sabato 8 settembre 2012

Venezia 69. Vince il Leone d'oro il coreano "Pietà" di Kim Ki-duk, e convince tutti. Niente premi per Marco Bellocchio e Terrence Malick

La 69a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia chiude le proiezione con “L’homme qui rit” (L’uomo che ride) di Jean-Pierre Ameris, ispirata all'opera omonima di Victor Hugo e che vanta nel cast la presenza di Gérard Deapardieu ed Emmanuelle Seigner. Un dramma che gli permette, secondo il regista, di “affrontare temi diversi: la diversità fisica, l'amore, la modernità. Mi sono sempre specialmente emozionato per i film che hanno un ‘mostro’ come eroe, come protagonista.”

Il “mostro” in questione è Gwynplaine (Marc-André Grondin) – personaggio che possibilmente ha ispirato il joker/clown di Batman -, un giovane dal volto sfregiato in modo tale che sembra avere un sorriso permanente. Viene adottato da Ursus, che ha già una bambina cieca, Déa, e con loro mette su uno spettacolo itinerante del quale Gwynplaine è l'attrazione principale. Le cose si complicano, anzi cambiano, quando il giovane scopre di essere l'erede di una famiglia aristocratica… Ma andiamo ai premi che – come previsto dai pronostici – sono andati soprattutto al cinema ‘straniero’, anche se meritati. Il Leone d'Oro della 69.a edizione del Festival di Venezia è andato a Pietà di Kim Ki-duk, anche se la giuria presieduta da Michael Mann ha tenuto conto anche l'ultimo, applaudito lavoro di Paul Thomas Anderson, “The Master” – che però non aveva convinto del tutto la critica dell’inizio gara -, al quale ha assegnato il premio per la miglior regia e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile andata ex aequo a Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman.
Gli altri riconoscimenti consegnati nel corso della cerimonia, condotta da Laetitia Casta - segnata da una spiacevole gaffe/scambio da parte dei giurati e in parte ‘salvata’ dalla modella/attrice – e dalla madrina Kasia Smutniak, sono il Premio della Giuria andato a Ulrich Seidl per “Paradise: Faith” e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Hadas Yaron per l’israeliano “Fill the Void”. Al giovane Fabrizio Falco è andato il Premio Marcello Mastroianni, destinato all’attore/attrice rivelazione, per la doppia interpretazione in due dei tre film italiani in concorso “Bella addormentata” di Bellocchio ed “E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì, che si è aggiudicato l’Osella per la migliore fotografia, meritata da tempo, e che ha firmato anche quella del film di Bellocchio. L’Osella per la migliore sceneggiatura è andata invece al francese Olivier Assayas per “Après Mai”.
Infine, il Leone del Futuro - Premio Venezia Luigi De Laurentiis – riservato alle opere prime presentate nelle diverse sezioni – è stato assegnato a “Kuf / Küf” di Ali Aydin. Il premio Orizzonti per il miglior lungometraggio, proiettato nell’omonima rassegna collaterale, è stato assegnato al cinese “Three Sisters” di Wang Bing. Gran Premio Speciale della Giuria della sezione Orizzonti al film “Tango Libre” del belga Frédéric Fonteyne. Premio Orizzonti Youtube per il miglior cortometraggio a “Cho-de” (Invitation) di Yoo Min-young. José de Arcangelo

venerdì 7 settembre 2012

Al Lido deludono gli ultimi due film in concorso di Brian De Palma e Francesca Comencini. Ma arrivano i premi collaterali per Kim Ki-duk e l'italiano "L'intervallo" di Leonardo di Costanzo

Il terzo e ultimo film italiano in concorso, "Un giorno speciale" – inspiegabilmente attaccato da ogni dove da critica e pubblico -, ci lascia quantomeno perplessi, visto che Francesca Comencini la apprezzavamo fin dai tempi de “Le parole di mio padre”, ma anche per il più recente “Lo spazio bianco”, come una regista attenta ai problemi sociali e psicologici dei suoi personaggi, sempre ancorati alla realtà. Stavolta, forse, la situazione, squallida e ‘banale’ in cui ci troviamo tutti, ci porta a respingere ‘ferocemente’, una storia sì ‘trita e ritrita’ ma che purtroppo oggi è diventata ‘normale’, non più eccezionale. Se le ragazze (non solo in Italia) arrivano a prostituirsi per pagarsi gli studi, non è più un capriccio né la voglia di successo (in questo caso è la madre che spinge la figlia a far l’attrice ma non è il sogno della ragazza).

