sabato 30 giugno 2007

Festival di Pesaro: A Pesaro, l'omaggio a Gianni Toti e la scoperta di Périot

PESARO, 30 – Apertura della giornata (di ieri) con un omaggio a Gianni Toti, singolare intellettuale tra coerente impegno politico e creatività inesauribile, e protagonista della Mostra del Nuovo Cinema. Giornalista, scrittore, saggista, traduttore, studioso e critico cinematografico, regista e infine videoartista, o poeta poetronico come amava definirsi, lui che poeta lo era ma si era avvicinato alle nuove tecnologie elettroniche, in contrasto con i cosiddetti "puristi" che rifiutavano tutto quello che non era fatto su pellicola.

In due programmi, sono stati presentati alcuni dei suoi lavori: "La morte del trionfo della fine" (2002), "Tupac Amauta – Premier Chant (1997), "Gramsciateguì" (1999), "Tupac Amaru – La deconquista, il Pachacuti" di Giulio Latini, originato da un testo dello stesso Toti. Ma i suoi video, anche se lui non amava nemmeno l'etichette, sarebbero stati definiti una volta (trent'anni fa) alternativi o underground perché volutamente sperimentali, di ricerca artistica e non solo stilistica, ma sempre dal chiaro e forte contenuto politico. Sì, Toti era un comunista ma di quelli veri, indipendente anche quando militava nel Pc. Militante per vocazione e per formazione, infatti aveva già partecipato, sedicenne, nei gruppi d'Azione Patriottica alla Resistenza contro i nazisti.

La sua infinita opera – ora i suoi colleghi, amici e allievi stanno lavorando duramente insieme alla moglie per raccoglierla –, soprattutto quella audiovisiva è stata apprezzata soprattutto all'estero ma non in Italia, dove resta sconosciuto ai più, almeno per quanto riguarda il suo lavoro in video. Non a caso i suoi ultimi lavori sono stati prodotto soprattutto in Francia.

I suoi cortometraggi, visionari o iperrealisti, a uno spettatore meno attento e assuefatto dalla televisione possono sembrare fine a se stessi, ma se vi lasciate trasportare diventano un viaggio ultrasensoriale, se volete un momento da dedicare alla meditazione, anche perché l'artista vi dà lo spunto. Perché Toti, come il suo amico Alberto Grifi (anche lui scomparso qualche mese fa), aveva trovato nell'elettronica la strada per catturare la vita e contraddire il reale.

A completare l'omaggio a questo eclettico intellettuale, una breve e accorata tavola rotonda, dove lo studioso Marco Gazzano ha parlato del suo rapporto col tempo e l'impossibilità di afferrarlo, della nozione di tempo confederato e del rapporto con la parola, che in Toti diventa atto poetico in senso politico d'impegno e forma etica. E per lui a un certo punto, "le parole non bastano – dice la sua collaboratrice Sandra Lischi –, tanto da affermare che 'non c'è rivoluzione possibile senza una rivoluzione del linguaggio', una rivoluzione artistica e politica fatta in modo non didascalico né retorico né propagandistico e nemmeno divulgativo." A questo proposito inventò un altro dei suoi numerosi neologismi: "parolariato" anziché proletariato.

Un altro omaggio, stavolta a un giovane, e già apprezzato, regista francese che lavora in videodigitale, Jean-Gabriel Périot. Piccole grandi e sconvolgenti opere, o corti, che sparano immagini e/o foto(grammi) che rimuovono i ricordi della Storia, spesso dimenticati e perciò sconosciuti soprattutto ai giovani, episodi di un passato che possiedono in sé la chiave di una lettura universale. Un metodo non nuovo che è nato addirittura col cinema muto e per cui il regista dice che il suo riferimento è il maestro (sovietico) Dziga Vertov, autore di "L'uomo con la macchina da presa" ma soprattutto del "Cineocchio" che "riciclava" e rimontava filmati, non solo suoi, per costruirne altri. Ma anche negli anni Sessanta-Settanta Jean-Luc Godard usava nei suoi lungometraggi questo susseguirsi di immagini frenetiche, e soprattutto foto come fa Périot nel sorprendente "200.000 Phantoms" che per ricordare il lancio della bomba atomica su Hiroshima, attraverso fotografie sovrapposte velocemente una sull'altra, ci fa vedere la costruzione, la distruzione e le rovine di un palazzo, e la zona che lo circonda(va). In "Eut-elle eté criminelle…" (2006) ci riporta all'estate 1944 in Francia, quando – mentre si celebra la Liberazione – un gruppo di donne accusate di aver avuto relazioni con i nazisti vengono punite pubblicamente. Infine, in "We Are Winning Don't Forget" che inizia con una serie di foto di persone che sorridono ma pian piano, avviandosi, alla conclusione mostra immagini di manifestazioni per finire con quelle cruente, di assurda violenza, svoltesi durante il G8. Il regista, che per il titolo ha preso a prestito una frase scritta sui muri di Genova, dice "Siamo tanti, siamo uniformi, sorridiamo nelle foto, ma NON siamo felici."

Per il concorso è stato presentato l'opera prima "Familia Tortuga" del giovane messicano Rubén Imaz Castro (il suo è il film saggio della scuola di cinema, solo che lui ha adattato il budget destinato a un corto per farne un lungo). Attraverso la disgregazione di una famiglia, una riflessione sulla crisi economica che colpisce il paese e che sta provocando la lenta ma inesorabile scomparsa della classe media. Un fenomeno non solo messicano, ma che sta colpendo tutta l'America Latina, e in un certo senso il mondo intero, dove crescono di giorno in giorno le famiglie povere. La madre è da poco scomparsa, il padre José è più assente che presente perché ha problemi col lavoro, i due figli Ana e Angel sono alle prese con la crisi esistenziale tipica dell'adolescenza e lo zio, un po' toccato, Manuel che li accudisce, pulisce casa e parla con le amate tartarughe, sembra l'unico a legarli ancora.

"Mostra una famiglia – dice il regista – circondata da una società individualista che costringe le persone a sognare in uno stato di isolamento. Una famiglia ormai disincantata perché sta perdendo i suoi sogni più semplici, quelli che normalmente ci permettono di trovare l'amore e una mèta."

Chi interpreta il ruolo di Manuel è il vero zio del regista (Manuel Plata Lopez), che ha una sorta di paralisi cerebrale, mentre i figli sono José Angel Bichir (ha una vaga somiglianza con Eduardo Noriega), figlio d'arte, recita da quando era bambino, e Luisa Pardo, anche lei attrice professionista ma conosciuta da Imaz Castro attraverso un amico, che è il suo ragazzo nel film ma il suo ex nella realtà. Il padre invece è Dagoberto Gama, popolare attore in patria che lavora con i giovani nella Scuola di Cinema e che ha accettato di recitare con entusiasmo.

