi lo abita / e non di chi lo governa’.”
Ritorno al passato anche dallo spagnolo Galter, perché “Caracremada” è il soprannome attribuito dalla Guardia Civil a Ramon Vila Capdevila, e la pellicola è un tentativo di riflettere sulla resistenza libertaria al regime franchista attraverso gli occhi dell’ultimo guerrigliero rimasto attivo. Nel 1951 la CNT ordinò ai suoi militanti (rifugiati in Francia) di ritirarsi, ma Ramon Vila restò nei boschi dell’entroterra catalano, dove riprese la lotta agendo per conto proprio. Un dramma per non dimenticare gli anni duri e bui della dittatura franchista, durata quasi quarant’anni.
Il cinese Xun Sun usa l’animazione ma non quella tradizionale per raccontarci (senza parole e in mezz’ora) che “questo mondo non ha un tempo specifico; viviamo nella vanità. È un mondo sconcertante. Non ci sono leggi né regole, e la menzogna domina su tutto. Vi sono solo persone che mentono e persone a cui si mente. Le bugie sono ovunque condannate dalla morale, ma il prestigiatore è l’unica eccezione. Chi si sente perduto subito dà in pegno la propria anima e ripone le sue speranze in noi. Sì: i prestigiatori sono l’autorità! La menzogna è verità! Ed è a buon mercato!”
El Sicario - Room 164 è, invece, un documentario di 80 minuti sulla vita di un killer, tratto dal saggio “The Sicario” di Charles Bowden, pubblicato nel 2009 su Harper’s Magazine. Il protagonista ha ucciso centinaia di persone, è esperto in torture e rapimenti, ha lavorato per molti anni come comandante della polizia statale del Chihuahua ed è stato perfino addestrato dall’FBI. Residente a Ciudad Juárez, si muoveva liberamente tra Messico e Stati Uniti. Mai accusato di alcun crimine, attualmente vive libero, ma da fuggitivo poiché sulla sua testa pende una taglia di 250.000 dollari. Il film è stato girato proprio nella stanza di un motel al confine tra i due grandi paesi. E il fatto più sorprendente è che il sicario dimostra profonda intelligenza, grande dialettica e assoluta credibilità.
José de Arcangelo

Al Lido il "Vallanzasca" di Placido e Rossi Stuart scatena le (solite) polemiche

Al centro del sesto giorno alla 67a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è stato l’atteso “Vallanzasca - Gli angeli del male” firmato Michele Placido (fuori gara) e ispirato all’autobiografia “L’ultima fuga” (scritto con Leonardo Coen), che ha scatenato le ormai solite polemiche. Tra gli altri film in programma oggi: “Essential Killing” di Jerzy Skolimowski e il film sorpresa “The Ditch” del cinese Wang Bing in concorso, mentre fuori concorso c’erano anche “I'm Still Here” di Casey Affleck e l’indiano “Raavanan” di Mani Ratnam, che ha ricevuto il premio Jaeger-leCoultre. “Ma che storia” di Gianfranco Pannone in Controcampo Italiano, “Reconstructing Faith” di Wen Hai e “Verano de Goliat” (Estate da Golia) di Nicolás Pereda in Orizzonti.
Accusato di apologia dai più (anche dai parenti delle vittime) e da genitori timorosi che i giovani possano imitarne le prodezze criminali, la pellicola di Placido è il solito e spettacolare dramma d’azione come ne sforna Hollywood fin dai tempi di Al Capone, o come ha fatto la Francia qualche tempo fa con “Nemico pubblico”, un biopic addirittura in due parti sul criminale più famoso d’oltralpe. Dopo le accuse rivolte alla tivù della violenza (e non) si ritorna a colpevolizzare il cinema – come periodicamente accadde fino agli anni ’60 - dei mali del mondo. Argomento vecchio quanto il cinema, quindi, ovvero che va e viene da oltre un secolo. Le critiche al film possono (e devono) essere altre, anche perché Placido poi ‘spara’ a destra e a manca.