Ecco la storia tutta in un giorno. Gina e Marco sono giovanissimi e decisi a diventare ‘qualcuno’. Si incontrano una mattina in una periferia stralunata alle porte di Roma. Lei ha un appuntamento con un politico che potrebbe mettere una buona parola e aiutarla a entrare nel mondo dello spettacolo, lui è l’autista che ha il compito di condurla all’appuntamento. È l’occasione che entrambi aspettavano. Il primo giorno di lavoro. L’entrata nel mondo dei grandi. Ma niente va come deve andare. Una giornata che li porterà dalla provincia al cuore della capitale, in cui i due giovani imparano a conoscersi. “Nel corso della giornata – ha detto la regista - Gina e Marco vivono come due adolescenti, ma alla fine della giornata sono costretti a schiantarsi contro il mondo degli adulti e lì Gina, che per tutto il film è stata la più forte, cede. Da madre, osservando i bambini mi sono accorta che solitamente le bambine sono più sicure e aggressive dei maschi, ma poi, quando diventano adulti, la situazione si ribalta a causa delle dinamiche che ben conosciamo, e crollano come se le aspettative su di loro fossero troppo pesanti. Non credo che i due ragazzi siano rappresentativi di qualche categoria. Noi volevamo fare un film su due ragazzi normali, uguali agli altri. Tra l'altro i caratteri dei due giovani sono molto fedeli al romanzo di Claudio Bigagli (attore e regista ndr.) da cui il film è tratto”.
“Ho giocato molto su diversi registri – ha spiegato -, sui cambi di tono, dal dramma alla commedia, sul fatto che i personaggi fanno cose inaspettate ". Sembra abbia deluso anche il nuovo thriller (non solo dei sentimenti) di Brian De Palma “Passion”, remake del francese “Crime d’amour” di Alain Corneau con Kristin Scott-Thomas e Ludivine Sagnier, voluto e proposto dal produttore allo ‘specialista’ americano. Non sappiamo se perché ormai è l’ultimo giorno del concorso o perché dai registi si pretendeva di più, però c’è stato un certo ‘accanimento’ contro i due da una parte della critica da farci sospettare che ci sia qualcosa in più. Probabilmente – come spesso accade e non solo a Venezia – i film non sono degni della gara ufficiale, a scapito di altri delle sezioni collaterali, però sparare a zero sui due ultimi concorrenti al premio ci è sembrato eccessivo. Rimandiamo il nostro giudizio alla loro uscita in sala per averne conferma o meno. Presentato come thriller erotico nella tradizione di “Vestito per uccidere”, il film di De Palma narra la lotta mortale per il potere tra due donne nel mondo spietato degli affari internazionali. Christine possiede la naturale eleganza e la
disinvoltura tipiche di una persona che ha denaro e potere. Innocente, bella e facilmente influenzabile, la sua protetta Isabelle la ammira ed è piena di idee innovative, che Christine ruba senza scrupoli (si fa da decenni). Dopotutto fanno parte della stessa squadra. Christine prova piacere nell’esercitare il controllo sulla giovane, trascinandola poco a poco in un gioco sempre più torbido di seduzione e manipolazione, dominio e umiliazione. Ma quando Isabelle va a letto con uno degli amanti di Christine... Anche qui storia non nuova, anzi vecchia come il mondo, ma che ovviamente dovrebbe essere sostenuta da una narrazione innovativa e da un impatto visivo non indifferente, però a sentire chi l’ha visto, non c’è altro che una colonna sonora (sempre di Pino Donaggio) roboante e due protagoniste, efficaci, ma poco credibili nei rispettivi ruoli. Staremo a vedere anche qui, visto che su sesso e seduzione – come del resto in amore – non ci sono regole né canoni che tengano. A ciascuno il suo! Fuori concorso un altro ‘banale’ (sulla carta) thriller psicologico costruito con lo stile e sugli effetti di quello classico, per sconfinare nell’horror: “Forgotten” dell’esordiente regista tedesca Alex Schmidt.
Durante l’infanzia Hanna e Clarissa erano grandi amiche e trascorrevano sempre le vacanze insieme ai genitori in una vecchia casa di villeggiatura su un’isoletta. Ma, poco dopo il nono compleanno di Hanna, le due bambine si perdono improvvisamente di vista e si incontrano per caso solo venticinque anni dopo. Hanna è ormai sposata, ha una figlia di sette anni ed è primario all’ospedale dove ritrova Clarissa, portata al pronto soccorso per un’overdose di sonniferi. Hanna e Clarissa riprendono il loro rapporto di amicizia come se non si fossero mai lasciate e decidono di passare qualche giorno sull’isola, proprio come ai vecchi tempi. Però i fantasmi del passato riaffiorano… Tre film nella sezione Orizzonti: “Me Too” del russo Aleksej Balabanov, “The Paternal House” dell’iraniano Kianoush Ayari, e “Three Sisters” del cinese Wang Bing. Il primo narra una storia che prende spunto da un fatto accaduto ottantacinque anni fa quando, per ragioni di ordine morale, un uomo uccide la figlia assieme al giovane figlio e la seppellisce nello scantinato della sua casa. La fossa nascosta creerà un legame tra le generazioni successive della famiglia fino ad oggi.
Quello russo è un dramma on the road fra realtà e sogno (illusioni). Quattro passeggeri (Bandit, il suo amico Matvei col vecchio padre, Musician, e la sua bella ragazza) sfrecciano a tutta velocità a bordo di un’enorme jeep nera lungo una strada deserta in cerca del “Campanile della Felicità”. Secondo una vecchia leggenda, la torre si celerebbe da qualche parte fra San Pietroburgo e la città di Uglic, non lontano da una vecchia centrale nucleare abbandonata. Il campanile fa scomparire la gente, però non accetta chiunque.
Il cinese è un dramma più realistico che, ancora una volta, illustra le dure condizioni di vita nelle zone lontane dalle metropoli. Tre sorelle vivono in piccola casa in un villaggio di montagna nello Yunnan, ma non con i genitori. Le bambine di giorno lavorano nei campi o girano per il villaggio. Dal momento che la zia ha sempre più problemi per dar loro da mangiare, il padre delle bambine ritorna e vuole portarle in città, ma alla fine decide di lasciare la più grande col nonno. Domani la Mostra chiude i battenti con la cerimonia di premiazione, mentre già oggi sono arrivati i primi premi collaterali.
Sono Andrea Papini con “Il riporto” (dal romanzo omonimo di Adrian Bravi) e Massimo Andellini con “Sergio. La rinascita” (dal romanzo “Vecchi nodi” di Matteo Martone) i vincitori della I edizione del concorso Bookciak, Azione!, promosso da Bookciak (la piattaforma italiana, progetto speciale del MiBAC, che mette in contatto i mondi dell’editoria, del cinema e dell’audiovisivo) in collaborazione con le Giornate degli Autori. Il Premio del Pubblico RaroVideo per il miglior film della 27a. Settimana Internazionale della Critica, nell’ambito della 69a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato assegnato al film svedese “Äta sova do” di Gabriela Pichler. Il premio, del valore di 5.000 euro, è consegnato oggi, presso il Lancia Café (terrazza Hotel Excelsior), all’attrice protagonista Nermina Lukaa. Oggi è stato assegnato anche il premio Future Film Festival Digital Award 2012 al film “Bad 25” di Spike Lee, con la seguente motivazione: “Per l’aver voluto riflettere su un tema centrale della modernità, come la ridefinizione dell’identità individuale attraverso l’audiovisivo”. La giuria ha inoltre riconosciuto una Menzione Speciale a “Spring Breakers” di Harmony Korine, “per la particolare qualità degli effetti speciali sonori, che rielaborano le immagini della tv per usargliele contro”. Per i Giornalisti di Cinema (SNGCI) presenti al Lido, il Miglior documentario presentato al Festival è “La nave dolce” di Daniele Vicari, a cui viene assegnato il Premio “Francesco Pasinetti” 2012.
Il comitato direttivo del premio Mouse d’Oro, dopo aver ricevuto e conteggiato il giudizio di oltre 100 giurati, ha decretato come migliori film della 69a. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia - Mouse d’Oro 2012 al coreano “Pietà” di Kim Ki-duk: “per aver saputo ritrovare l’ispirazione personale attraverso un cinema contemporaneamente di genere e autoriale, rappresentando i temi cari al regista: compassione, senso di colpa ed espiazione”. Mouse d’Argento 2012 al russo “Anton tut ryadom” (Anton's Right Here) di Lyubov Arkus: “per la lezione sull’etica dello sguardo nei confronti del dolore degli altri”. Infine, “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo – presentato in concorso nella sezione Orizzonti – si è aggiudicato i seguenti Premi:
Il Premio Francesco Pasinetti – assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani; il Premio Fipresci - il riconoscimento della Federazione Internazionale dei Critici Cinematografici; il Premio Lanterna Magica - assegnato dalla giuria dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali in collaborazione con il Comitato per la cinematografia dei ragazzi; e il Premio FEDIC – assegnato alla Federazione Italiana dei Cineclub. E, infatti, su questo film ci si chiedeva della sua assenza nel concorso ufficiale. José de Arcangelo

giovedì 6 settembre 2012

Robert Redford, attore e regista, conquista il pubblico del 69° Festival di Venezia, ma delude i fan

Fuori concorso, la nuova fatica da regista (ma anche da protagonista) di Robert Redford, una storia che ha più di un punto in comune con quelle interpretate per il suo mentore Sidney Pollack (vedi “I tre giorni del condor”) e, soprattutto, per Alan J. Pakula (“Tutti gli uomini del presidente”), frutto del suo impegno civile nato subito dopo, “The CompanyYou Keep”, dal romanzo omonimo di Ron Jacobs, sceneggiato da Lem Dobbs. Infatti, il divo - che ha incontrato anche il Presidente Napolitano ma si è rifiutato di firmare autografi - ha confermato il suo sostegno a Obama, che è favorevole al cambiamento, mentre i repubblicani – che rappresentano "l’un per cento, e sono solo gli straricchi" – vogliono che tutto resto com’è. Inoltre, ha detto che ‘ribellarsi è ancora giusto' e che dobbiamo cercare di lasciare alle nuove generazioni una società meno marcia.