Due mediometraggi presentati nella sezione "Sos – Europa.Doc". Il primo è "Love and Broken Glass – Amore e vetri rotti" della danese Suvi Andrea Helminen. Un documentario al femminile, non solo per l'autrice, ma soprattutto perché mostra la vita delle adolescenti del Kyrgyzstan, in attesa dei primi amori ma in realtà destinate a sposare "lo sconosciuto che la rapirà".

La vivace Guljamal è una tredicenne che vive a Bishkek, capitale dell'ex repubblica sovietica. Lei ama saltare e ballare sulle bottiglie per poi spaccarle con un colpo di karatè, in compagnia delle sue due amiche, ma è costretta a fare la babysitter al fratellino. Sogna di stare con Marat e iniziare una storia d'amore, però vive in una società che per tradizione prevede per molte ragazze il rapimento e il matrimonio con stranieri.

"Questo fenomeno – dichiara la regista – era quasi scomparso durante il socialismo, ma negli ultimi anni si è diffuso nuovamente. Non è imposto dalla legge ma nemmeno vietato, anche perché il governo è corrotto. Infatti mentre giravo il film è caduto il precedente perché accusato di corruzione, ma dopo qualche tempo la storia si è ripetuta con quello nuovo."

L'altro documentario è "Yaptik-Hasse" del russo Edgar Bartenev, senza dialoghi ma con delle ironiche didascalie che sottolineano personaggi e momenti del viaggio, e una bella fotografia di Alexander Filippov. Una famiglia nomade nella tundra della penisola di Yamal. Alla fine d'agosto questo gruppo familiare si sposta verso il centro della penisola (a sud) e nel viaggio vengono coinvolti tutti. Dal piccolo Yarkalyn, che ha appena un anno, ad Hada che ha più di cent'anni e va sempre a piedi per risparmiare le renne, dal nonno che ne ha 90 ma dice di averne 35. Ma nella slitta sacra viene portato lo Spirito Buono, il giovane Yaptik Hasse, che nessuno straniero può osservare, ma che la cinepresa, alla fine, svelerà.

Serata clou per la retrospettiva Ivan Zulueta con il film cult (allora si sarebbe detto maledetto) del 1979 "Arrebato", prodotto dall'amico-collega Augusto Martinez Torres, con i giovanissimi Eusebio Poncela, Cecilia Roth (premiata protagonista di "Tutto su mia madre" di Pedro Almodovar) e Will More.

Infatti, allora, il film fu rifiutato sia da Cannes che da Berlino, ma due anni dopo è stato riscoperto dalla critica e col passare degli anni è diventato un cult movie. Girato nei primi anni del dopo Franco, quando non c'erano limiti né censura, "Arrebato" (t.l. Estasi improvvisa) è un'opera visionaria e cinefila, inquietante e ossessiva ma che – come i suoi personaggi e soprattutto come il cinema tout court – seduce e conquista, travolge e sorprende con la sua carica di sensazioni, sensualità e passione, meraviglia e incubo. E il protagonista, vampiro che succhia la linfa vitale del cinema – come gli spettatori – finirà risucchiato dal cinema stesso (la cinepresa).

José Sirgado, regista di horror, cade in profonda crisi personale sia professionale che affettiva, infatti al montaggio il suo film non lo convince e la relazione con Ana sta andando a rotoli. Nel frattempo riceve un pacco da Pedro P., un Peter Pan pazzo-non-pazzo che passa il tempo a girare filmini con la sua Super8 ed è ossessionato dalla ricerca dell'essenza stessa del cinema.

E oggi l'atteso omaggio a Luigi Comencini ricordato in un convegno-tavola rotonda da studiosi, critici ed esperti, ma soprattutto dalla sua famiglia: la moglie e le tre figlie.

José de Arcangelo

venerdì 29 giugno 2007

Festival di Pesaro: Giornata tutta italoamericana alla Mostra di Pesaro

PESARO, 29 – Giornata quasi interamente italoamericana, quella di ieri, al festival di Pesaro. Due vecchi film sull'argomento, recuperati e restaurati dalla George Eastman House International Museum of Photography and Film e presentati con il sostegno della The Film Foundation, un convegno in due tempi (mattina e pomeriggio) con esperti, studiosi, critici; poi ancora due documentari di cortometraggio contemporanei, firmati da donne, come del resto il lungometraggio della serata al Teatro Sperimentale, seguiti tutti e tre dall'incontro con le autrici.

Ad aprire la giornata "The Movie Actor" di Bruno Vallety (1932), un corto di 15 minuti su Eduardo Migliaccio, in arte Farfariello, nato nel 1880 a Cava de' Tirreni, che emigrò negli States con la famiglia. Un abile trasformista che nei teatri americani interpretava irriverenti macchiette napoletane e cantava sfruttando la sua ottima voce, diventando un mito tra gli americani.

Nel film si mostrano anche le difficoltà degli attori italoamericani a farsi assumere dagli impresari newyorkesi. L'attore mette in scena una serie di macchiette: una donna, un gangster di Little Italy e un operaio appena sbarcato a New York. Un documento non solo di interesse cinearcheologico, ma anche sociologico, perché presenta uno spaccato della vita degli immigrati negli anni '30.

Tanti gli argomenti tirati fuori dall'interessante convegno per cercare di analizzare un fenomeno di massa come l'emigrazione-immigrazione italiana, e soprattutto le sue conseguenze sulla vita e sulla cultura americana, ma anche sulle ultime generazioni di italoamericani. Infatti, ormai si parla di quinta generazione e negli Stati Uniti c'è stato addirittura un dibattito su come si debba scrivere italoamericano. Secondo la correzione automatica del computer col trattino – in americano hyphen – e corrisponde a un approccio multiculturale, sviluppatosi negli anni '70, per cui le tracce delle origini stanno in questo "trattino" e trasformano, ovviamente, tutti gli americani in "ifenati": ispano-americani, afro-americani, italo-americani. Ma Anthony Tamburri – Preside del John D. Calandra Italian American Institute del Queens College, che ha collaborato alla riuscita della rassegna, e moderatore del convegno – preferisce lo slash, cioè la sbarra, in segno di alterità.

Dal pregiudizio allo stereotipo, dal razzismo alla famiglia, dalla mafia alla religione, dalle radici alla condizione della donna e quindi al macho italiano rappresentato (soprattutto al cinema) dal pugile, in contrapposizione alle campagne diffamatorie contro gli italiani famosi come Valentino e Caruso, accusati allora dai media di omosessualità.