La vita, i crimini, gli arresti e le fughe dal carcere di Renato Vallanzasca (interpretato da Kim Rossi Stuart, anche sceneggiatore) e della sua banda in un racconto cinematografico che è anche un capitolo della nostra storia più recente. Milano, anni ‘70. Il mondo della mala è dominato dal potere incontrastato di Francis Turatello, detto “Faccia d’angelo”, quando la banda Vallanzasca irrompe sulla scena. Iniziato fin da giovane alla carriera criminale ora guida un gruppo di amici di infanzia, tossici e delinquentelli, che dalle rapine passa facilmente all’omicidio. Il denaro scorre e la banda si dà alla bella vita. Renato nel frattempo ha incontrato Consuelo, bellissima e disinvolta ragazza meridionale che si trova con lui nel momento del primo arresto e gli resterà accanto fino all’evasione da San Vittore, 4 anni e mezzo dopo. Ma la latitanza si conclude con l’uccisione di due poliziotti presso il casello di Dalmine: il boss viene arrestato poco dopo. Il periodo di detenzione a Rebibbia gli offre l’occasione di un chiarimento col rivale Turatello. Gli anni successivi vengono scanditi dai passaggi da un carcere all’altro, da processi e rocambolesche fughe. Dopo l’ennesima evasione rivede Antonella, amica d’infanzia, che gli era stata accanto per tutta una vita. Ma ancora una volta la latitanza di Vallanzasca si conclude in una sera d’estate.
“Abbiamo raccontato la storia di un uomo nel bene e nel male – dichiara Rossi Stuart -, ma non c’è nessuna apologia, anzi. Si può dire tutto di lui, ma non che sia un furbo e questa è la cosa che mi è piaciuta. Ci sono tanti altri motivi per condannarlo, per metterlo sulla graticola mostrandone i lati negativi. E capisco perfettamente il punto di vista dei parenti delle vittime”.
“In questo periodo si dice un po’ ovunque che Vallanzasca è il pericolo numero uno in Italia dal dopoguerra a oggi – ribatte alimentando le polemiche Placido. Vallanzasca è un criminale, è ancora in prigione quindi sta pagando mentre in Parlamento si trovano persone che hanno fatto peggio di lui e sono a piede libero. Io sono stato prima in un collegio di preti e poi sono stato un poliziotto quindi conosco i vari lati dell'Italia. Kim mi ha dato forza e coraggio per realizzare il film perché voleva farlo come attore e io lo capisco bene. Negli anni '70 Vallanzasca è stato un mito costruito anche dalla stampa, comunque aveva una leggerezza, una bellezza dietro la quale si nascondeva il criminale. Non tutti i criminali rispondono al modello lombrosiano e qui sta il mistero di Vallanzasca”.
Dalla Milano anni ’70 all’Afghanistan oggi con il redivivo maestro polacco Jerzy Skolimowsky, che firma uno scioccante dramma esistenziale, ritratto (minimalista) di un uomo braccato come una belva che lo diventa per istinto di sopravvivenza. Redivivo anche il sempre bravo e intenso protagonista Vincent Gallo, a Venezia anche con il suo nuovo film da regista.
Catturato dai soldati americani in Afghanistan, Mohammed viene trasferito in un centro di reclusione segreto in Europa. Quando il mezzo su cui viaggiano rimane coinvolto in un incidente, il prigioniero si ritrova inaspettatamente in libertà e fugge nella foresta innevata, così lontana dal deserto a lui familiare. Braccato senza sosta da un esercito che ufficialmente non esiste, Mohammed è costretto a uccidere per sopravvivere, proprio come una bestia.
Dramma politico, il film a sorpresa cinese, perché narra un’atroce storia di dissidenti nella Repubblica Popolare Cinese alla fine degli anni ’50. Trionfo del contenuto sulla forma (narrazione un po’ piatta) nel dramma (freddo) di un regista che viene dal documentario. Il governo condanna ai campi di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati “dissidenti di destra” a causa delle loro attività passate, di critiche contro il Partito Comunista o semplicemente a causa della loro provenienza sociale e famigliare. Deportati per essere rieducati nel campo di Jiabiangou nella Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi (sorta di Siberia cinese), lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e dai propri cari, circa tremila “intellettuali” di estrazione basso o medio borghese dalla provincia di Gansu furono costretti a sopportare condizioni di assoluta povertà. A causa delle fatiche disumane a cui venivano sottoposti, delle condizioni climatiche estreme e incessanti e delle terribili penurie di cibo, molti morirono ogni notte nei fossi dove dormivano. Il fossato racconta il loro destino: un resoconto coraggioso di un’umanità spinta ai limiti più estremi.