Jim Grant (Redford) è un avvocato che si occupa di diritti civili e un padre single che vive con la figlia in un tranquillo quartiere alla periferia di Albany, New York. Il suo mondo viene sconvolto quando uno spregiudicato giornalista, Ben Shepard (Shia LaBeouf), rivela che Grant è un estremista pacifista – ex terrorista attivo anni ’70, sostenitore della protesta contro la guerra del Vietnam e partecipante a una rapina finita nel sangue -, evaso e ricercato per omicidio. Dopo essere vissuto per più di trent’anni nei panni di un legale, ora Grant deve darsi alla fuga: diventato l’obiettivo di una sfrenata caccia all’uomo per tutti gli States scatenata dall’Fbi, si mette in viaggio alla ricerca della persona che può dimostrare la sua innocenza.
Un teso e lucido thriller che riflette - rispecchia - sulla società e sulla politica contemporanee dell’America, e la nuove generazione confuse e già deluse. Grande cast di ‘coetanei’ di lusso come Julie Christie, Nick Nolte, Susan Sarandon, Sam Elliott e Richard Jenkins. Ma in concorso è stata presentata la non meno attesa – almeno da critica e cinefili - opera del filippino Brillante Mendoza “Thy Womb” e il belga “La cinquième saison” di Peter Brosens e Jessica Woodworth. Shaleha Sarail vive a Sitangkai, un villaggio sull’acqua nell’isola di Tawi-Tawi. Questa provincia, situata nella parte più meridionale delle Filippine verso gli arcipelaghi malese e indonesiano, è dedita alla produzione di alghe marine. Shaleha, donna ormai matura, al terzo aborto spontaneo, si dispera per l’impossibilità di aver figli, lei che fa proprio la levatrice. Nonostante sia madre adottiva di un nipote, sente che il marito Bangas ha ancora il desiderio di diventare padre. Per appagare il sogno del marito ed essere benedetta da Allah, la donna decide di intraprendere un’altra strada: troverà una nuova moglie per Bangas.
Amore e sacrificio per un personaggio, bello ma tragico. “Il film analizza – afferma l’autore - la contrapposta natura di due donne (la sterile Shaleha e la fertile Mersila) per riflettere sulle condizioni di vita a Tawi-Tawi, un luogo ricco di risorse e di bellezza naturale ma impantanato in una crisi economica e socio-politica. Un tranquillo inferno in un paradiso…” Siamo dalle parti della metafora apocalittica del nostro mondo, nell’altro film in concorso, “La quinta stagione”, infatti, è quella della fine del mondo, provocata da noi stessi che avviamo avvelenato aria, acqua e terra. E trova conferma nel detto “non ci sono più stagioni” e nella crisi (quasi) globale. Un’opera enigmatica e, se vogliamo, sperimentale, sicuramente anticonvenzionale dal punto di vista narrativo, ma suggestiva da quello visivo.
Su un villaggio nel cuore delle Ardenne si abbatte una misteriosa calamità: non arriva la primavera. Il ciclo della natura si è capovolto. Inverno – In cui Alice, figlia di un contadino, e Thomas, un adolescente solitario, sono innamorati. In cui l’annuale falò che celebra la fine dell’inverno non riesce ad accendersi. Primavera – In cui le api scompaiono, i semi non germogliano, le mucche si rifiutano di produrre latte. In cui si ha la prima vittima. Estate – In cui un venditore ambulante di fiori porta al suo passaggio una gioia effimera. In cui abbondano gli insetti, sale il panico, esplode la violenza. Autunno – In cui ogni cortesia è svanita. In cui gli angeli prendono la fuga.
Nella sezione Orizzonti un altro film italiano, “Bellas mariposas” (ovvero ‘Belle farfalle’) di Salvatore Mereu, dal racconto postumo di Sergio Atzemi, vicende di due adolescenti prigioniere di un ambiente ‘mostruoso’ e senza futuro. 3 agosto, Cagliari, quartiere popolare. Alle tre di notte, Cate (voce narrante della storia), undicenne, viene svegliata dalle grida di una stravagante vicina. Cate vorrebbe fuggire da quella casa, dai numerosi e problematici fratelli, dal padre tiranno. Solo Gigi, vicino di casa, merita il suo amore. Lei non vuole finire come sua sorella Mandarina, rimasta incinta a tredici anni. O come Samantha, ragazza desiderio e oggetto del quartiere. E oggi, 3 agosto, la vita di Gigi è in pericolo: Tonio, fratello di Cate, lo vuole uccidere. Cate corre ad avvisare Luna, la sua migliore amica. Le due trascorrono il giorno più lungo della loro vita tra la città, il mare e mille avventure.
“Quando lessi per la prima volta ‘Bellas Mariposas’ – confessa il regista - ne rimasi abbagliato. Tanto dalla trama, lieve e terribile, e dalle modalità con cui essa si dipana, quanto dalla forma, musicale e inusitata, soprattutto nell’adozione spregiudicata della lingua del luogo. Nella letteratura sarda, mi pare, mai tanta grazia e tanta leggerezza si erano coniugate ad accadimenti anche drammatici. Ogni più piccolo episodio della giornata mirabile di Cate e di Luna anche quando sarebbe meritevole, nelle mani di altri, della peggior cronaca, è sempre stemperato da un’ironia sottile e da una capacità di sorridere di se stessi rara nella nostra letteratura e nel nostro vissuto almeno quanto l’intrusione continua della lingua parlata in quella scritta”. L’altro film è l’algerino “Yema” diretto e interpretato da Djamila Sahraoui, ‘tragedia greca in Algeria’ come la definisce l’autrice stessa, tra rabbia e vendetta, su una madre divisa fra i due figli in un paese devastato dalla guerra. Una casupola abbandonata nella campagna algerina. Ouardia ha sepolto qui il figlio Tarik, un soldato forse ucciso dal fratello Ali che è a capo di un gruppo islamista.
E’ sorvegliata da uno degli uomini di Ali che ha perso un braccio in un’esplosione. In questo universo teso, carico di dolore e indebolito dalla siccità, la vita si impone nuovamente un po’ alla volta. Grazie al giardino che Ouardia fa rinascere a forza di coraggio, lavoro e testardaggine; e al sorvegliante, anch’egli vittima, alla fine adottato dalla donna. Grazie soprattutto all’arrivo del figlio di Malia, una donna amata dai due fratelli e morta di parto. Ma Ouardia non è giunta ancora al termine delle sue sofferenze. Ali, il figlio maledetto, ritorna gravemente ferito. José de Arcangelo

mercoledì 5 settembre 2012

L'Italia contemporanea, cinica e depressa, è la protagonista della "Bella addormentata" di Marco Bellocchio, in concorso alla 69° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