Sono intervenuti (quasi) tutti gli autori dei saggi raccolti nel volume "Quei bravi ragazzi – Il cinema italoamericano contemporaneo" a cura di Giuliana Muscio (anche curatrice della sezione) e Giovanni Spagnoletti (direttore della Mostra) ed edito appositamente per l'occasione nei Saggi Marsilio: Jacqueline Reich, George De Stefano, Giorgio Bertellini, Anna Camaiti Hostert, Ilaria Serra, Fred L. Gardaphe e altri. Naturale che non si sia riusciti a dimostrare pienamente se il pregiudizio e gli stereotipi siano rimasti quelli di una volta, o piuttosto che si tratti di una ripresa del pregiudizio degli stessi italiani sugli italoamericani. Ma è passato più di un secolo e i cambiamenti politici, sociali e culturali hanno colpito un po' tutti. All'inizio del Novecento erano soprattutto i meridionali ad emigrare in America (del nord e del sud), che erano già allora vittime del pregiudizio dell'Italia (e dell'Europa) del nord.

Ma alla luce di tutti i discorsi emersi, anche dagli stessi italoamericani, le radici davano agli immigrati la forza di andare avanti, così come l'unità familiare – nel bene e nel male – rafforzava il nucleo che, a quei tempi, veniva considerato dalla legge e dal razzismo imperante uno scalino più su degli afroamericani.

Non bisogna dimenticare un'altra componente del (pesante) bagaglio dell'emigrato – come ha ricordato Vito Zagarrio – e trasmessa a figli, nipoti e pronipoti dai nonni. "E' la nostalgia per gli avi, per quei nonni ancora ferocemente attaccati alle loro radici" che tutti i discendenti degli emigrati si portano appresso, siano essi artisti, operai o intellettuali. Ed è probabilmente quella nostalgia che spinge a tenere vive, anzi a rafforzare, tradizioni ed usanze che forse nemmeno esistono più nel Paese d'origine e che, viste sullo schermo, a noi italiani sembrano macchiette, sopra le righe o stereotipi "tipicamente (italo) americani".

Impossibile citare tutti i discorsi, le sfumature e le influenze di un convegno che ha consentito lo scambio di idee e di conoscenze con i nipoti e pronipoti di quelli stessi emigrati.

Nel pomeriggio è stato proiettato l'altro documento storico, "Santa Lucia luntana" di Harold Godsoe (1931), sorta di sceneggiata napoletana ambientata a New York, intorno a una famiglia di immigrati – padre, figlio e due figlie – alle prese con la dura vita quotidiana e la nostalgia per il paese d'origine, vicino Napoli. Ma il figlio ha preso una brutta strada ed arriva a rubare i risparmi del padre, una figlia si è adattata completamente alla vita metropolitana ed è ribelle e trasgressiva, l'altra invece, lavoratrice irreprensibile, è la consolazione del padre. Però il fidanzato la convince a tornare in Italia. Curioso e, forse, inverosimile dal punto di vista storico, il film però ha il merito e il coraggio di rovesciare "il sogno americano". Quello vero è tornare "a casa", non solo per E.T., perché la maggior parte degli immigrati nelle due Americhe avevano in programma di tornare indietro, magari con un sacco di soldi fatti con sacrificio e sudore. Ma quasi nessuno ci riuscì perché travolti dagli eventi nazionali e internazionali, pubblici e privati. Il più delle volte è toccato a figli e nipoti far avverare questo sogno alla rovescia al posto dei loro avi.

Belli e commoventi, per diverse ragioni e differenti contenuti, i due brevi documentari "The Baggage" (Il bagaglio) di Suan Caperna Lloyd (2001) e "Closing Time" (tempo di chiusura) di Veronica Diaferia (2006), italiana ma da quattro anni a New York.

Il primo, intenso e disturbante, è tra il documentario storico e la vicenda personale. Protagonista del film è la famiglia della regista, ormai disgregata per via della demenza senile del padre e della fuga della sorella ribelle. Secondo l'autrice – che, cercando di elaborare il lutto della sorella, si è rivolta a una psicologa –, la causa è il trauma emotivo derivato dall'emigrazione, iniziato col genitore costretto più volte a ripartire, anche negli stessi Stati Uniti

Indagando nel passato, tra vecchie cartoline del paesello, le foto sbiadite dei nonni e del padre, ma anche i filmini di famiglia, l'autrice ci fa scoprire immagini e ricordi ora malinconici ora inquietante. E' "il bagaglio ambiguo" dell'emigrazione.

Meno tragico, ma non meno amaro, "Closing Time" che racconta la chiusura del negozio di libri, edizioni musicali e poi di oggetti vari "Ernesto Rossi & Co." Situato all'angolo tra Mulberry e Grand Street, nella mitica Little Italy di New York. Aperto nel 1902, il negozio era diventato ben presto il luogo in cui rifornirsi di fogli di musica per i suonatori di organetto, poi dei rulli, ma anche per gi artisti meridionali emigrati o chiamati, è uno dei luoghi fondativi della cultura italoamericana. Un pezzo di storia (anche) italiana che rischia da andare in pezzi, il suo proprietario (nipote di Ernesto) è stato sfrattato perché la zona, schiacciata dall'espandersi di Soho, quartiere di moda e della moda, è diventata una miniera (immobiliare) d'oro, dove oggi chiedono 25mila dollari di affitto.

Come sta accadendo in tutte le metropoli del mondo, un pezzo d'Italia nella Grande mela sta scomparendo. Little Italy è un luogo metafisico più che reale. E' il punto d'incontro tra la Napoli che Ernesto Rossi lasciò e l'Italia che suo figlio Louis ricreò nello storico negozio. Ora Little Italy non c'è (quasi) più, anche perché dall'altra parte c'è Chinatown, c'è stato l'imbastardimento nato con Nolita (North of Little Italy) e la fuga degli italiani.

Louis è riuscito a trovare un altro (piccolo) locale ma lontano da lì, ha detto la regista, ma il suo prezioso archivio di spartiti, canzoni, dischi (i primi fragilissimi 78 giri di pasta) rischiano di andare persi per sempre in un magazzino di Manhattan.

In serata è stato presentato "True Love" di Nancy Savoca (1989), poco visto da noi, ma molto particolare e interessante perché racconta dal punto di vista femminile e senza sangue, i violenti conflitti familiari e quotidiani. Brooklyn: la romantica ragazza italoamericana Donna sogna e vuole sposare Michael. Lui, apparentemente, la ricambia ma sembra più interessato alle serata con gli amici e, quando è tutto pronto per il matrimonio, riaffiorano le sorprese e i guai.