Uno spettacolare mélo è invece la pellicola targata Bollywood, già insignita di un premio collaterale. Amore, morte, avventura, azione, scontro tra il Bene e il Male sono gli ingredienti (soliti) ma ben mixati in oltre due ore di proiezione. Ma chi ama il genere non verrà deluso. La storia: Dev si innamora di Ragini, ballerina esuberante e anticonformista quanto lui. Si sposano e lui si trasferisce per un nuovo incarico a Vikramasingapuram, piccola città dell’India meridionale. Una città dove a dettar legge non è la polizia ma Veera, un membro della comunità tribale che nel corso degli anni ha spostato l’ago della bilancia del potere dalla classe dirigente verso i più poveri. Dev sa che se vuole riportare l’ordine in questo posto deve “catturare il pesce più grosso”, ovvero Veera. In un solo colpo Dev riesce a far breccia nel mondo del boss, scatenando una serie di eventi che costeranno la vita ad alcuni, e la cambieranno per sempre ad altri. Veera, ferito ma furioso, sferra un attacco che porterà Dev, Veera e Ragini nella giungla, quella fitta, che disorienta e spaventa. E in questo viaggio devono confrontarsi con la propria verità. Un viaggio che metterà alla prova i loro valori, le loro convinzioni ed emozioni. Emozioni che disorientano e spaventano quanto la foresta stessa…
Il debutto nella regia dell’attore candidato all’Oscar Casey Affleck, fratello e collega del più noto Ben, “I’m Still Here”, è l’impressionante ritratto di un anno tumultuoso nella vita dell’attore di fama internazionale Joaquin Phoenix. Con uno sguardo privilegiato (Affleck è oltre che amico è cognato di Phoenix), “I’m Still Here” segue l’attore mentre annuncia il ritiro da una carriera di successo nel cinema nell’autunno del 2008 e l’inizio di un processo di re-invenzione di se stesso come musicista hip-hop. A tratti divertente, a tratti scioccante, sempre avvincente, il film è il ritratto di un artista a un bivio. Sfidando le aspettative, esplora con destrezza le nozioni di coraggio e re-invenzione creativa, così come le conseguenze di una vita passata sotto l’occhio del pubblico.
Un viaggio tragicomico nella Storia, è invece il lungometraggio di Pannone, attraverso il lungo e faticoso percorso unitario italiano. Mazzini, Garibaldi, Cavour, Verdi…, nomi che oggi suonano lontani, ma che così lontani non sono. Una grande rivoluzione quella del Risorgimento, salutata come vera e propria epopea nell’Ottocento, ma ridimensionata nel secolo successivo dal “male oscuro” italiano. Potere, intellettuali e popolo, un rapporto difficile, spesso violento e non privo di cinismo, che di fatto ha impedito il formarsi di un sentimento nazionale condiviso. Il racconto di questa epopea a metà, si sviluppa tra cinegiornali e documentari, dell’archivio Luce che attraversano, non senza retorica, la storia nazionale dagli anni dieci agli ottanta.
“Un sentimento critico e amaro, anche ironico, che è nelle parole di scrittori e poeti di estrazione politico-culturale diversa; e, vero e proprio controcanto, suoni ed espressioni del popolo, che cantano gioie e dolori di una storia ricca e violenta. Un Paese incapace di mettersi in discussione, di elaborare i propri lutti, di guardarsi dentro, tutto proteso verso un finto nuovo che ha finito col procurare grandi tragedie partorite da folli illusioni. Un Paese che si potrebbe dire morto, se non fosse che gli appartengono pagine straordinarie di storia e letteratura oltre che una ricchezza antropologica unica”.
E’ un documentario, invece, l’altro film cinese presentato nella sezione Orizzonti “Ricostruendo la fede”. Infatti si tratta della fede buddista e del sogno della sacerdotessa Guo di ricostruire/ristrutturare il tempio. Nella città di Yueyang, un’associazione civica chiamata “I lettori di sutra” raccoglie volontari che vogliano migliorare le loro vite e il loro spirito attraverso la religione. Circa trecento membri offrono volontariamente il loro tempo per dare assistenza e sollievo agli anziani, ai deboli e ai disabili. Il Tempio della Foresta di Bambù Viola è dimora alla sacerdotessa Guo, che ha dedicato più di un decennio alla raccolta di scritture e saria (reliquie) buddiste. La sua speranza è di ristrutturare il Tempio Kunshan locale ed erigervi una stupa (edificio destinato a ospitare le reliquie). La costruzione della stupa è cominciata nel 2006 e si è conclusa nel 2009. Il Tempio è anche centro di attività buddiste. La gente vi si riunisce per leggere e discutere le scritture.