E’ il giorno di Marco Bellocchio alla 69a. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con il secondo film italiano in concorso “Bella addormentata” (da domani nelle sale distribuito da 01), una riflessione sull’Italia d’oggi che prende ispirazione dal ‘caso Eluana Englaro per dipingere un lucido ritratto della nostra società addormentata, anzi drogata da cinismo, ipocrisia, delusione e depressione collettiva. “Il film nasce da una fortissima emozione (e stupore) – dice l’autore nelle note di regia - per la morte di Eluana (e soprattutto da come è stata vissuta dagli italiani, penso al popolo della Rete, ai politici, alla chiesa…), dalla mia solidarietà e ammirazione per il padre”.

Un tema, forte, doloroso e personale, anzi intimo e privato, su cui i media e la politica pretendevano di avere ragione, di giudicare e persino di imporre ‘l’accanimento terapeutico’ (alimentazione forzata). Bellocchio però lascia da parte il pregiudizio, il partito preso, e chiarisce “certo non è un film imparziale, in arte credo l’imparzialità non esista, ma è sincero e per nulla ideologico. Ho le mie idee ma il film non ne è il manifesto. Di questo sono convinto, aperto alla discussione (mi auguro che si discuta) e fiducioso in un pubblico non indifferente”. Per tutto questo, ed altro, il suo film colpisce, coinvolge e ci spinge a parlare, a discutere di etica, morale e politica, di pubblico e privato, di vita e di morte (fisica, intellettuale, civile).
I sei giorni che precedono la morte di Eluana, in diversi luoghi d’Italia, quattro storie incrociate, quattro punti di vista, in cui personaggi di fantasia dalle diversi fedi e ideologie, legati emotivamente a quella vicenda in una riflessione esistenziale sul perché della vita e della speranza malgrado tutto. Il senatore Uliano Beffardi (il sempre inimitabile Toni Servillo, per la seconda volta al Lido dopo “E’ stato il figlio”) deve scegliere se votare per una legge che va contro la sua coscienza o non votarla disubbidendo alla disciplina del suo partito, mentre la figlia Maria (Alba Rohrwacher), attivista del movimento per la vita, manifesta davanti alla clinica La Quiete, dove Eluana è ricoverata. Roberto (Michele Riondino), con il fratello Pipino (Fabrizio Falco, anche lui nel film di Ciprì), è schierato nell’opposto fronte laico. Un ‘nemico’ di cui s’innamora la ‘suora’ Maria.
In una grande città (forse Roma), una grande attrice (sublime Isabelle Huppert) - soprannominata la ‘Divina madre’ – cerca nella fede e nel miracolo la guarigione della figlia, da anni in coma irreversibile, sacrificando così il rapporto col figlio Fabrizio (Brenno Placido, figlio di Michele) che cerca inutilmente di ‘raggiungerla’ anche attraverso il mestiere dell’attore. La disperata Rossa (bella prova di Maya Sansa), tossicodipendente aspirante suicida, viene salvata (risvegliata) da un giovane medico chiamato Pallido (Pier Giorgio Bellocchio), che si oppone con tutte le forze al suo suicidio. Questa la storia che chiude magistralmente – un vero risveglio alla vita -, la nuova pellicola di Bellocchio che – secondo noi – è vicina al Leone d’oro.
Con uno stile sobrio ma potente, l’autore rievoca con coerenza registica le atmosfere – tra corrosiva ironia e spietata accusa alla politica degli ultimi anni - dei suoi capolavori, da “I pugni in tasca” (la famiglia borghese sembra lo specchio contemporaneo di quella di cinquant’anni fa) a “Nel nome del padre” (i rapporti coi figli è sempre conflittuale e fortemente influenzato dalla società), da “L’ora di religione” (la fede) a “Vincere” (l’arroganza del potere). Ottimo il contributo del direttore della fotografia Daniele Ciprì che dà a ogni storia, ad ogni città, la luce giusta, incorniciando i ‘quadri’ disegnati dall’autore. Nel cast anche Gian Marco Tognazzi (il marito della ‘Divina Madre’), Gigio Morra (il persuasore), Federica Fracassi (madre) e il grande Roberto Herlitzka (il senatore psichiatra). Tutt’altra atmosfera e argomento per il secondo film in concorso della giornata, “Spring Breakers” di Harmony Korine (nel cast anche la figlia) che sotto l’apparente patina da videoclip e le giovanissime protagoniste (Vanessa Hudgens, Ashley Benson, Selena Gomez e Rachel Korine), ex dive disneyane idolatrate dagli adolescenti, ci sbatte in faccia l’odierno ‘American Dream’ che, secondo l’autore, non è più quello di arrivare al successo (e alla felicità) col duro lavoro e la forza di volontà, ma raggiungere un livello di eterna spensieratezza, privo di responsabilità e doveri. Quattro sexy studentesse sexy sperano di trovare i soldi per le loro vacanze di primavera rapinando un fastfood. Ma,
in una notte di pazzie, vengono arrestate a un posto di blocco per detenzione di droga. Ubriache e con addosso solo il bikini, le ragazze vengono portate dal giudice, ma vengono rilasciate grazie alla cauzione pagata da Alien, un criminale dal cuore d’oro che le prende sotto la sua protezione e fa vivere loro una indimenticabile vacanza. Una spietata rappresentazione della decadenza degli States e di una generazione divisa tra vacuità e inconsapevolezza, anche se realizzata con gli stessi mezzi che dovrebbe criticare (videopop, luci e colori, musica roboante, ritmo frenetico) ma, forse, l’unico modo per arrivare alla platea adolescenziale per ‘risvegliarla’ (anch’essa) dal ‘coma profondo’ della loro esistenza. Fuori concorso due grandi maestri come il portoghese Manoel de Oliveira (quasi 104 anni!) che ha inviato “Gebo et l’ombre” con un cast eccezionale capeggiato da Claudia Cardinale, Michael Lonsdale, Luis Miguel Sintra (i tre presenti al Lido in rappresentanza dell’autore), Ricardo Trepa, Leonor Silveira (sua attrice feticcio) e Jeanne Moreau; e l’inglese – ma francese d’adozione - Peter Brook (87 anni), ‘fotografato’ dal figlio Simon nel documentario-omaggio “The Tightrope”. Il protagonista dell’opera di de Oliveira, Gebo (Lonsdale) vive con la moglie (Cardinale) e la nuora (Silveira=, moglie del suo unico figlio, in un’umile casa. Da tempo non hanno notizie del figlio e la madre è disperata. Il padre crede che il figlio sia coinvolto in qualche attività losca, ma non parla del suo sospetto. La nuora si prende cura dei suoceri come se fossero i suoi genitori e intanto aspetta il marito. Una notte, improvvisamente, questi ritorna...
