domenica 28 giugno 2009

Alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro è la giornata di Alberto Lattuada


PESARO, 28 – Oggi è la giornata dedicata ad Alberto Lattuada, uno dei maestri - finalmente riconosciuto - del nostro cinema, forse oscurato da altri ma sottovalutato e, purtroppo, dimenticato negli ultimi trent’anni quando, come altri illustri colleghi, era passato alla televisione. Ha preceduto il convegno che si è svolto oggi, e di cui parleremo più a lungo nei prossimi giorni, la proiezione in piazza di uno dei suoi film più ambiziosi e incompresi degli anni Settanta: “Cuore di cane” (1976), tratto dall’omonimo romanzo di Bulgakov, adattato per il grande schermo dallo stesso regista. Un film allora sottovalutato, per fortuna non da tutti, che però è pressoché caduto nell’oblio per oltre tre decenni. Un dramma, forse in anticipo coi tempi, sebbene ambientato nel passato, nella Russia dei primi anni della Rivoluzione sovietica. E Lattuada va oltre il romanzo – come disse allora Callisto Cosulich su Paese Sera - “concedendogli una maturazione ignota”. L’uomo ritornato cane diventa simbolo della rivolta contro “una scienza spesso irresponsabile”. Che ancora (e soprattutto) oggi è oggetto di continue polemiche e dibattiti.

L’altra sera si è conclusa, invece, la retrospettiva-omaggio a Paolo Gioli con l’ultimo programma ‘Storie/Memorie”, seguito da una tavola rotonda con l’autore, Adriano Aprà, Bruno Di Marino, Giacomo Daniele Fragapane e Mark McElhattan. Il suo cinema – anche se Gioli preferisce che si dica i suoi film – è un ‘lavoro’ di suggestioni, di rimandi, che induce a ricordare, rimuovere e recuperare sensazioni ed emozioni nascoste nella nostra mente/memoria. Se le ‘visioni notturne’ della notte precedente giocavano sulla falsariga di Eros e Thanatos, rielaborando e reinventando immagini comunemente denominate pornografiche – che a qualche ipocrita-nostalgico può aver dato ancora fastidio -; “Anonimatografo” (1972), “I volti dell’anonimo” (2009), “Volto sorpreso al buio” (1995) e “L’operatore perforato” (1979) sono sempre frutto di una sperimentazione pura e artigianale, in senso positivo, perché è il metodo dell’artista che (ri)elabora con ‘i propri mezzi’. In questo caso con vecchie foto, lastre e spezzoni che altrimenti sarebbero rimasti nel dimenticatoio e che invece così riacquistano nuova vita e inaspettata neoespressione, proiettandosi addirittura nel futuro. Non è un caso che Gioli ‘giochi e provi’ (con) tutti i dispositivi della macchina da presa ‘smontandola’ letteralmente, rimontandola e ‘reinventandola’, come fa anche con le sue immagini e con quelle degli altri, spesso anonimi anch’essi.

Dice Fragapane: “Forse la miglior definizione del cinema di Gioli l’ha – inconsapevolmente – coniata Ludwig Wittgenstein, allo scopo di circoscrivere la necessaria, ineliminabile e ‘fondante’ dimensione convenzionale del linguaggio. Per Wittgenstein ogni problema di natura linguistica è descrivibile mediante un ‘esercizio mentale’. Un esercizio mentale è un ‘congegno’ per mezzo del quale, all’interno di una determinata configurazione culturale, si può verificare la risposta cognitiva a un dato problema in una data situazione. La logica del gioco vi concorre in maniera determinante (il filosofo austriaco ricorre altrettanto frequentemente alla nozione di ‘gioco linguistico’) nella misura in cui delimita il campo d’azione, traccia i confini dell’esercizio e definisce le su regole di funzionamento – e, dunque, ad esempio, la meccanica dell’inizio-svolgimento-fine del processo di conoscenza. I film di Gioli rispecchiano sostanzialmente questo schema cognitivo”.