Dalla Cina al Messico per seguire la storia di Teresa, sconvolta dall’improvvisa scomparsa del marito. Scoprire che cosa è successo veramente diventa per lei una missione, ma anziché trovare risposte la sua ricerca si trasforma in un viaggio nelle strade e nelle case delle persone che incontra. Mescolando assieme storia inventata e documentario, i suoi vagabondaggi ritraggono la città e i suoi abitanti. Attraverso una storia fatta di personaggi e del paesaggio fisico del piccolo paese, ci lasciamo trasportare assieme a Teresa fra spazi e individui tormentati dalle conseguenze della perdita di persone care, delle promesse infrante, della separazione e da un’eterna nostalgia
Per la Settimana della Critica è stato presentato lo svedese “Beyond” di Pernilla August con Noomi Rapace, diventata famosa perché interprete della trilogia tratta dai romanzi “Millennium”.
José de Arcangelo

sabato 4 settembre 2010

Al Lido è il giorno delle "Passioni" da Turturro a Mazzacurati, da Scorsese a Ozon, da Fedorchenko alla Colagrande

Quarto giorno alla 67a. Edizione del Festival di Venezia contrassegnata dai film in concorso, dal poetico dramma russo di Fedorchenko a due riuscite commedie, una brillantissima firmata dal francese Ozon e l’altra amara dall’italiano Mazzacurati. Gli altri titoli in programma oggi: “A Woman” di Giada Colagrande, con il compagno Willem Dafoe, in Controcampo Italiano. “A Letter to Elia” di Martin Scorsese e Kent Jones, “The Child’s Eye” di Oxide e Danny Pang, e “Passione” di John Turturro, fuori concorso.
Ecco i tre film in gara per il Leone d'oro: “Ovsyanki” (Silent Souls) del russo Aleksei Fedorchenko, “Potiche” del prolifico François Ozon, e “La passione” di Carlo Mazzacurati.
Le anime silenziose del toccante film russo sono quelle di Miron e Aist, due uomini in un viaggio rituale che diventerà una sorta di ricerca di se stessi. Alla morte dell’adorata moglie Tanya, Miron chiede al suo migliore amico, Aist, di aiutarlo a dirle addio secondo i rituali della cultura Merya, un’antica tribù ugro-finnica del lago Nero, pittoresca regione della Russia centro-occidentale. Nonostante l’etnia sia stata assorbita da quella russa nel XVII secolo, i suoi miti e tradizioni si sono perpetuati nella vita moderna. I due uomini partono per un viaggio che li porterà per migliaia di chilometri attraverso terre sconfinate. Assieme a loro, due piccoli uccelli in gabbia. Lungo la strada, Miron condivide i ricordi più intimi della sua vita coniugale, ma quando raggiungono le rive del lago sacro dove si separeranno definitivamente dal corpo, Miron scopre di non essere stato il solo ad amare Tanya...
Irresistibile Ozon alle prese con una commedia insolita ed esilarante dove a regnare è la diva Catherine Deneuve – quasi 70 anni ma non li dimostra -, assecondata da Gérard Depardieu e Fabrice Luchini. Ma è una sorta di scatenata rivincita delle donne ambientata, non a caso, negli anni Settanta, fra emancipazione e contestazione.
1977, Sainte-Gudule, Francia settentrionale. Robert Pujol, ricco industriale, dirige con pugno di ferro la sua fabbrica di ombrelli, mostrandosi dispotico anche con i figli e con Suzanne, la “moglie-trofeo”, sottomessa e costretta alla vita domestica. Quando gli operai entrano in sciopero e sequestrano Robert, Suzanne lo sostituisce alla guida della fabbrica. A sorpresa, la donna rivela una gran competenza e capacità d’azione. Ma Robert torna dal suo ‘viaggio di riposo’ in forma smagliante e tutto si complica...