Per il concorso è stato presentato, in piazza, "Gubra – Anxiety" della regista malese Yasmin Ahmad. Un'inedita e divertente commedia corale dolce-amara che ruota intorno alla vivace Orked. Sposata con un uomo più grande, una mattina all'alba, Gubra è costretta a correre in ospedale col marito e l'intera famiglia perché il padre sta male e l'ambulanza non arriva. Ma nei corridoi incontra Alan, fratello del suo precedente fidanzato morto in un incidente. E, proprio mentre sta passeggiando con lui, scopre l'infedeltà del marito. Parallelamente, il muezzin Pak Bilal vive con la moglie e il figlio, e cerca di aiutare due prostitute, una delle quali ha un figlio e scopre di essere sieropositiva.

José de Arcangelo

giovedì 28 giugno 2007

Festival di Pesaro: A Pesaro, tra John Fante e l'Iraq, la Spagna in primo piano

PESARO, 28 – Giornata all'insegna di John Fante alla 43a. Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro preceduta da un bello e sincero documentario omaggio di Giovanna Di Lello e poi da un breve convegno che ha provocato qualche delusione e qualche sentita protesta dei fantiani o "dantisti" convinti..

D'origine italiana, nata in Canada e poi trasferitasi in Abruzzo, Giovanna Di Lello frequenta poi a Pescara i corsi di cinema nella facoltà di Lingue e Letterature Straniere. La passione per Fante nasce leggendo i suoi romanzi, attratta soprattutto dal cognome dell'autore che è lo stesso di sua nonna. Girato fra l'Italia e gli Stati Uniti, il videodocumentario ricostruisce il personaggio attraverso i suoi libri e le persone che gli sono state vicine: dalla moglie ai figli, dai colleghi al fratello, dagli esperti ai musicisti italiani, tra cui Caposella. A fare la provocatoria introduzione al convegno è stato il professore Martino Maraffi che ha cercato di smontare il culto dello scrittore italo-americano criticando il suo profondo legame alle origini e un infantilismo di fondo, probabile "causa" influente dei nostri nuovi scrittori Peter Pan. Ma per fortuna è stato smentito dagli altri, chi ha confessato il suo innamoramento citando Bukowski – responsabile della sua riscoperta dopo oltre vent'anni di oblio ‑ la sua "prosa calda, densa e viscerale". E infine Lidia Ravera che ha ridimensionato il discorso affermando "è vero che Fante non è un grande scrittore ma uno scrittore grande. Perché parlava del dolore e così riusciva ad accettarlo e a farlo accettare, conquistandosi una sorta di redenzione. E poi instaurava con il lettore una specie di rapporto simbiotico, perché lo scrittore quando scrive è solo e il lettore quando legge pure, perciò tra autore e lettore si crea un legame a due, forse un vero rapporto di coppia. Mentre il professore napoletano Durante ha parlato del figlio Dan che, soltanto dopo la morte del padre, è diventato scrittore ed ha appena finito di scrivere una pièce teatrale, "Don Giovanni", che parla di John Fante, soprattutto nel rapporto con la sua famiglia. Andrà in scena in un teatro off Broadway prima della fine dell'anno, ma anche da noi si sta preparando un allestimento.

Anche il film in concorso presentato ieri è firmato da una donna: "Operation Filmmaker" di Nina Davenport. Un documentario diverso, anzi particolare, che nella struttura può ricordare "Guy" di Michael Lindsay Hogg, anche se lontanamente. Nel 2003, dopo la caduta di Bagdad, il giovane e carismatico studente di cinema, Muthana Mohmed, si alza in piedi e urla di fronte alle telecamere di Mtv il suo sogno di diventare regista. Un sogno distrutto prima da Saddam Hussein e poi dai bombardamenti americani (la scuola era stata trasformata in deposito d'armi). L'episodio colpisce il regista Liev Schreiber che prende a cuore il caso del ragazzo e, con il suo produttore, lo chiama a lavorare a Praga sul set di "Ogni cosa è illuminata". All'inizio sembra che gli americani abbiano preso il ragazzo per mettersi la coscienza a posto, e forse pure sfruttarlo, ma pian piano il giovane irakeno dimostra una certa ambiguità e pensa addirittura che tutto gli sia dovuto. Sono loro, perdipiù ebrei, ad averlo messo nei pasticci (dice che tornando rischia la vita) e così dovrebbero fargli avere il visto per l'America, magari una borsa di studio oppure pagarli la Scuola di Cinema di Londra. Mentre nel suo paese la guerra infiamma e tinge di rosso la terra, Muthana si ribella a un comportamento secondo lui scorretto e, furbescamente, confessa di essere un giovane borghese nullafacente che aveva persino l'autista e che il nonno era addirittura un funzionario del governo. Grazie all'interessamento del produttore e di altri, riesce a inserirsi – ottenendo il rinnovo del visto – sul set di un altro film, "Doom", e alla star The Rock che gli paga la rata annuale della scuola londinese. Non contento, l'intraprendente e astuto giovane continua a mandare mail chiedendo aiuti e soldi a tutti quelli che ha conosciuto sui set, inclusa la regista del documentario, che a un certo punto si vede addirittura negata la possibilità di finire il suo lavoro. Ci riuscirà soltanto sei mesi dopo, quando il "nostro" ha finito la scuola ma non è riuscito a diventare regista ma solo operatore. Ma a questo punto il film – "dirottato" da Muthana ‑ ha preso, forse, un'altra strada anziché quella della metafora dell'invasione dell'Iraq e della mentalità americana. Anzi, diventa invece una sorta di metafora della "carità cristiana" che non risolve il problema ma lo ingigantisce e torna indietro come un boomerang. Vedi "Viridiana" di Luis Bunuel, per cui Ivan Zulueta, il regista a cui è dedicata la retrospettiva, ha disegnato il manifesto.

A proposito di Zulueta, è stato presentato il lungometraggio firmato dal suo amico e produttore Augusto Martinez Torres "Las peliculas de mi padre" (I film di mio padre). L'autore ha dichiarato: "Il film racconta l'incubo che ho passato anni fa quando ho scoperto che mancavano alcuni negativi dei miei cortometraggi. Ho iniziato una sorta di indagine poliziesca per ritrovarli, dimostrare che erano miei, e depositarli nella Filmoteca Espanola. Purtroppo tre sono ancora introvabili, e questo mi ha fatto capire l'inesorabile deterioramento del patrimonio cinematografico, il disinteresse delle istituzioni e il dominio della burocrazia." Poi racconta che a Madrid, da anni, c'è un progetto per costruire una città del cinema, dove i negativi abbiano la temperatura e l'umidità giusta per conservarsi bene e a lungo, ma né il governo di destra né quello di sinistra ha fatto ancora niente. Anche perché i produttori non vogliono investire sui film del passato, ma farne dei nuovi per guadagnare di più.