“L’idea per questo film – ha detto il centenario maestro - nacque quando un amico mi chiese di fare un film sui poveri. Sì, l’idea era buona, ma non è facile fare un film sui poveri. Mi venne in mente ‘Aspettando Godot’ di Samuel Beckett, un dramma sul quale molti intellettuali hanno discusso. José Régio, un critico sempre lungimirante, aveva visto in ‘Il gobbo e la sua ombra’, l’opera di Raul Brandão, un’anticipazione di ‘Aspettando Godot’. Sono così ritornato a ‘Il gobbo e la sua ombra’ perché, pur
essendo del secolo scorso, si adatta bene alla nostra attuale situazione, sotto il punto di vista etico ed economico, senza preconcetti. Anzi, rimane contemporaneo e universale. Inoltre, non è la prima volta che la Francia è l’ambientazione dei miei film. Il film è in francese. Sono un grande ammiratore di quel paese dove fu inventato il cinematografo che ha dato vita a tante opere d’arte, essenziali oggi e per il futuro, credo. Come ha detto il grande regista messicano Arturo Ripstein: ‘Il cinema è lo specchio della vita’. Oltre a dare un riconoscimento alla Francia in quanto paese di quell’invenzione, ho anche un debito personale verso i critici francesi che accolsero il mio primo film al quinto congresso dei critici cinematografici a Lisbona nel 1931”.
Il documentario sul lavoro di Brook parte dall’interrogativo “Come si fa a rendere il teatro reale? È così facile ricadere nella tragedia o nella commedia. Quel che più conta è camminare esattamente sul filo di rasoio della corda dell’acrobata...” Per la prima volta in quarant’anni, Brook, il monumento vivente del teatro contemporaneo, ha acconsentito ad alzare il sipario e a permettere a suo figlio Simon di girare dietro le quinte e di rivelare i segreti del suo approccio. Quindi, un film unico e personale che ci conduce nella sfera di intimità di un laboratorio, in un’esperienza filosofica, sulla corda tesa. Nella sezione Orizzonti passati il turco “Araf – Somewhere in Between” di Yesim Ustaoglu e il cinese “Fly with the Crane” di Ruijun Li. Nel primo si seguono le vicende di due giovani, Zehra e Olgun, che conducono una vita immobile. Lavorano tutto il giorno in una stazione di servizio in cui tutto appare transitorio e senza senso, dove la monotonia e la banalità dei turni di lavoro sono spezzate solo dagli slanci delle loro aspettative di un futuro migliore, ma che si rivelano essere improbabili e ingenue.
“Il mio film riflette il mondo di oggi – spiega l’autore -, dove la gente vive in una sorta di vuoto. Sembra di essere arrivati alla fine del mondo che conosciamo e di essere sul bordo di qualcosa di ‘ignoto’. Non sappiamo come entrarci e cosa proviamo. Il sistema in cui viviamo ci manda dei segnali di allarme, ma non ci facciamo caso. Il film si svolge con questa prospettiva globale, su piccola scala, mettendo in mostra caratteristiche tipiche della Turchia. Entra nelle vite delle persone mediocri bloccate tra cultura nazionale e il proprio ‘araf’, il ‘luogo in mezzo’.
L’ambientazione in una stazione di servizio è una metafora per evidenziare la natura mutevole e transitoria della nostra epoca, dove i protagonisti sono crisalidi in un mondo pieno di ombre e di realtà fluide, alla ricerca di una via d’uscita”. Il secondo narra dei settantatreenni Lao Ma e Lao Cao, che da giovani erano famosi falegnami del villaggio e costruivano le bare per gli anziani della zona. Ora, ormai vecchi, hanno corpi che non sono più agili come una volta; inoltre, il governo ha incrementato la pratica della cremazione, quindi nessuno si affida più a loro per farsi costruire la bara. E, prima della sua morte, Lao Cao chiede a Lao Ma di aiutarlo a fabbricare la propria, e insieme si mettono a costruirla.
“Un anziano desidera che la sua anima salga al cielo – dice il regista -, ma è incapace di rinunciare al suo legame viscerale con la terra. Quando alla fine si rende conto del suo decadimento fisico, non vede più la ragione di preservare il suo corpo, ma anzi capisce di doverlo abbandonare per liberare la sua anima. La storia di quest’uomo anziano dà la possibilità di capire, lentamente, che la terra è una fine unita con un inizio, e che tutto non è altro che un gioco divino inserito in un mondo profano”. Però sono andate avanti anche le proiezioni delle Giornate degli Autori e della Settimana della Critica. E, purtroppo, è già iniziato il conto alla rovescia per il festival che chiuderà i battenti sabato prossimo. José de Arcangelo

martedì 4 settembre 2012

L'illustre ombra di Raul Ruiz e la cruda realtà di Kim Ki-duk si proiettano sul Festival di Venezia

Arriva in concorso “Linhas de Wellington - Lines of Wellington”, un ambizioso progetto del rimpianto Raul Ruiz – morto nella fase di preproduzione - ereditato dalla moglie Valeria Sarmiento, anche lei cilena e regista. Una superproduzione del portoghese Paulo Branco sulla sconfitta dell’esercito napoleonico, nel 1810, in Portogallo, patria del produttore. Un’opera epica, dalla duplice versione: quella cinematografica di 151 minuti