L’ultimo film “Children” (2008) non è stato proiettato/accettato nella retrospettiva dedicata all’artista dal Moma di New York, forse perché nel ‘gioco’ stavolta è stata coinvolta (tramite un vecchio set fotografico) la famiglia di JFK – Jackie inclusa - e soprattutto la figlia, al momento della manifestazione nella lista dei candidati alle elezioni.

Ancora sorprese dal cinema israeliano contemporaneo con “Year Zero – Anno zero” di Joseph Pitchhadze, un’amara commedia in bilico tra problemi esistenziali e materiali. Le storie incrociate di Michal e Reuben, una coppia di quarantenni che non vuole avere figli, ma lei scopre di essere incinta; un cieco di mezza età che vive col suo amato cane Maxime; Anna che viene sfrattata col figlio di dieci anni e perde il lavoro nella stessa giornata; Kagan, un trentenne solitario e introverso, che sta registrando un programma sul padre, fondatore (in anticipo) del movimento punk in Israele; Matti, un venditore d’armi che sembra di offrire ad Anna la possibilità di evitare di prostituirsi…

Subito dopo, il duro e crudo “Or/Mon Tresor” (Or/Tesoro mio) di Keren Yedaya (2004), un dramma di sconvolgente attualità – non solo israeliana -, doloroso e sconvolgente, inedito (per un pubblico occidentale) e disarmante anche per lo spettatore. Ruthie e Or, madre e figlia diciassettenne, vivono a Tel Aviv. Ruthie si prostituisce da vent’anni e la sua salute peggiora sempre di più. Or, che inutilmente ha provato a levare la madre dalla strada, è giovane, bella, ha degli amici e un ragazzo. La sua quotidianità è fatta di piccoli lavori: lavapiatti in un fastfood, pulizie delle scale, raccolta delle bottiglie; senza dimenticare la scuola. Ma dopo l’ennesima visita in ospedale a sua madre e ‘dell’intimidazione’ a lasciare il suo ragazzo, Or decide di cambiare vita ma…

Presentato ieri anche il documentario di Andrea Caccia “Hospice” che in meno di mezz’ora ci riporta dentro quei luoghi dove, apparentemente, si attende la morte. Infatti, l’Hospice è una struttura intraospedaliera che ha sia le caratteristiche della casa, sia quelle dell’ospedale. E’ un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni mezzo idoneo al fine di migliorarne la qualità della vita. “Mi piace pensare – confessa l’autore – a questo film come a una sorta di viaggio. In un mondo sconosciuto (ai più ndr.). In uno spazio non esplorato. Un viaggio alla fine di un corridoio. Alla ricerca di un respiro. Di un segnale di vita invisibile, da raccogliere e custodire attraverso lo sguardo. Per comprendere, preservare, raccontare il ‘pianeta’ Hospice”. Appunto. E il tutto raccontato con la delicatezza e la sobrietà di un ‘visitatore’ che non invade né pretende, anche quando il film è stato realizzato su commissione per un convegno. Anzi, evita tutta la ‘formalità’ sociale e scientifica, dicendo molto di più di un tg specializzato.

Nella stessa sezione Bande à part sono stati proiettato il documentario malese “Malaysian Gods” di Amir Muhammad. Nel settembre 1998, Anwar Ibrahim fu dimesso dalla carica di vice Primo Ministro della Malaysia. La sua espulsione e il successivo processo per corruzione e sodomia causò un’ondata di proteste da parte dei suoi sostenitori e di coloro che erano contro l’autorità del governo. Il film pone lo sguardo sulle tante proteste che ebbero luogo nell’anno successivo al ‘licenziamento’ e privilegiando le interviste alle persone che oggi vivono, lavorano e visitano i luoghi delle manifestazioni. Proprio per questo risulta più obiettivo e interessante anche per il pubblico occidentale.