Il suo lungometraggio non smentisce né lo stile né la metrica del produttore-regista che ‑ per parlare di cinema (nel cinema) ‑ narra una storia in parte autobiografica, perché i film sono i suoi (diretti e/o prodotti negli anni '70). Solo che la pellicola inizia quando il padre è morto. La figlia (la bella e sensuale debuttante Karme Malaga) turbata dalla sua mancanza non ricorda nulla. Ma scopre poco a poco i film che il padre aveva realizzato prima che lei nascesse e i dubbi sulla madre mai conosciuta iniziano ad ossessionarla. E per risolvere l'enigma decide di rintracciare tutte le persone, e i particolar modo le attrici, che hanno lavorato con suo padre, incluso il vero Ivan Zulueta che interpreta se stesso.

A seguire altri corti di Zulueta "Aquarium" (1975) in due versioni (muta e rimontata/musicata), "Complementos" (1976) e "Mi ego està en Babia" (1975) che anticipa il cosiddetto cinema gay spagnolo, diventato "popolare" con Pedro Almodovar che, non a caso, ha preso in prestito le attrici, in un certo senso, lanciate da Zulueta e Torres: Cecilia Roth e Marisa Paredes che, al lungometraggio odierno, non hanno partecipano. La prima perché non c'erano i soldi per farla venire apposta da Buenos Aires, la Paredes perché in tournée teatrale in Spagna.

Anche il documentario della sezione "Sos Europa.Doc" è spagnolo: "Can Tunis" di José Gonzalez Morandi e Paco Toledo. Un film anche duro e crudo che racconta ancora una volta una storia di emarginazione e ingiustizia, di degrado e burocrazia. Can Tunis è infatti un barrio gitano, zingaro, di Barcellona che fin dagli anni Novanta è stato uno dei principali punti di smercio di droga. "E soprattutto – afferma Toledo – da quando ci sono state le Olimpiadi, perché le autorità hanno 'ripulito' il centro e, ovviamente, spacciatori e tossici si sono spostati proprio lì."

Il documentario prende spunto dalle proteste degli abitanti del quartiere che, data l'imminente demolizione delle loro case su terreni che il comune ha già ceduto al porto, chiedono abitazioni popolari. L'attenzione dei registi si concentra sul dodicenne Juan e sulla sua famiglia. La madre è in galera da quando lui aveva 6 anni e dovrebbe uscire fra pochi mesi. Ma in casa abitano il padre e otto fratelli, e vanno e vengono una ventina di parenti.

Un quadro che illustra la vita quotidiana della famiglia, tra la droga e la delinquenza che impera nella strada, e le feste, le tradizioni e i riti che si celebrano in casa, soprattutto intorno alla tavola. Dal Capodanno al fidanzamento.

"Abbiamo contattato una gitana – aggiunge Toledo – per fare il documentario ma lei non sapeva esattamente di cosa si trattava, così quando ci siamo presentati avevano preparato una sorta di scenografia e acceso dei fuochi. Hanno messo subito in chiaro che loro non spacciavano droga né erano delinquenti. Torniamo poi altre volte finché è nata una sorta di confidenza, una certa complicità e una fiducia reciproca. In realtà sono state soprattutto le foto, quelle che abbiamo inserito nei titoli di coda, a convincerli perché si sono visti riflessi in maniera dignitosa e sncer. A quel punto abbiamo potuto riprendere ogni cosa, in piena intimità, come la scena in cui il padre si fa la barba. Non ci vedevano più come estranei, e loro si sentivano i biografi del quartiere. Abbiamo fatto riprese per circa tre anni, anche se c'è stata un'interruzione di sei mesi perché la tivù non lo considerava materiale interessante."

Infine è stato presentato il libro di Alessandro Amaducci "Anno Zero – Il cinema nell'era digitale". Le nuove tecnologie, l'elettronica ieri e il digitale oggi, hanno attraversato la storia del cinema sotto varie forme, soprattutto nel settore degli effetti speciali. Ma per molti registi, l'utilizzo di nuovi mezzi e formati alternativi alla pellicola rappresenta il tentativo di riconquistare un'autonomia produttiva e creativa, nonché l'occasione per ritornare a sperimentare il linguaggio delle immagini in movimento. Su questi temi ma anche sull'opera di autori noti e meno noti, e sull'alta definizione (HD) parla e riflette l'autore del libro.

José de Arcangelo



mercoledì 27 giugno 2007

Festival di Pesaro: A Pesaro sono protagoniste le donne

PESARO, 27 – Terza giornata della 43a. Edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e ormai gli appuntamenti si moltiplicano e si accavallano. Presentato il secondo documentario dell'italo-americana Marylou Tibaldo-Bongiorno "Revolution '67", in attesa del lungometraggio di fiction "Little Kings" in programma stasera in piazza. Un documentario (di un'ora e mezza) che torna sulle ribellioni afroamericane di Newart dell'estate 1967, scoppiate per l'intervento dei poliziotti italoamericani e represse da un sindaco italoamericano. Attraverso interviste ai testimoni, tra i quali Tom Hayden, allora giovane militante, e con intervento di storici, il film affronta i fatti da molteplici punti di vista. Anche perché la regista cerca di trovare delle risposte a quarant'anni dalla rivolta che ha provocato la morte di 26 persone, centinaia di feriti e danni per milioni di dollari. Che cos'è accaduto veramente, chi è il colpevole, perché la città non è stata risarcita?

Presentati altri due nuovi documentari anche nella sezione "Sos Europa.Doc", entrambi di grande interesse. Il primo, "Nasiona" (Semi) del polaccoWojciech Kasperski, narra ancora una storia di emarginazione ma in un piccolo villaggio della Russia profonda che a sua volta emargina una famiglia ancora più sfortunata. Il regista riesce non solo a trasmettere emozioni e disagio, ma al tempo stesso a tirarne fuori, attraverso le immagini, della (dolorosa) poesia. Anche la turca (ancora una donna passata alla regia) Ruya Arzu Koksal, in "Yollar çimen bagladi" (Sentieri dimenticati), registra le vicende di un piccolo villaggio, fortunatamente meno disastrato, ma comunque minacciato dall'irrefrenabile emigrazione verso la città, soprattutto dei giovani. Il rischio è la lenta, ma inesorabile, scomparsa di una cultura, quella della tribù seminomade dei Cepni (Mar Nero) che ogni giugno porta le mucche nei pascoli a 2.300 m di altitudine, chiamati "yayla". Il tutto raccontato dalla vera voce di una donna costretta a trasferirsi a Istanbul e a fare la donna delle pulizie, è così che la regista l'ha conosciuta.