Già allenato nel genere grazieal delizioso “8 donne e un mistero”, Ozon offre alla Deneuve l’occasione di tornare protagonista, dopo tanti ‘piccoli’ ruoli e partecipazioni speciali degli ultimi anni. E vince la sua scommessa perché l’attrice scopre una verve comica mai vista prima e i suoi, pur grandi partner, diventano spalle di lusso.
Mazzacurati riflette con umorismo amaro sulla propria professione e sulla realtà italiana, trovando spunto nella (solita?) ‘commedia all’italiana’, anzi in quelle di Mario Monicelli, tanto che i suoi attori mancati e il suo regista frustrato sembrano membri di quelle ‘bande sgangherate di cialtroni’ che hanno reso indimenticabili film come “I soliti ignoti” e “L’armata Brancaleone”. Così come nella scena della (finta) crocifissione è impossibile non pensare al Pasolini di “La ricotta” (episodio di “RoGoPaG”) con il grande Orson Welles.
Passati i cinquant’anni, essere un regista emergente diventa un problema. Ne sa qualcosa Gianni Dubois (Silvio Orlando), che non fa un film da anni, e adesso che avrebbe la possibilità di dirigere una giovane stella della tivù (Cristiana Capotondi) non riesce a farsi venire in mente una storia. In più, una perdita d’acqua nel suo appartamento in Toscana ha rovinato un affresco del Cinquecento nella chiesetta adiacente. Per evitare una denuncia, Gianni deve accettare la bizzarra proposta del sindaco del paese: dirigere la sacra rappresentazione del Venerdì Santo in cambio dell’impunità. Così si ritrova a passare una settimana nella Toscana più profonda nel tentativo di mettere in piedi una specie di Via Crucis, con gli apostoli, Ponzio Pilato, la crocifissione e un pessimo attore-presentatore locale (Corrado Guzzanti) nella parte di Cristo. Ma un ex galeotto (Giuseppe Battiston) incontrato per caso e una barista polacca (Kasia Smutniak)…
La Colagrande, già autrice di “Aprimi il cuore”, ritorna sui tormenti amorosi del cuore e della psiche, in un dramma dallo spunto hitchcockiano (dal “Sospetto” a “Rebecca”). Julie, una donna giovane e ingenua, conosce un uomo misterioso, che si rivela essere Max Oliver, famoso scrittore americano. Disperato per la recente scomparsa della moglie – la bella danzatrice Lucia Giordano, che è il soggetto del suo ultimo romanzo, “A Woman” – Max viene salvato dalla sua depressione da Julie. Se ne innamora e la invita immediatamente ad andare a vivere con lui nella sua casa in Italia. Natalie, la migliore amica di Julie, la mette in guardia; ma la donna segue comunque l’uomo, covando però in seno la paura di venire messa in ombra dal ricordo della moglie morta. L’insicurezza di Julie si trasforma ben presto in paranoia: più cose scopre su Lucia e più ne diventa ossessionata, quasi fino alla pazzia. Persino il tentativo di Natalie di aiutarla spinge Julie sempre più verso la gelosia e il sospetto. Solo Max può salvarla dai suoi demoni rivelando i propri.
Vedere “Fronte del porto” e “La valle dell’Eden” da giovane è stata per Martin Scorsese, cresciuto a Little Italy, un’esperienza che gli ha cambiato la vita. Scorsese, che vediamo o ascoltiamo durante tutto il film, ripercorre la vita di Elia Kazan, nonché la propria, nel segno di quella crescente presa di coscienza che ci dovesse essere un artista dietro la cinepresa, qualcuno “che mi conosceva, forse meglio di quanto conoscessi me stesso”. E’ un film-documento sull’importanza di essere esposti ai film giusti al momento giusto, quando si è adolescenti e completamente aperti e pronti a entrare in contatto, a essere spronati da ciò che si vede lassù, sul grande schermo, per poi, forse, iniziare un percorso che possa portare alla creazione di film propri. Costituito da spezzoni, fotografie, letture dall’autobiografia del maestro e dal suo discorso sulla regia (letto dall’attore Elias Koteas), da un’intervista su videocassetta a un Kazan già anziano e dal commento di Scorsese davanti alla cinepresa o fuori campo, “A Letter to Elia” guarda da vicino alla vita dell’arte e alla sua creazione: il lavoro, le distrazioni, le ispirazioni, le complicazioni, i raccordi tra l’arte e l’esperienza vissuta. Scritto e diretto da Scorsese e Kent Jones, è un documentario profondamente personale, un ritratto e autoritratto sincero, ed un riconoscimento altrettanto sincero della vicinanza e della distanza tra gli artisti e le loro opere.