Ma anche “Blind Pig Who Wants to Fly – Il porco cieco che vuole volare” di Edwin (Indonesia, 2208), una commedia sentimental-grottesca-esistenziale, trasgressiva e romantica al tempo stesso. Linda e Cahyono si incontrano e riaccendono la loro amicizia dell’infanzia; Halim dice a Verawati che vuole prendere un’altra moglie; Salma riesce ad andare nello show televisivo ‘Planet Idol”; i gay Romi e Yahya si danno a pratiche sessuali; Opa muore e Romy sparge le ceneri insieme a Cahyono che ha finalmente iniziato ad alzare lo sguardo.

Il film, secondo l’autore, “racconta di speranze che non possono mai realizzarsi. La speranza di non essere un maiale cieco che vuole volare. La speranza di non essere un cinese in Indonesia. Dietro queste storie c’è la ricerca dell’identità”. Infatti, Linda è cinese e anche il suo amico viene discrimanto/punito.

In occasione del premio speciale a Marco Bellocchio è stato presentato “…Addio al passato”, un documentario sulla lirica, realizzato dal regista di “Vincere” qualche anno e che ha introdotto un incontro/chiacchierata su cinema e musica.

L’ultimo film in concorso è un documentario che ci tocca da vicino: “Fixer: The Taking of Ajmal Naqshbandi” di Ian Olds (Usa-Afghanistan, 2009) perché ricostruisce la storia del giornalista-interprete afgano Ajmal Naqshbandi, sequestrato insieme al giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo, ma che anziché venir liberato come il nostro connazionale (per lui non sono state accettate le richieste dei sequestratori) è stato ucciso dai talebani. Il film segue la (precedente) collaborazione di Naqshbandi e il giornalista americano Christian Parenti, per poi ricostruire la vicenda del sequestro attraverso trattative, filmati e testimonianze, tra cui quella del padre e dei colleghi di Ajmal.

“Quando sono venuto a conoscenza della sorte di Ajmal – dice il regista -, la mia prima reazione è stata di abbandonare completamente il progetto. Ma più pensavo a ciò che avevo già filmato con lui, più ero certo che dovevo portarlo a termine. C’è un insieme di forze che hanno condotto alla sua morte. Capire quali siano state è diventata la linea guida del film”.

E stasera c’è l’attesa serata di premiazione in Piazza. Ne parleremo domani.

José de Arcangelo

sabato 27 giugno 2009

Alle Mostra del Nuovo Cinema, l'altra faccia di Israele e lo psicothriller di Felice Farina

PESARO, 27 - Ancora un documentario di grande impatto e lucidità, per la monografica sul Cinema Israeliano Contemporaneo, “Check Point” di Yoav Shamir, girato nel corso di tre anni – tra il 2001 e il 2003 -, con il sostegno finanziario della stessa Israel Film Fund. Uno sguardo compassionevole e al tempo stesso imperturbabile sulla vita che si svolge nelle zone di confine che separano Israele dai territori palestinesi. I posti di blocco dove si controlla il passaggio di uomini, donne e bambini lungo alcune delle strade tra Israele, Gaza e la Cisgiordania. Fra tensione e sorrisi, fra tenerezza ed umorismo, fra paura e rabbia, un cineverità che coinvolge e aiuta a ‘vedere’ una drammatica realtà molto da vicino.

“Ho realizzato questo film per il mio popolo – dice il regista -, la mia famiglia e gli amici che rappresentano quella parte della società israeliana che ha scelto di non sapere cosa succede così vicino a noi”.

Particolarissimo e personalissimo è invece “The Confessions of Roee Rosen” che inizia con l’artista che annuncia la propria morte imminente e rinnega una carriera piena di bugie, scandali e false identità. Le confessioni sono trasmesse da tre portavoce – tre lavoratrici straniere che risiedono in Israele – che recitano tre monologhi in ebraico, una lingua che non conoscono. Le oratrici dunque ignorano il significato dei testi, una sorta di ibrido: basati sì sulla vita di Rosen ma al contempo parzialmente plausibili come dichiarazioni delle stesse lavoratrici immigrate.