Ruya Arzu Koksal ha lavorato a questo progetto per cinque anni, ma ha scelto il cinema dopo dodici anni di lavoro come guida turistica. Dopo aver percorso l'Anatolia centrale e l'Asia centrale, dall'Azerbaigian al Tibet, dall'India all'Ubezkistan, Raya cerca un'alternativa per raccontare agli altri tutto quello che vede e scopre. Prima scrive un articolo per una rivista di viaggi, poi con l'aiuto del marito fotografo che diventa operatore, decide di girare il documentario.

"E' stato difficile all'inizio – dichiara – perché ero loro ospite, mi hanno offerto la loro casa per un mese, ma dopo aver pubblicato l'articolo ho conquistato la loro fiducia. E' piaciuto loro perché non c'erano né pregiudizi né stereotipi riguardo l'etnia, fatto che li rende spesso diffidenti e sospettosi verso i cittadini. A quel punto ho chiesto se potevo riprenderli e hanno accettato. E si sono addirittura commossi vedendo il documentario ultimato, perciò l'ho portato per farlo vedere anche in montagna, nel "yayla". Sono stata fortunatissima perché questa esperienza mi ha permesso di imparare a filmare (ho fatto solo un corso di 3 mesi a Istanbul) e a trasmettere le emozioni della vita di ogni giorno."

Per il concorso sono state presentate due opere che vedono ancora una volta le donne protagoniste. L'argentina Ana Katz (oltre che regista, protagonista, produttrice e co-sceneggiatrice) con "La novia errante" (La fidanzata errante), un racconto in bilico tra dramma e commedia, intimista nonostante sia ambientato in un luogo di villeggiatura, Mar de las Pampas, ma fuori stagione. Infatti, narra le vicende di Inés che in viaggio, in pullman, col fidanzato Miguel, dopo una banale discussione si ritrova sola in albergo tra il bosco e il mare. E finirà per non godersi fino in fondo quei giorni di "libertà" cercando di parlare al telefono con Miguel che, nel frattempo, è tornato indietro. Ovviamente incrocia e conosce altre persone che però abbandona alla prima occasione (telefonata).

"Questo film – dice la regista, assente dalla Mostra perché impegnata nel lancio del film in Argentina – parla di persone che hanno chiamato altre in maniera insistente e irrazionale, di persone che hanno riattaccato il telefono con rabbia, e che hanno sentito il desiderio irrefrenabile di rifare lo stesso numero. E l'hanno fatto."

Più drammatico, anzi tragico, "Anna M." di Michel Spinosa con Isabelle Carré, ancora una specie di amour fou ma a senso unico che, forse, ha troppi riferimenti – illustri e non – per convincere pienamente. Da "Passione d'amore" di Ettore Scola a "Repulsion" di Roman Polanski, passando per il sorprendente "La spettatrice" di Paolo Franchi (ottimo ma poco visto in patria, cioè da noi). Certo, ogni volta che si parla d'amore si rischia di ricordare qualcun altro, ma in questo caso sono troppi i punti in comune, soprattutto con "La spettatrice". Comunque si tratta sempre di una storia apparentemente banale che diventa pian piano eccezionale. La dolce e riservata Anna, dedita al suo lavoro di restauratrice di libri antichi, è colpita da solitudine tanto da sfidare la morte (suicidio fallito) buttandosi sotto una macchina. Si salva ma, dopo le amorevoli cure del dottor Zanevsky, si autoconvince che il medico sia innamorato di lei. Lo pedina, gli telefona in continuazione, scopre che ha una moglie e pretende che non la ami. E il suo amore diventa ossessione, portandola sull'orlo dalla follia, passando dalla speranza all'aggressività, fino all'odio.

Dice il regista: "Tutto è nato dall'idea di fare un film sulla gelosia. Ho letto un libro di uno psicologo sull'erotomania e sono rimasto affascinato dalle storie in cui la gente soffre. Cambiava tutte le mie idee sulla gelosia, e questo mi intrigava: in America sarebbe diventato l'ennesimo 'Attrazione fatale', ma credo che in Europa si possa fare un film dal punto di vista di una persona pazza e rimanerle accanto fino alla fine."

In giornata sono stati presentati altri volumi che affrontano le tematiche del "Nuovo Cinema", in particolare videodigitali. Il primo è "Struttura / Studi e visioni sul mare digitale" Seconda edizione (Edizioni Polistampa) che raccoglie una serie di saggi sulla videoarte, dalla produzione alla fruizione, dalla Net.Art alle Installazioni e alle manifestazioni, soprattutto quella di San Vincenzo e Campiglia M.ma (LI) da cui proviene il tutto. "Second Life" di Mario Gerosa (Meltemi) parla ovviamente del fenomeno omonimo nato e cresciuto nella rete. Second Life è un mondo virtuale, una terra di nessuno e di tutti cui chiunque può accedere, per soli 10 dollari, creandosi una vita parallela a quella reale. Ma i rischi ci sono anche in questa sorta di mondo ideale.

Non solo perché stanno entrando le grosse aziende e le multinazionali ma anche perché illustratori e grafici abili con la tecnologia possono "diventare" architetti, cioè fingersi tali. Ma facendo "un distinguo – dice Gerosa – può essere davvero affascinante perché ognuno se ha talento lo può mettere in mostra". Esistono già film fatti su Second Life, il settore western alla Sergio Leone, quello dedicato all'avventura e, ovviamente, al mitico Star Trek. Anche James Cameron ne sta preparando un suo film. E volendo si può diventare "attori" come è già successo per uno spot della Pontiac e per il videoclip di Irene Grandi. Non è facile poi avere successo nel mondo reale ma ci assicurano che alcuni residenti lo sono già diventati. Naturale, come nella realtà, che oltre al talento bisogna avere un po' di fortuna. Però ci sono stilisti del virtuale che vendono già i loro abiti e una signora cinese è riuscita a fare un milione di dollari con le sue transazioni immobiliari virtuali.

Seconda notte per il "Dopofestival" che, oltre a presentare le immagini di "Second Life", ha videoproiettato (trasmesso?) le opere e le immagini che si possono vedere direttamente da Internet, e che provengono da ogni angolo del mondo.