presentata al Lido e l’altra televisiva (As linhas des Torres Vedras), ovviamente più lunga, che andrà in onda in tre puntate. Un affresco corale che concentra l’attenzione anziché sui grandi personaggi, sulle decisioni degli alti ufficiali e sulle strategie, sulla gente comune su cui cadono le conseguenze della guerra, sugli individui colpiti da perdite, danni e sofferenze. Soldati e contadini, cittadini e prostitute, mendicanti e nobili decaduti. Grande cast internazionale, con star anche in ruoli cameo come Isabelle Huppert, Michel Piccoli, Catherine Deneuve, Chiara Mastroianni, Vincent Perez, Mathieu Amalric, mentre lo stesso Wellington interpretato da John Malkovich è un protagonista poco presente. Ma ci sono anche i portoghesi Nuno Lopes, Victoria Guerra, Carloto Cotta, José Afonso Pimentel, Filipe Vargas, Soraia Chaves, Gonçalo Waddington; il francese Melvil Poupaud – attore feticcio di Ruiz -, la spagnola Marisa Paredes (sempre grande) e tanti altri Scritta dal portoghese Carlos Saboga, già collaboratore di Ruiz, una pellicola in cui rivive l’ombra dell’autore, soprattutto nelle messa in scena, nelle atmosfere rarefatte e soprattutto nella resa visiva che si rifà ai grandi pittori dell’Ottocento, grazie anche alla raffinata regia della Sarmiento, che ha curato l’efficace montaggio con Luca Alverdi. L’altra opera in concorso è “Pietà” del sempre sconvolgente Kim Ki-duk, definito da lui stesso “un film sul capitalismo estremo e sull’impatto che ha sull’esistenza umana e sui rapporti
interpersonali”. Un dramma duro e crudo, quindi, che indaga nei meandri dell’essenza umana per cercarne una salvezza. “Io voglio mostrare il vero volto del denaro – ha dichiarato l’autore -, che non è per sé condannabile: dipende sempre dall'uso che se ne fa. I soldi, come ogni cosa, possono avere un lato positivo o negativo, possiamo farne buon uso, caritatevole, o al contrario perverso”. “Il titolo si riferisce al capolavoro di Michelangelo – ha aggiunto - che ho ammirato in Vaticano le due volte che ci sono stato. L'abbraccio della Vergine al proprio figlio, morto sulla croce, me lo sono portato dietro per diversi anni: lo vedo come un abbraccio all'intera umanità, come la comprensione e la condivisione del dolore. All’inizio doveva esserci un riferimento diretto nel film, ma poi mi è sembrato troppo esplicito, anzi banale: pero erano già state fatte delle foto ispirate a quell'immagine, e una di esse è finita dopo nella locandina”.
Fuori concorso il documentario “It Was Better Tomorrow” di Hinde Boujemas che, ambientato nel caos di una rivoluzione, segue le orme di Aida, una tunisina che deve ripartire da zero e non vuole guardarsi indietro. La donna passa il tempo a spostarsi da un quartiere povero all’altro. Spinta dal desiderio di trovare un tetto sotto cui ripararsi assieme ai figli, Aida non fa alcun caso agli eventi storici che ruotano intorno a lei. Il suo unico scopo è quello di trovare una via d’uscita, ed è convinta che la rivoluzione sia una benedizione. “Ya man aach” (titolo originale) ripercorre il viaggio atipico di questa donna audace e sfrontata nell’intenso intervallo di una rivoluzione nazionale. Tre film nella sezione Orizzonti, l’italiano “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo, ma coproduzione con Svizzera e Germania; l’israeliano “The Cutoff Man” di Idan Hubel e il giapponese “The Millennial Rapture” di Koji Wakamatsu. Il primo narra di un ragazzo e una ragazza rinchiusi in un enorme edificio abbandonato, di un quartiere popolare. L’uno deve sorvegliare l’altra. Lei è la prigioniera per aver fatto uno sgarbo al boss, lui è obbligato dal capoclan di zona a fare da carceriere.
Naturalmente, tra i due – dopo l’iniziale diffidenza – si instaura un rapporto di complicità sempre più intimo, un breve ‘intervallo’ nella loro esistenza. E’ l’esordio nel film di finzione di un noto documentarista, una vera sorpresa per la stampa presente al Lido che l’ha accolto positivamente e apprezzato la bella prova dei due protagonisti, Alessio Gallo e Francesca Riso, sui cui poggia l’intera pellicola. “The Cutoff Man” segue le vicende di Gabi, l’uomo che toglie l’acqua – personaggio ispirato al padre del regista - a chi non paga le bollette. Non c’è scelta: o questo o resta senza lavoro. E quanti più evasori scopre, più soldi guadagna. Come un ladro, si introduce nei giardini sul retro, dove sono i contatori, e come un giustiziere, vaga per le strade. Quando la gente lo vede, lo insulta, lo umilia, lo incolpa per la situazione in cui si trova. Gabi continua il suo lavoro, ha una famiglia da mantenere. Quanto resisterà ancora?
Quindi, una storia di scottante attualità, in cui la crisi e la disoccupazione stanno facendo riemergere quella che ormai consideravamo lontana, la cosiddetta guerra fra poveri che risveglia odi e razzismo, violenza e vendette. E l’acqua e il lavoro sono due dei mezzi più importante per la sopravvivenza di noi tutti. “The Millennial Rapture” (Sennen no yuraku) è ambientato in una piccola comunità, Roji, dove uno dei più famosi scrittori giapponesi, Kenji Nakagami, ha ritratto l’assurdità e la passione della vita degli abitanti. A Roji c’erano uomini belli che avevano combattuto, per vivere, con il sangue del clan Nakamoto, sangue “nobile ma empio”. La levatrice Oryu ha visto tutti questi uomini crescere, vivere e morire. E ora che è vecchia parla con le anime dei morti del clan Nakamoto.
“Vivere è soffrire molto – dice il regista -. Dobbiamo vivere finché moriamo. Per questo non posso fare a meno di creare. Dalla nascita di un bambino alla morte, sento lo sguardo di Oryu e la sento pregare nella Roji piena di voci. La baia che si apre davanti a Roji mi ricorda l’utero”. José de Arcangelo

lunedì 3 settembre 2012

Al Lido Kitano e Assayas in corcorso, l'atteso "Acciaio" di Mordini nelle Giornate degli Autori

Due autori come Takeshi Kitano e Olivier Assayas nella gara ufficiale della 69a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il primo col sequel del film presentato nel 2010 a Cannes, ovvero “Outrage Beyond”, che riporta il maestro giapponese al Lido a quattro anni da “Achille e la tartaruga” (inedito nelle sale italiane) e a 15 dal Leone d’oro per “Hana bi”; il francese con “Après Mai” (Dopo maggio) un film ci riporta agli anni Settanta, tra lotte studentesche e passione cinematografica.