I fratelli cinesi Pang (di Hong Kong) non abbandonano l’horror (in Italia visti “The Eye” 1 e 2) ma esperimentano per la prima volta il 3D, completamento realizzato in patria, offrendoci il primo film tridimensionale realizzato interamente in oriente. Un esperimento riuscito quasi completamente, anche perché i registi hanno affrontato il nuovo mezzo con passione e serietà, studiandone causa ed effetti.
Bloccati in Tailandia dai tumulti politici e dalla chiusura dell’aeroporto, Rainie e i suoi amici non possono tornare a casa e si stabiliscono con riluttanza in un vecchio albergo scalcinato. Assieme a lei ci sono Lok, il ragazzo che Rainie sta quasi per lasciare, Ling e suo fratello Rex e Ciwi assieme al suo adorato Hei, il suo compagno. Appena si presenta in albergo, il gruppo si imbatte in tre bizzarri bambini e in un cagnolino e da quel momento cominciano a susseguirsi strani avvenimenti. Il giorno dopo Lok, Rex e Hei spariscono nello stesso momento. Le tre ragazze perlustrano tutto l’albergo nella speranza di ritrovare i tre giovani scomparsi, ma ogni tentativo è vano…
Visto il budget elevato della pellicola, i fratelli Pang confessano: “Abbiamo optato per un cast giovanissimo, combinato con una serie di effetti speciali e con le più moderne tecnologie 3D, allo scopo di proporre al pubblico la migliore esperienza cinematografica e più all’avanguardia. ‘Tungngaan’ (titolo originale) sarà probabilmente il primo film dell’orrore asiatico in 3D, e ci auguriamo che con quest’opera il genere horror asiatico tocchi nuove vette”. In bocca al lupo!
La sua “Passione” per Napoli e per la sua canzone hanno spinto Turturro a condurre un viaggio al termine di un juke-box, il più grande del mondo: Napoli, appunto, scrigno di canzoni, leggenda che inizia con il mito delle Muse. Canzoni e cantanti, musicisti e poeti, personaggi reali e leggendari sono i protagonisti di un film che attraversa una delle metropoli più belle, famose e controverse del mondo. L’occhio straniero, ma non troppo, dell’attore-regista italo-americano attraversa la città e le sue musiche, dal Canto delle lavandaie del Vomero del Duecento a ‘Napul’è’ di Pino Daniele, rievoca storie lontane e miti vicini, alterna l’amarcord alla ricostruzione, la sceneggiata al videoclip, la storia della canzone alle storie che le canzoni narrano e nascondono. Immagini delle grandi voci di un passato ormai remoto si sovrappongono a quelle di interpreti moderni, capaci di proseguire una tradizione gloriosa, ricreandola e rinnovandola. Così la voce di Mina apre la strada a quella di Pietra Montecorvino, e le sperimentazioni di Raiz, Almamegretta e M’Barka Ben Taleb incorniciano l’incontro di Massimo Ranieri con Lina Sastri; tra gli exploit di Fiorello (che napoletano non è, ma che canta e balla come se lo fosse insieme all’amico attore-autore) e Gennaro Cosmo Parlato e le memorie in musica di Avion Travel, Peppe Barra e James Senese. Un’orchestra d’eccezione per un repertorio che parla di amore, sesso, gelosia, immigrazione, protesta. Ogni canzone si trasforma in una piccola sceneggiatura, una cartolina sentimentale spedita da una città e dalle forze che la muovono. Una sorta di “Carosello Napoletano” del terzo millennio.
Passato anche, nelle Giornate degli Autori, “L’amore buio” di Antonio Capuano, da ieri nelle sale. Un dramma, duro e amaro, che rivela le due facce della sempre amata/odiata Napoli, attraverso una (non) storia d’amore. Già perché il tortuoso rapporto fra Ciro – rappresentante delle classi meno abbienti - e Irene – ragazza della società bene - nasce dopo uno stupro di gruppo di cui lei è stata vittima e lui uno dei carnefici. Ma è anche l’incontro fra due solitudini segnate non solo dal disagio adolescenziale. Assecondano i giovanissimi protagonisti non professionisti (scelti fra gli studenti delle scuole napoletane), un’inedita ed efficace Valeria Golino (la psicologa), Luisa Ranieri (madre di Irene) e il rimpianto Corso Salani (il padre), scomparso poco fa a soli 49 anni, alla sua ultima apparizione sul grande schermo.