Infatti, la presenza di siti gestiti da artisti, galleristi appassionati, istituzioni che presentano al loro interno video, e questa nuova forma di distribuzione, da un lato permette la circolazione di lavori al di fuori degli spazi istituzionali nei quali questi lavori vengono mostrati, permettendone una maggiore circolazione. Dall'altro, consente, ad ognuno di noi, di costruirsi dei propri percorsi nel mondo dell'arte, da percepire singolarmente, davanti al proprio computer, senza però quella necessaria condivisione della visione (indispensabile per creare connessioni e circolazione di pensieri e idee) che avviene durante le mostre, i festival o le "normali" proiezioni.

martedì 26 giugno 2007

Festival di Pesaro: Dall'Ucraina alla Calabria, siamo tutti emarginati

PESARO, 26 – Giornata densa, quella appena conclusasi, alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, entrata nel pieno della sua ricca e variegata programmazione. Apertura anticipata alle 9.30 per la rassegna dedicata a Luigi Comencini, mentre Sos Europa.Doc è partita come previsto alle 10.30 (tutte le proiezioni iniziano dopo le 10 per consentire di seguire il Dopofestival che ha preso il via proprio stanotte) con "Half Past Three" del ceco Tomas Hodan ma girato in Ucraina. Un viaggio tra montagne e campagna, dove ancora resistono e non lasciano le loro terre gli anziani o quelli di mezza età che non vedono (e non amano) la città come alternativa, ma preferiscono una serena – anche se di duro lavoro – esistenza in mezzo alla natura. Infatti, il regista dopo varie visite in uno sperduto villaggio ucraino è tornato per dare una risposta (per immagini) alla sua domanda: "Si può veramente condurre un'esistenza felice e appagante in condizioni materiali limitate?" E uomini e donne da lui incontrati sembrano dire di sì, appoggiandosi alla loro filosofia di vita: se non hai i soldi per comprare il latte cercherai una mucca e se la casa brucia ne costruirai un'altra. Cose che in città non puoi nemmeno sognare di fare.

Presentati in giornata i due primi libri. Uno dedicato al videoclip, "Musica per i nostri occhi", firmato Domenico Liggeri ed edito nei Tascabili Bompiani, nonostante si tratti di una sorta di esaustiva enciclopedia sul tema, anzi di un "mastodontico" omaggio al videoclip. Una forma d'espressione che ha avuto il suo boom dagli anni Ottanta in poi, spinto dagli interessi della case discografiche e poi dalla nascita della prima casa di produzione e infine di Mtv, ma nata più di settant'anni fa come conferma l'autore, appassionato, ricercatore e già giornalista professionista. A questo proposito ricorda il binomio jazz-animazione degli anni '30, e poi "Entr'acte" di René Clair, e quelli del geniale duo Bunuel-Dalì, "L'age d'or" e "Un chien andalou". Quindi un genere illustre anche perché fonde in sé – come e più del cinema che ne è una componente – tante arti diverse e rivoluzionando la narrativa tradizionale.

E il volume non trascura i registi (più di 3.500), nati col videoclip e passati al cinema e viceversa, né i musicisti che ne hanno fatto e ne fanno uso, a volte influenzando gli stessi autori, come Madonna con David Fincher ("Seven").

Il secondo libro è dedicato al cinetelefonino, ovvero "Il videofonino. Genesi e orizzonti del telefono con le immagini" di Luciano Petullà e Davide Borrelli, testo che si lega intrinsecamente alle 'vie del festival" che prevede – a partire da oggi – le proiezioni di una serie di corti realizzati proprio con l'amato-odiato videofonino. Infatti sembra che in giro ci siano già più di 60 milioni.

Fuori concorso, non perché fosse un documentario, anzi un work in progress, ma perché già in predicato per Locarno, l'unico film italiano della sezione Premio Lino Micciché: "Ritrarsi" di Tommaso Cotronei. Quasi una fiction perché ha seguito i suoi "personaggi" ben due anni per raccontare la vicenda di due persone, che poi diventano tre, che decidono di restare ai margini del mondo, quindi ritrarsi in un mondo tutto loro, in parte simile a quello degli ucraini di "Half Past Three".

"Un documentario completamente autobiografico – dice il regista – perché mi identifico profondamente con i protagonisti e sto ai margini come loro, e completamente autoprodotto, girato con una telecamera e un computerino portatile. Li conoscevo sono amici di papà e tutto è nato quasi per caso. Sono andato a trovarli e volevo raccontare-capire se erano stati accantonati o era stata una loro scelta."

La vita ai margini di una coppia calabrese, di Vibo Valentia. Il sessantunenne (ma ne dimostra di più ovviamente) Antonio Salimbeni, la moglie Maria Grazia Pardo e, infine, l'anziana Giuseppina Bono che vive con loro da quando i figli l'hanno abbandonata in un ospizio. E gli amici hanno capito che con la sua pensione potevano camparci in tre, anziché l'istituto o qualcun altro.

"Oggi se c'è violenza, dalla Palestina alla Calabria – aggiunge Cotronei – è dovuto alla mancanza di conoscenza. E' evidente che a un certo punto si deva decidere se andare in una direzione o nell'altra. Ho saputo di una storia vera, esemplare, in Calabria. Una coppia aveva due figli, uno è diventato killer, l'altro si è impiccato." L'autore poi parla di politici e sindacalisti, sia di destra sia di sinistra, che spesso evitano di affrontare il problema, anzi cercano di sfuggire alle proposte e alla ricerca di soluzioni, dimenticando che conoscenza e cultura sono alla base di una convivenza pacifica.

Il rapporto mamma-figlio attraverso il documentario "Mother Tongue: italian American Sons & Mothers" di Marylou Tebaldo-Bongiorno e Jerome Buongiorno. Una spassosa e ironica serie di interviste a illustri personaggi italo-americani e alle loro madri. Quindi una serie di mammoni made in Usa, ma italiani doc di origine. Da Martin (e Catherine Scorsese) all'ex sindaco di New York (infatti gli intervistati sono tutti newyorkesi) Rudolph Giuliani e mamma Helen, da John Turturro e mommie Katherine, a Carl e Mary Capotorto. Naturale che vengano fuori polemiche su stereotipi, vecchi e nuovi, ma si sa che la mamma è sempre la mamma, dapperttutto (vedi le "mamme ebree" di Woody Allen), e – particolarmente – in Italia, ammettiamolo! Anche perché lo stereotipo lo hanno rafforzato spesso gli stessi immigrati per restare aggrappati alle radici e qualcosa di molto simile accade con gli italo-argentini e ve lo posso assicurare per esperienza personale.

Presentato, in piazza, il secondo film in concorso, il toccante e al tempo stesso poetico (visivamente) "Mayak – Il faro" di Maria Saakyan (Armenia-Russia). Colta da nostalgia, Lena lascia Mosca per tornare nel villaggio del Caucaso dove è nata e cresciuta, e dove vivono familiari e amici. Ma la guerra e la miseria che ne consegue minacciano non solo lei e i suoi cari, ma anche di cancellare i ricordi e i sentimenti che legano Lena alle proprie origini.