Se “Outrage” (uscito da noi direttamente in dvd) era un divertente yakuza movie in cui una faida tra famiglie rivali scatenava una serie di vendette e omicidi incrociati, il sequel riprende da Othomo (Beat Takeshi) che si trova in carcere mentre i suoi compari lo credono morto. A ‘riportarlo in vita’ è il poliziotto corrotto del precedente film che lo rimette in gioco per far crollare l’equilibrio tra i clan dei Sanno e degli Hanabishi. E se il primo episodio era una corsa violenta mozzafiato che finiva per diventare (quasi) puro esercizio di stile, “Outrage Beyond” parte a bassa quota, puntando sulla riflessione, per riservare gran parte dell’azione e qualche scena pulp-cult nella seconda parte. Il film di Assayas, invece, come da titolo riparte all’indomani del ’68, e precisamente dalla manifestazione del 9 febbraio 1971, una protesta in difesa di due dirigenti della Sinistra Proletaria che, incarcerati, richiedevano lo statuto di prigionieri politici; una manifestazione repressa dalle forze di polizia, che assunsero un atteggiamento drastico e violento nei confronti dei diversi gruppi che cercavano inutilmente di riunirsi, sparando lacrimogeni ad altezza uomo e ferendo in modo grave un militante.
Un buon quadro, a tratti frenetico e potente come gli anni che racconta, ma al contrario di quello che si potrebbe pensare non è un film politico, ma una riflessione più vicina al romanzo di formazione che al ritratto di giovani militanti. Assayas indaga/segue soprattutto due ragazzi, l’ombroso Gilles, studente di pittura, e la sua compagna di scuola Christine (Lola Creton, protagonista di “Un amore di gioventù”). La contestazione è sullo sfondo, e serve a mettere in evidenza sogni, ideali e prospettive di questi giovani che volevano cambiare il mondo ma non sono riusciti. Nelle Giornate degli Autori, un altro atteso film italiano, “Acciaio” di Stefano Mordini, tratto dal romanzo omonimo di Silvia Avallone, con Michele Riondino e Vittoria Puccini. Un dramma cupo che, sfumando la retorica del libro, resta fedele al suo spirito. Un tema che diventa di scottante attualità alla luce dei fatti che riguardano l’Ilva, e visto da due adolescenti (Anna Bellezza e Matilde Giannini) che sognano la fuga da quella sorta di quotidiano inferno. “La fabbrica in sé non uccide – dice il regista -, ma è il contesto esterno, la sua gestione. Per gli operai la fabbrica è la sussistenza. La colpa, nel caso dell'Ilva così come di molte altre realtà (libro e film sono ambientati nella toscana Piombino, negli stabilimenti della Lucchini ndr.), sono gli investimenti che sono stati fatti a monte senza pensare al benessere delle persone, ma solo al guadagno”. “Il romanzo era molto ricco perciò siamo stati costretti a una sintesi – prosegue - e siamo partiti proprio dall'incipit, nel quale si afferma che l'adolescenza è un'età potenziale. Nel corso della vicenda abbiamo cercato di approfondire questo percorso sacrificando tutto ciò che era superfluo”.
“Quando ho letto il libro – ribatte Riondino - mi chiedevo chi fosse realmente Alessio. La pellicola arriva in un momento caldo in cui si parla di inquinamento industriale, ma per me è stata un'occasione per capire molte altre cose. Io ho fatto studi tecnici e conosco bene l'estrazione sociale del mio personaggio, ma sono fuggito da quella realtà. Per interpretare Alessio, però, ho cercato di allontanarmi dai miei pregiudizi. Stefano mi ha convinto a raccontare la realtà degli operai dall'interno perché i miei giudizi erano di chi in una fabbrica non c'è mai stato ed è grazie a lui che ho capito quanto fosse necessario capire il punto di vista degli operai per dare credibilità al mio personaggio. L'unica sua ambizione è quella di crearsi una famiglia e quindi di mantenere il suo posto di lavoro. Per questo motivo ‘Acciaio’ è più attuale di quello che sta accadendo e che viene riportato sui giornali, perché affronta i problemi delle persone”. “Il film – conclude - mi ha aiutato a far pace con una certa realtà industriale, ma la situazione attuale dell'Ilva mi fa indignare ancora una volta. A Taranto la politica si sta disinteressando completamente delle persone, per i politici locali la necessità principale è quella di tirare avanti perciò gli abitanti devono continuare a respirare diossina”.
Fuori concorso il documentario “Anton’s Right Here” del russo Lyubov Arkus, di cui è protagonista un ragazzo autistico. La sua vita si divide fra un appartamento dalle pareti scrostate alla periferia di una metropoli e un ospedale psichiatrico. Anton è sul punto di essere ricoverato in un istituto neuropsichiatrico, un luogo in cui le persone con la sua diagnosi non vivono a lungo. L’autore, la cinepresa, il protagonista. La distanza fra i tre elementi si riduce con ogni minuto che passa, e l’autore deve entrare nell’inquadratura e diventare un personaggio della storia. Ma questa non è una storia su una persona che ne ha aiutata un’altra, bensì su una persona che si è riconosciuta in un’altra, su come in ognuno di noi vive un “altro” che deve essere distrutto ogni giorno dentro di noi se vogliamo sopravvivere.
L’altro film fuori gara, l’americano “Disconnect” di Henry-Alex Rubin con Jason Bateman, Alexander Skarsgard (figlio di Stellan e noto interprete del televisivo “True Blood”e di von Trier). Un’opera che fonde tante storie che parlano di persone alla ricerca di legami umani nel mondo sempre più connesso di oggi (leggi social network e simili). Intense, strazianti e toccanti, le storie si intersecano con colpi di scena, che mettono a nudo una realtà scioccante, spesso inquietante, nel nostro uso quotidiano della tecnologia che, facendo da mediatrice, definisce i nostri rapporti e, in fin dei conti, le nostre vite. Nella sezione Orizzonti due cinematografie lontanissime fra loro, quella danese di “A Hijacking”, diretto da Tobias Lindholm, e quella argentina di “Leones” firmato Jazmin Lopez. Il primo prende spunto dall’attualità per costruire pian piano un avvincente thriller, teso e crudo. Ispirato alle vicende vere delle navi cargo danesi Danica
White e Cec Future, sequestrate dai pirati nell’Oceano Indiano, rispettivamente nel 2007 e nel 2008, il film narra la vicenda del cargo MV Rozen, proveniente da Copenaghen e diretto in India. Però, quando si prepara ad attraccare nel porto di Mumbai, la nave viene assaltata e sequestrata da un gruppo di pirati somali. E tre dei sette uomini dell'equipaggio, tra cui il cuoco di bordo Mikkel – il solo a parlare inglese -, vengono chiusi in una cabina ed usati come merce di scambio per ottenere un riscatto dalla società di import-export cui la nave fa capo.
La pellicola argentina è un ambizioso thriller esistenziale, sulle orme di Antonioni, che narra la storia di un gruppo di amici (cinque adolescenti) che si aggira per un bosco – in cui sono capitati per ‘casuale’ incidente mentre erano diretti al mare - come un branco di leoni. Smarriti e persi nei loro giochi di parole, si seducono a vicenda entrando e uscendo dal territorio adulto, e cercando disperatamente di evitare la loro storia già scritta. Incubo (adolescenziale) o realtà? Senz’altro un raffinato esercizio di stile che può risultare persino inutile per chi non riesce ad entrare nel ‘gioco’. José de Arcangelo

domenica 2 settembre 2012

Venezia 69: Malick in concorso ma assente, Bier fuori concorso ma presente con i suoi protagonisti