José de Arcangelo

venerdì 3 settembre 2010

Nubifragio sulla Terza giornata della 67a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia per Sofia Coppola e gli italiani Torre e Incerti

Inaugurata da un nubifragio sul Lido di Venezia la terza giornata della 67a. edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Passerella allagata, caduta dei famosi Leoni di Dante Ferretti, acqua piovana dal soffitto in sala stampa, dove è stato necessario staccare l'impianto elettrico. L'acqua ha invaso persino il pianterreno del Casinò e ha reso impraticabile l'uscita dalla Sala Volpi. Il rumore del nubifragio ha anche disturbato la conferenza stampa di “Somewhere” quarta opera della figlia d’arte Sofia Coppola, presentata oggi in concorso e subito dopo nelle sale italiane.
Tra i film in programma anche “I baci mai dati” di Roberta Torre, che ha aperto la sezione Controcampo Italiano. “Gorbaciof” di Stefano Incerti, con un sempre grande Toni Servillo, e “La commedia” di Amos Poe, ispirata al sommo Dante, entrambi fuori concorso. In gara per Venezia 67 “Happy Few” di Antony Cordier e “Somewhere”, appunto. La sezione Orizzonti è andata avanti con “Malavoglia” di Pasquale Scimeca, rivisitazione contemporanea del celebre romanzo di Giovanni Verga, già fonte ispiratrice di “La terra trema” di Luchino Visconti. Oggi inoltre è la giornata dedicata a John Woo, il grande regista di Hong Kong passato con successo a Hollywood, Leone d'Oro alla carriera di questa edizione del Festival.
Il film della Coppola, narra una storia non certo nuova ma da un punto di vista particolare, in cui la regista ha messo qualche episodio della sua adolescenza (due salti a casinò) e la sua esperienza in campo. Johnny Marco (lStephen Dorff) è una giovane star hollywoodiano, sempre centro d’attenzione dei giornali scandalistici: ha una Ferrari che ama più di altra cosa al mondo, e ragazze e pasticche sempre a disposizione per quando rimane a casa. Johnny passa i suoi giorni così, in questo beato torpore. Ma un giorno però la figlia undicenne Cleo (la sorprendente Elle Fanning), avuta da un matrimonio fallito, arriva inaspettatamente al suo lussuoso hotel costringendolo a guardare in faccia la realtà della sua vita. E tutto cambierà, anche la sua esistenza. Sempre delicato e al tempo stesso intenso, il film dell’autrice di “Lost in Translation” seduce ma, in parte, divide la critica.
Il lungometraggio della Torre narra, invece, di Manuela, tredicenne di Librino, un quartiere “modello”, periferico e degradato di Catania. L’adolescente un giorno si inventa di poter fare miracoli. La gente non desidera che crederle e lei, che vorrebbe solo ritagliare donne di carta per i suoi collage, andare al mare con il fidanzato e sognare sogni dove vivono donne con capelli di zucchero filato che finalmente si lasciano pettinare e madri accoglienti e rotonde che sorridono sempre, si ritrova, all’improvviso, quasi santa. Da quel momento irrompe nella sua vita un’umanità affamata e bisognosa che le chiede di tutto: dal posto di lavoro perduto alla vincita al Totocalcio, da un sogno mai realizzato a un cambio di personalità e, chissà, di vita. Mentre sua madre Rita intravede la possibilità di farne un commercio, Manuela osserva e sgrana gli occhi davanti a tutti quelli che le sfilano davanti come marionette impazzite… Si spaventa e vorrebbe smettere di fare la santa, ma non è più così facile. Perché suo malgrado un miracolo accade…
Incerti, come di consueto, si affida ad una storia originale, un amore particolare nella Napoli dove può accadere tutto e il contrario di tutto. Marino Pacileo, detto “Gorbaciof” a causa di una vistosa voglia sulla fronte, è il contabile del carcere di Poggioreale a Napoli. Schivo e silenzioso, Pacileo ha una sola passione: il gioco d’azzardo. Quando scopre che il padre di Lila, la giovane cinese di cui è innamorato, non può coprire un debito contratto al gioco, l’uomo sottrae i soldi dalla cassa del carcere per darli alla ragazza. Dal quel momento, tra partite sbagliate, riscossione di tangenti e rapine, inizia una spirale discendente dalla quale non sarà più in grado di uscire.