Un’altra commedia arriva dall’ebreo-georgiano Dover Kosashvili – di cui in Italia abbiamo visto e apprezzato qualche anno fa “Matrimonio tardivo” -, “Dono dal cielo”. Una sorta di commedia all’italiana in salsa georgiana, visto che questi israeliani così particolari portano avanti quel mix esplosivo tra due popoli e due culture: esuberanti e appassionati, senz’altro tipicamente mediterranei.

Un gruppo di addetti ai bagagli, immigrati dalla Georgia, progettano un furto di diamanti ai danni della Shtrenchman Srl., una società che importa ogni settimana due sacchetti di pietre grezze a Tel Aviv per mezzo di una linea aerea sudafricana. Si devono però assicurare che nessuno noti la scomparsa dei diamanti dopo l’atterraggio dell’aereo. Ma realizzazione del grosso colpo – un po’ ricorda “Operazione San Gennaro” di Dino Risi ma non solo – si complica a causa degli intricati e numerosi legami sentimentali in cui i protagonisti di questa ‘famiglia allargata’ sono coinvolti. In pratica sette storie una dentro l’altra che non possono provocare altro che equivoci e conflitti a non finire. Finale aperto, e a sorpresa.

Impossibile, infine, non segnalare “Description of a Memory” di Dan Geva (2006) – proiettato stamattina -, una lucida riflessione attraverso i segnali/segni della storia e del proprio passato, con cui il regista non solo si confronta con “Description of a Struggle” di Chris Marker (1960), ma anche con la sua propria storia e quella del suo paese di origine. Un viaggio in parallelo tra memoria e attualità, tra indagine e scoperta, tra cinema e suggestioni (da esso provocate).

“Il mio viaggio in Israele – afferma l’autore – non si limita all’aspetto visuale e simbolico del film-poema di Marker, si addentra anche nelle parti filmiche più nascoste, cercando disperatamente di decostruire e ricostruire i frammenti evanescenti del messaggio criptico, profetico e impegnativo che il regista francese ci ha lasciato”. E in questo viaggio – a tappe/ricordi – siamo coinvolti anche noi spettatori e il nostro passato, così vicino così lontano.

Ma ieri è stata la giornata del sorprendente “La fisica dell’acqua” di Felice Farina, un thriller psicologico visto attraverso gli occhi del bambino protagonista. Un’indagine della/nella mente di un ragazzino a cui è stata negata/cancellata la verita. Quindi, fra realtà e allucinazioni, fra trauma e ossessioni, un dramma che parte dalla fine per seguire le tracce di un ‘giallo’ che si rivelerà sconvolgente ed emozionante anche per lo spettatore.

Un modo nuovo per indagare su temi a noi vicinissimi come sentimenti e psiche, paure e rimossioni, il tutto raccontato con un gusto dell’inquadratura e dell’immagine che raramente troviamo nel nostro cinema, anche perché in questo caso la commistione di generi è di alto livello e di grande efficacia. Indegna pensare che Farina abbia dovuto aspettare sei anni per finire il suo film – in mezzo un fallimento, la partecipazione di Rai Cinema che non si è più occupata – e che, dopo averlo ‘liberato’ e finito, con il prezioso appoggio della montatrice Esmeralda Calabria, si sia trovato senza una distribuzione. Ora, grazie a Renzo Rossellini, sembra averla trovata. La sua uscita è assicurata, ma è presto per dire quando.

Per il concorso, abbiamo visto l’altra sera “Medicine for Melancholy” di Barry Jenkins, una storia d’amore nata da un incontro casuale e dall’avventura di una notte diventa un confronto tra due ventenni afroamericani su questioni di classe, di cultura, di identità e su cosa significhi appartenere a una minoranza etnica a San Francisco. Un dramma sobrio e delicato che a tratti ricorda il primo Spike Lee, quello di “Lola Darling”, non solo per l'uso del bianco e nero (il colore decolorato), ma soprattutto nella struttura e nella ricerca dell’inquadratura.