Susanne Bier, fuori concorso, lascia il dramma realistico duro e crudo, per la commedia romantica – anche se dagli spunti drammatici -, mentre lo sfuggente Terrence Malick, dopo il trionfo a Cannes 2011 con “Tree of Life”, ‘manda’ il suo film a Venezia (e una sola immagine ufficiale), affidando la presentazione a due degli interpreti, l’ex Bond girl Olga Kurylenko e la nostra Romina Mondello. Il titolo del film sentimentale firmato dalla regista danese, premio Oscar per “In un mondo migliore”, parafrasando (e rovesciando) una vecchia canzone dei Beatles (nel titolo internazionale inglese) è “Love is All You Need”; mentre quello dell’americano è “To the Wonder” (ovvero a meraviglia, al miracolo, forse, ‘al meglio’), ed è un’opera

meno riflessiva e ‘filosofica’ ma più narrativa – soprattutto nella prima parte – anche quando riprende i temi, del resto cari al regista, dell’amore tra uomo e donna, della paternità, della morale e della fede. E’ stato detto subito dopo che la sua nuova opera è discontinua e che, dopo una folgorante prima ora, finisca poi per incepparsi nella riflessiva indagine psico-filosofica della parte finale, quando l’amore si sbriciola e si materializzano i fantasmi della nostra società contemporanea, dalla malattia all’inquinamento, dal degrado alla perdita della fede. Inoltre, la scelta di far parlare ogni interprete nella sua lingua - idea in partenza positiva - sembra si dimostri in questo caso una scelta poco coerente e funzionale. Anche perché oltre il protagonista Ben Affleck e la Mondello, ci sono Javier Bardem (il prete), Rachel McAdams e la stessa Kurylenko, ucraina ma radicata in Francia, quindi parla in francese, anche perché tutta la prima parte è ambientata tra Parigi e Mont Saint-Michel. Un capolavoro mancato? Staremo a vedere quando arriva in sala.
La Bier si offre e ci offre una godibile vacanza a Sorrento, in compagnia di Pierce Brosnan e Tryne Dyrholm (già vista nel precedente film della regista), per i preparativi delle nozze dei rispettivi ‘figli’, e presenti al Lido con l’autrice. Scritta da Anders Thomas Jensen, è una commedia corale che, volente o nolente, ha più di un riferimento per ambientazione, toni, situazioni e trama. Da “Che cosa è successo tra tuo padre e mia madre” Billy Wilder a “Mamma Mia!”, da Eric Rohmer a Lars von Trier (produttore dei primi film della Bier) e il suo dogma (non più nei mezzi ma nella messa in scena). Quindi un gradevole spettacolo senza eccessi ne ammiccamenti, tranne quelli reali della spettacolare Sorrento.
La giovane coppia è formata da Patrick (Sebastian Jessen), figlio di un imprenditore ortofrutticolo danese proprietario di una grande tenuta nella cittadina campana, e Astrid (Molly Blixt Egelind), la cui madre ha appena subito l’asportazione di un tumore al seno, e ha affrontato la conseguente chemioterapia. Le loro famiglie vivono entrambe situazioni difficili: il padre di Patrick, Philip (Brosnan), non ha mai superato la perdita della moglie in un incidente stradale, e si chiude ad ogni possibile rapporto sociale; mentre Ida (Dyrholm), madre di Astrid, deve convivere sia con l'incertezza sul suo stato di salute - col rischio di una possibile ricaduta - che con la recente scoperta dell’infedeltà del superficiale marito. Incontratisi quasi per caso, Philip e Ida partono assieme per Sorrento, dove parteciperanno, insieme con una variegata galleria di personaggi, al ricevimento precedente il matrimonio nella residenza di Philip. Il tutto, come da programma, tra equivoci e sorprese. Fuori concorso anche l’italiano “La nave dolce” (dal 8 novembre in sala, grazie a Microcinema), documentario di Daniele Vicari sulla nave Vlora che, nel 1991, portò a Bari 21mila albanesi e che aveva già ispirato il non dimenticato (e pluripremiato)
“Lamerica” di Gianni Amelio, autore del recente “Il primo uomo” che ha ricevuto oggi, proprio a Venezia, il Premio Bianchi del Sindacato Giornalisti Cinematografici Italiani. Vicari ha detto di essere stato spinto dalla Puglia Film Commission che voleva ricordare lo sbarco avvenuto vent’anni fa con un film di un certo impatto e poi ha scoperto che la vicenda si era più interessante di quello che sembrava. Inoltre, aveva già finito il montaggio quando ha cominciato le riprese di “Diaz”, anche se il documentario è stato ultimato dopo. L’altro film in concorso della giornata è l’israeliano “Fill the Void” di Rama Burshtein e Yigal Bursztyn e narra la vicenda di Shira, la figlia più giovane di una famiglia ebrea ortodossa di Tel Aviv, promessa ad un coetaneo della stessa estrazione. La ragazza è felice ed eccitata perché attende con ansia l’evento, ma
durante la festività del Purim, la sorella maggiore muore di parto dando alla luce il suo primogenito, e il matrimonio passa in secondo piano. Anzi, sarà forse costretta a sposare il cognato rimasto vedovo. Un dramma che coinvolge e colpisce perché non è solo ambientato all’interno della comunità ebrea ortodossa, ma visto attraverso la sua ottica, in modo obiettivo e senza retorica. Dove il tempo sembra essersi fermato, insieme ad usi e tradizioni, tanto da sembrare un ritratto fine Ottocento che ricorda certi personaggi di Jane Austen.
Nella sezione Orizzonti “Boxing Day”, scritto, fotografato, montato e diretto dal britannico Bernard Rose (autore del primo “Candyman”) con Danny Huston e Matthew Jacobs. Un dramma contemporaneo che man mano diventa claustrofobico, quasi un thriller, e fa parte di una trilogia voluta dall’autore e ispirata ai romanzi di Tolstoj. Dal racconto “Padrone e servo”, parte questo originale road movie ambientato il giorno di Santo Stefano (del titolo) attraverso le strade di Denver, dove un imprenditore-speculatore sta visionando delle case pignorate dalle banche per comprarle a prezzo stracciato e rivenderle con enorme profitto. A portarlo da una casa all’altra, il fedele e loquace autista Nick, ex alcolista divorziato, che cerca ad ogni costo instaurare un rapporto. L’altra pellicola della sezione è “Low Tide” di Roberto Minervini, coproduzione tra Usa, Italia e Belgio, con Melissa McKinney, Daniel Blanchard e Vernon Wilbanks. Ritratto di un dodicenne, che
vive una vita separata dalla madre single. Infatti, il ragazzo trascorre la giornata in solitudine, mentre la donna lavora e poi esce con gli amici. La solitudine è per il ragazzo fonte di libertà ma anche causa di sofferenza. Le sue esplorazioni fanno gradualmente emergere il cupo contrasto tra le regole della società e le leggi della natura. Ma presto il delicato equilibrio del mondo interiore del ragazzo viene infranto da eventi imprevisti. José de Arcangelo