“La Commedia” di Amos Poe – protagonista del cinema alternativo americano, underground si diceva allora anziché indipendente come accade oggi, fin dagli anni Settanta - si ispira al capolavoro letterario di Dante Alighieri e a “The Horse in Motion” di Edward Muybridge, considerato da molti uno dei pionieri del cinema, per la rivoluzionaria scoperta della fotografia in movimento alla fine dell’Ottocento. L’idea chiave del film è quella di un viaggio in movimento, uno schema di eventi. Amos e Dante sono due” viaggiatori” che si confrontano nel pieno di una crisi di mezz’età: “Nel mezzo del cammin di nostra vita | mi ritrovai per una selva oscura…”, come recita l’incipit dell’Inferno. Concepito come un documento di “cinema-verità” – nettamente d’autore - di un viaggio estivo di Poe in Italia e Francia, ‘La Commedia’ si concentra innanzitutto sulla percezione del movimento nel cinema: è composto infatti da seimila fotografie scattate tra maggio e settembre 2009, per lo più a Firenze.
“Volevo girare un film – confessa il regista -, ed ero alla ricerca di un buon scrittore. Ho immediatamente pensato a Dante. ‘La Commedia’ è cresciuta in modo organico a partire dalle mie letture della Divina Commedia, dal fascino evocato dalla riscoperta delle origini del cinema come flusso di immagini in movimento e come poesia, e grazie all'aiuto di migliaia di fan su Facebook. Mi auguro che lo spettatore sia rapito da ciò che accade sullo schermo e da ciò che verrà evocato in lui a livello emotivo. Credo che la magia del cinema stia proprio in questa interazione di universi narrativi, quello visivo e quello interiore”.
Un dramma più intimista quello del francese Cordier, su confusione e disagio, utopia esistenziale e amore. Due coppie sulla trentina si incontrano e s’innamorano perdutamente. Dormono assieme, passano le giornate assieme. Provano ad andare avanti assieme, senza regole e senza menzogne. Ma molto in fretta si perdono nella confusione. E faranno qualunque cosa per poter fuggire.
Versione contemporanea del capolavoro di Verga, il film di Scimeca lo immerge nella realtà di oggi, non meno dura di quella dell’originale. Ma, convinto che il cinema debba servire a qualcosa, non concede quasi niente allo spettacolo. Il suo cinema, sempre appassionato, viscerale e impegnato, conquista ma di certo non tutti.
Un giorno di un anno qualsiasi, agli albori del terzo millennio: ‘Ntoni Malavoglia assiste a uno sbarco di clandestini. Sulla nave c’è Alef, che approfittando della confusione riesce a scappare. ‘Ntoni l’aiuta; gli trova un lavoro nelle serre e una casa nel vicolo dove abita con la sua famiglia. I Malavoglia sono pescatori. Possiedono una barca, la Provvidenza, e una casa, che tutti chiamano “La casa del Nespolo”. La famiglia è composta dal nonno Padron ‘Ntoni, da Bastianazzo, dalla moglie Maruzza e dai figli ‘Ntoni, Mena, Alessi e Lia. ‘Ntoni ha vent’anni e gli altri sono tutti più piccoli. Sono ragazzi poveri, che a malapena hanno finito le scuole dell’obbligo. Una notte la Provvidenza fa naufragio e Bastianazzo muore. La famiglia inizia così a disgregarsi...
In serata la cerimonia di consegna del Leone d’oro alla carriera a John Woo, seguita dalla proiezione in prima mondiale di “Jianyu” (Reign of Assassins), il film di Su Chao-Pin, prodotto da Terence Chang, di cui Woo firma la supervisione alla regia, “Jianyu”, vanta un cast molto variegato e composto, dalla regina del film d'azione asiatico Michelle Yeoh (presente al Lido) e dalla superstar coreana Jung Woo Sung, e dalle star cinesi e taiwanesi Barbie Hsu, Wang Xueqi, Kelly Lin e Angeles Woo.
José de Arcangelo