Il regista dice a proposito della sua opera prima: “Racconta quanto oggi sia complesso appartenere a una minoranza in declino nella maggiori città d’America e nei centri culturali. Essere afroamericani richiede allora una forza maggiore sia per far valere la propria identità che per confrontarsi con le minoranze storicamente meno rappresentate”.

Ieri, invece, è toccato a “The Day After” di Lee Suk-gyung (2008), un dramma femminile – forse troppo parlato nella parte centrale – su divorzio, lavoro (professione), figli e solitudine. Una scrittrice di mezza età, divorziata da poco, è depressa e spesso in conflitto con la figlia adolescente. Durante un viaggio di lavoro divide la stanza con un’altra divorziata. Le due donne passano la notte bevendo birra e dividendo storie mai raccontate prima. Decideranno che è ora di cambiar vita.

“Per chi abita vicino alla città più moderna della Corea del Sud – dice l’autrice -, il ritmo di vita è così rapido da far abituare le persone comuni a nascondere le proprie sofferenze e a indossare maschere sociali”.

José de Arcangelo

venerdì 26 giugno 2009

Pesaro 45°. Israele tra pace e guerra, dramma e thriller


PESARO, 26 – Ieri è stata la volta della tavola rotonda sul Cinema Israeliano Contemporaneo, con autori, registi, critici e studiosi, alla 45a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Un’occasione unica per conoscere i retroscena produttivi, culturali ma anche socio-politici e religiosi di un paese che resta ai più ancora sconosciuto, al di là e al di fuori dell’eterno conflitto israelo-palestinese.

“La situazione che si è creata alla fine del XX secolo – esordisce Ariel Schweitzer, storico del cinema, critico e docente universitario -, una profonda crisi di finanziamenti legata al disinteresse delle istituzione statali, ma anche da parte del pubblico, nei confronti del cinema nazionale ha fatto scendere la produzione a 5/6 film all’anno. Un gruppo di cineasti decise allora di organizzarsi e indire una serie di manifestazioni politiche e azioni molto spettacolari e mediatiche al fine di modificare la politica governativa in materia cinematografica. Nel 2000 il governo vota una nuova legge per il cinema che garantisce il raddoppiamento dei finanziamenti governativi a favore degli istituti di produzioni cinematografica. Attualmente il budget è sui 12milioni di euro, ma ogni anno oscilla tra gli 11 e i 14milioni di euro, fatto che garantisce una certa stabilità nel settore. In secondo luogo è stato firmato un’accordo di coproduzione con la Francia, elaborato dal Centre National de la Cinématographie (CNC) e dal Consiglio israeliano del Cinema. Ora la produzione si aggira sui 25 lungometraggio di fiction e di un centinaio di documentari all’anno. C’è stato anche uno sviluppo delle scuole di cinema che oggi sono 17, una cifra rilevante per un paese abbastanza piccolo e dove si laureano circa duecento studenti all’anno. Molti di loro, ovviamente, lavorano per la tivù o nel settore audiovisivo, visto che i giovani cineasti non sono più disposti ad aspettare 10/15 anni per poter realizzare l’opera prima, ma almeno 3 o 4 anni”