L'opera prima della Saakyan s'impone per le delicatezza del tono nell'affrontare un tema tragico, ma anche per una ricerca dell'inquadratura e dell'immagine che creano un'atmosfera quasi rarefatta, tra sogno e incubo, ricordo e nostalgia, passato e presente.

Va avanti la retrospettiva di Ivan Zulueta con i suoi cortometraggi, che sono quasi l'ottanta per cento della sua intera opera. Sempre originali e provocatori, influenzati e contaminati (da generi non solo cinematografici), come "Parpados" tutto sull'ambiguo gioco del doppio (dai gemelli a uomo-donna che si identificano e scambiano) e "Ritesti" che, attraverso un racconto horror, riprende un'ossessione del regista, le forme circolari all'interno di una storia circolare. In questo caso, una leggenda mediovale che si ripete all'infinito in una pasticceria notturna che accoglie i viaggiatori che hanno perso l'ultimo treno e che ne diventeranno protagonisti. Amore-cuore, rifiuto-infedeltà e vendetta-assassinio.

José de Arcangelo

lunedì 25 giugno 2007

Festival di Pesaro: Prigionieri italiani e palestinesi in Mostra a Pesaro

PESARO, 25 – Partenza all'insegna del "buon assaggio" di tutte le rassegne per la 43a. Mostra del Nuova Cinema di Pesaro. Ieri, a partire dalle 15,30, sono iniziate le fitte proiezioni con il bello e curioso documentario ‑ della sezione Il cinema italo-americano contemporaneo ‑ di Camilla Calamandrei "Prisoners in Paradise" (Prigionieri in Paradiso) che ricostruisce le vicende e le vite dei prigionieri di guerra italiani, catturati in Africa, e finiti in campi di concentramento negli Stati Uniti. Il fatto inedito perché poco conosciuto è che questi sì prigionieri a tutti gli effetti si sono trovati all'improvviso in una sorta di paradiso dopo essere sfuggiti all'inferno della guerra. Cibo buono e abbondante, possibilità di lavorare nei campi e infine di "collaborare", quando ormai l'Italia si era arresa, con gli americani ma non sul fronte ma nel grande Paese. E non solo i ragazzi hanno avuto la visita delle famiglie italo-americani della zona in cui i campi si trovavano ma anche delle ragazze e, alla fine nonostante siano stati poi rimpatriati, hanno sposato le figlie di cui si erano innamorati ricambiati. Il tutto raccontato con fotografie e filmati d'epoca, ma specialmente con interviste ai diretti interessati sopravvissuti. Il film era stato presentato al Sundance Filmfest ma da noi non si era mai visto.

Subito dopo si è inaugurata anche la sezione "Sos Europa.doc" con l'interessante documentario dell'israeliano Shimon Dotan "Ha'bitchonim – HotHouse" sui prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane che sono circa ottomila. Da una parte sono visti come terroristi e kamikaze assassini, dall'altra come eroi. La videocamera che segue e indaga (attraverso interviste dirette) i prigionieri in un ambiente in cui si ricrea l'ambiente politico intenzionato a influenzare il "mondo esterno".Un'occasione per riflettere su un conflitto che dura da almeno sessant'anni e che la violenza da entrambi le parti non fa che alimentare. Tutti sembrano d'accordo che la soluzione sia raggiungere un accordo di pace ma quando arriva il momento accade, ormai troppo spesso da sembrare voluto, l'imprevisto che lo rimanda per l'ennesima volta.

La selezione ufficiale del concorso, per il Premio Lino Micciché, è stata inaugurata dal cinese Guo Xiaolu con "Jin Tian de Yu Ze Me Yang?" ovvero "Come stanno i tuoi pesci oggi?, un ironico mix di dramma e commedia che narra le vicissitudini di uno sfortunato sceneggiatore che a sua volta ci racconta parallelamente (ovviamente in immagini) la sceneggiatura che sta scrivendo. Chiarissimo i riferimenti al cinema occidentale con tante citazione, dalla pianta di bambù che ha chiamato Fellini al pesciolino "Belle de Jour" (da Bunuel) e ai film on the road – il protagonista come il suo personaggio raggiungono l'estremo nord della Cina, ai confini con la Russia dove si dovrebbe ammirare l'aurora boreale ‑ e al cinema nel cinema di tante opere americane ed europee. A parte la caustica ironia, una costante ricerca visiva attraverso inquadrature, atmosfere e fotografia che, se non è nuova in tutto e per tutto, manifesta una voglia di cambiare e di sviluppare quello che è stato già fatto e sperimentato.

Partenza anche per la retrospettiva "La Z del cinema spagnolo": Ivan Zulueta con "Un, dos, tres, al escondite inglés", una sorta di musical pop-psichidelico – volutamente sgangherato ‑ tra il Richard Lester, regista dei Beatles, e il giovane e folle Ken Russell, ovviamente con la presenza di cantante e gruppi anglo-spagnoli del periodo. Un prodotto tipico degli anni Settanta (girato per la precisione nel 1969), quando in tutti i paesi del mondo occidentale (inclusa l'America Latina) è scoppiata anche una sorta di contestazione contro la musica (leggera) tradizionale che – ufficialmente – veniva usata come scudo (anche repressivo e censorio) contro la "rivoluzione" pop. E Zulueta, come altri suoi colleghi contemporanei, anticipa in un certo senso i videoclip e utilizza le tecniche cinematografiche allora di moda e in ascesa (immagini multipli, caleidoscopiche, sovrimprese).

Ancora cinema italo-americano in serata, in Piazza con il corto "Tiramisù" di Len Guercio e il lungometraggio "Brooklin Lobster" di Kevin Jordan, e al Teatro Sperimentale con "The Florentine – Partita col destino" di Nick Stagliano (1999) che, nonostante il bel cast (dai fratelli Madsen, Virginia e Michael, a Luke Perry, da Jeremy Davis a Chris Penn e Burt Young) non è mai uscito in sala da noi. Una storia di amicizie smarrite e ritrovate intorno al Florentine Café di una cittadina della Pennsylvania, ispirato a una pièce teatrale di Tom Benson e Damien Grey. Cinque amici tra disagi, amori, solidarietà e segreti. Anche la monografica in omaggio a Luigi Comencini è partita con ben quattro titoli degli anni Quaranta-Cinquanta, da "L'imperatore di Capri" (1949) con Totò a "La bella di Roma" (1955) che, di solito, siamo costretti a (ri)vedere esclusivamente sul piccolo schermo.

Ma già oggi il cartellone del festival è ancora più ricco e fitto che mai.