“L’essenza di questa tragedia – afferma il giornalista Umberto Di Giovanangeli, da oltre vent’anni testimone privilegiato del conflitto israelo-palestinese – è il dialogo; nella specificità non è la lotta del bene contro il male, del torto contro la ragione, ma lo scontro di due diritti, due ragioni ugualmente fondate. La pace non può essere calata dall’alto, o imposta dall’esterno. Sono importanti sia il ruolo dell’Onu, sia quello di Obama, ma è soprattutto importante il ruolo della cultura, del riconoscimento dell’altro da sé, nell’identità dell’altro. Un crinale molto complesso che viene affrontato ora dal cinema, ma prima ancora dagli scrittori israeliani. Si tratta di un fatto doloroso, di rinunciare ad un ‘pezzo di terra’, ma bisogna rifletterci su noi stessi per radicalizzare l’idea del dialogo. La nascita di Israele è stata nel dolore, nella catastrofe di un altro popolo. Per tanto tempo la politica che esprimeva Golda Meir era ‘La Palestina è terra di un popolo per un popolo senza terra’. La cinematografia israeliana sta compiendo questo lavoro per far capire che il dialogo non è possibile se non si pensa alle fondamenta. Non offre una visione consolatoria e accattivante di Israele, non (gli) serve una visione europea. Israele non è più azkenazita, quella dell’élite culturale che mirava ai nostri valori (europei ndr.). Ha subito profonde modifiche demografiche e attraverso il cinema viene fuori tutta la sua complessità. Non bisogna dimenticare che oggi il terzo partito di governo è formato da una comunità russa diventata importante; ricordare che una minoranza fortemente presente rappresenta l’altra faccia del fondamentalismo islamico; che dietro l’assassinio di Rabin non c’erano solo fanatici ma la roccaforte zelota. Bisogna pensare che si tratta di un altro popolo, non solo di una terra espropriata. Una storia che la cultura nazionale comincia oggi a ripensare”.

“Tutte le osservazioni vanno discusse – dichiara il regista Raphael Nadjari -, bisogna abbandonare la visione strettamente politica per un approccio diverso, non dimenticare i punti di vista altrui. Mettere in discussione e rielaborare, condividere il processo (di pace ndr.) non il risultato. Il cinema israeliano propone affermazioni molto forti, spesso contraddittorie, anche se non tutte sul conflitto, ma rimanda una cosa per tenere in vita tutte le cose, tutte le posizioni. Bisogna metterle insieme per decidere, fare uno sforzo per dare un contributo. Tutte le voci vanno ascoltate, ognuno può esprimersi nel modo in cui desidera e confrontarsi con gli altri. Riuscire ad apprezzare qualcosa di diverso da noi, definire se stessi e la propria opera. Il cinema è forse il linguaggio più straordinario per riuscire finalmente a dire certe cose, allontanandoci dalla visione politica del mondo, e scoprire la forza del dibattito civile. E sarà in costante evoluzione finché tutti avranno diritto alla parola”.

Naturalmente si è parlato anche di molto altro, della nuova espressione nella video arte, di un cinema che affronta il conflitto, anche criticamente verso la stessa Israele, da più punti di vista, e altri problemi non indifferenti come il ‘consumismo’, la religione, la famiglia. Ogni argomento e ogni problema, attraverso mezzi di espressione e linguaggi diversi, dalla satira al grottesco, dal documentario alla metafora; della necessità di scoprire altri ‘generi’ e non solo il dramma (familiare) o il film di guerra, come afferma Danny Lerner di cui proprio ieri abbiamo visto “Frozen Days”, un thriller il cui riferimento è Roman Polanski (da “Repulsion” in poi) ma che potrebbe essere una sorta di “donna che visse due volte” (di Alfred Hitchcock) nell’attuale Israele. O, se volete, un polar o un giallo che diventa specchio distorto della schizofrenia della società israeliana, divisa tra voglia di pace e guerra permanente.

Infatti, abbiamo visto anche “Close to Home” di Dalia Hager & Vidi Bilu (2005) che narra la storia di due ragazze poco più che diciottenni, Smadar e Mirit, dai caratteri completamente opposti che stanno prestando servizio militare con il compito di perlustrare le strade del centro di Gerusalemme e controllare i documenti dei (presunti) cittadini palestinesi.

“Le protagoniste – affermano le registe – prestano servizio militare operando controlli di polizia, perché una di noi ha realmente svolto quel tipo di attività. Attraverso quell’esperienza è stato possibile mostrare il nostro punto di vista sull’occupazione israeliana di questa città in conflitto”.

E per ciò vengono fuori contraddizioni e disagi, dubbi e speranza, come accade spesso ad ognuno di noi, che non siamo i governanti che ci rappresentano e ci governano. Il film colpisce proprio perché ci mostra due ragazze che vorrebbero vivere la loro vita come tutte le altre ma che devono essere severe e diffidenti verso gli altri, anche quando non ne hanno voglia.

D’altra parte abbiamo visto il toccante ed illuminante documentario di Barbara Cupisti “Vietato sognare” che affronta il conflitto israelo-palestinese e la speranza di pace, partendo da due testimoni/protagonisti di eccezione. L’ex combattente palestinese Ali Abu Awwad, uno dei leader del movimento pacifista “Al Tariq”, e l’ex soldato israeliano Elik Elhanan, portavoce dell’associazione “Combatants for Peace”, cercano una soluzione al conflitto con il dialogo. E lo fanno insieme, tanto che sono diventati ‘amici’. Un film che, prodotto da Rai Cinema, non ha avuto ancora un passaggio televisivo, segno che la nostra tivù pubblica ‘usa i nostri soldi’ per poi non farci vedere le (rare) cose importanti e meritevoli che produce. Il film – che ha già ottenuto qui a Pesaro il premio di Amnesty International Italia – non ha ancora una distribuzione (tranne nel circuito Arci) e non è stato ancora mandato in onda. Fatto che è accaduto anche a “Madri”, il precedente documentario della Cupisti – presentato al Festival di Venezia – e di cui questo è l’ideale proseguimento.

José de Arcangelo

giovedì 25 giugno 2009

La Mostra del Nuovo Cinema finalmente in Piazza, tra Israele e una Madrid inedita


PESARO, 25 – Dopo aver visto finalmente in Piazza (dopo tre giorni di maltempo) il secondo film di finzione di Raphael Nadjari “Tehilim – Salmi”, l’intenso dramma familiare che affronta anche gli argomenti delle scomparse (e lutti) e della religione, delle contraddizioni e del paradosso di un paese dalla cultura (provenienza) ‘multietnica’ e che, al tempo stesso vorrebbe restare monolitica (come ha preteso per quasi 50 anni, dal 1948 alla fine del Novecento); abbiamo visto il primo esempio di mix tra cinema e video-arte firmato Ran Slavin “The Insomniac City Cycles”. Un’opera, quindi, particolare ed alternativa, di ricerca e sperimentazione che colpisce perché è una sorta di somma di tutte le arti, e di conseguenza di tutti i media. Un lungometraggio che fa della città (Tel Aviv soprattutto, ma anche Shanghai e Changdu) non un oggetto qualsiasi, ma una protagonista assoluta che si allarga, si sdoppia, si muove, prende vita. Lo spunto, ovvero la storia è una sorta di giallo-enigma che ricorda lontanamente “Apri gli occhi” di Amenabar (poi “Vanilla Sky” nella versione americana), perché lo spettatore dovrà aspettare la fine per scoprire il chi e il perché dell’intera vicenda, che è comunque ‘traccia’ per un’espressione artistica visiva e sonora ‘nuova’, dove i dialoghi ci sono soltanto quando servono.

A Tel Aviv, un uomo soffre di insonnia e cerca di ricordare se davvero qualcuno gli abbia sparato in uno dei parcheggi sotterranei della città. L’uomo non riesce a capire più cosa sia vero e cosa sia un sogno, mentre la metropoli assume le sembianze della condizione umana.

Un (non) film d’autore a tutti gli effetti, anche perché il regista è un artista polifacetico – musicista e videoartista, lavora tra cinema, musica digitale, acustica e pittura, ed ha partecipato alla Biennale Architettura di Venezia 2004, per il padiglione israeliano – che ipnotizza e trascina in un viaggio che coinvolge i nostri cinque sensi. Ma, probabilmente, non il grande pubblico.

“E’ un’opera senza fine – dichiara il regista, che infatti l’ha rimontato e rielaborato più volte -, uno spazio aperto che accoglie lo spettatore e lo lascia libero di volare tra inquadrature, effetti visivi e suoni per costruire il proprio viaggio onirico. E’ un film di fantascienza noir sperimentale”.

Nella mattinata di oggi abbiamo visto il cortometraggio di un’altra autrice israeliana, Maya Zack, che lavora nel mondo della videoarte confondendo/mescolando il linguaggio cinematografico con altre forme di espressione. “Mother Economy” è infatti un’opera che segue le azioni di una casalinga all’interno di una casa durante il nazismo. La donna, in una sorta di trance, si muove, organizza, effettua calcoli, elabora. E il film riflette sulla condizione, sulle capacità e sulle numerose risorse dimostrate dalle donne anche durante un periodo così violento.

“Attraverso la protagonista – confessa l’autrice – ridefiniamo il tradizionale ruolo femminile della semplice casalinga: essa si trasforma in scienziato meticoloso e artista devoto del proprio territorio”.

A seguire l’interessante tavola rotonda sul Cinema Israeliano Contemporaneo – a cui la Mostra ha dedicato un interessantissimo volume omonimo (Saggi Marsilio) - da cui sono venute fuori riflessioni e argomenti tanto interessanti quanto complessi. Ne parleremo a lungo domani.

Presentato ieri anche il terzo film in concorso, “La sirena y el buzo” (t.l. La sirena e il palombaro) di Mercedes Moncada Rodriguez, coprodotto da Spagna, Messico e Nicaragua, dove invece è stato interamente girato, lungo tre anni e diversi viaggi. Ancora una docu-fiction che mescola più forme espressive (anche l’animazione/rielaborazione digitale) e, se volete, più generi per raccontare un paese, anzi un’etnia, quella degli indios mesquitos.

“Tutti i piani narrativi si confondono e si confrontano – dice l’autrice -, ho preferito la forma della favola ma raccontandola con gli strumenti del documentario. Non pretendo di innovare né di imporre nulla, ma come spettatrice mi annoio molto se vede cose non originali, che hanno poco da dire. Perciò ho privilegiato le cose che avrei voluto vedere da vedere. Riguardo ai contenuti, invece, voleva mostrare una parte sconosciuta del Nicaragua; di farne un ritratto del paese, attraverso la forma e la ricerca nel raccontarlo”.

In questo modo si confondono efficacemente realtà e fantasia, momenti di vita vissuta e leggenda.

Il corpo del sommozzatore Sinbad compare alla deriva della costa atlantica del Nicaragua. Una sirena trasferisce la sua anima nel corpo di una tartaruga, per mezzo della quale Sinbad riesce a tornare (rinascere) nel mondo degli umani ma…

Lo spunto della storia è stato dato alla regista dalla morte di un vero palombaro (vero anche il suo funerale nel film), i ‘cacciatori’ di aragoste che vengono spesso sfruttati dalle aziende che le esportano, e che spesso muoiono al lavoro. L’autrice però ha sentito dire “è stato toccato dalla sirena”, che è la rassegnata giustificazione delle morti trovate in fondo all’oceano.

“Ne muoiono molti – aggiunge -, è un problema che esiste. Volevo raccontare con le immagini, con un senso ontologico, senza intermediari, ma accessibile, fruibile a tutti”. E, sulla assenza di dialoghi veri e propri, afferma: “I dialoghi sono una forma di espressione sopravvalutata nel cinema. Io volevo comunque farmi capire da tutti senza eccezioni e l’ho fatto con le immagini”.

Seconda ‘nottata’ anche per la sezione dedicata alla videoarte, “A mezzanotte” nel dopo festival a Palazzo Gradari. Questa notte di scena gli autori italiani.

José de Arcangelo