venerdì 26 ottobre 2007

Festa Internazionale del Cinema: L'adolescente Juno conquista il pubblico romano

ROMA, 26 – Penultima giornata per la Festa Internazionale del Cinema di Roma. Presentato in concorso l’irreverente e divertente commedia di Jason Reitman (figlio di Ivan) “Juno” con Ellen Page, Michael Cera, Jennifer Garner, Jason Bateman, Allison Janney e J.K. Simmons. Sceneggiato dalla scrittrice Diablo Cody, narra la storia della sedicenne Juno che ha genitori affettuosi, i sogni di ogni adolescente e un boyfriend adorabile. Ma la ragazza aspetta anche un bambino e risolve la faccenda nel modo meno prevedibile.

“Ero nella mia casa nel Minnesota e mi chiedevo quale fosse la storia che non avevo visto sullo schermo – racconta Diablo ‑. Molte delle cose che vedevo scorrere davanti ai miei occhi mi sembravano trite e ritrite”.

La scrittrice si è così indirizzata verso il proprio passato. “E’ stato tutto incredibilmente naturale – dice ‑ , come prendere una bella boccata di aria fresca perché ho visto Juno come un’estensione di me stessa. Le mie amiche ed io eravamo esattamente come lei e Leah. Parlavamo sempre di sesso. A qualcuno sembrerà scioccante ma è piuttosto realistico”.

“Il ruolo di Juno – afferma la giovanissima Ellen Page – è scritto in maniera esemplare e non è una cosa così comune trattandosi di un’adolescente. E’ onesta e originale, completamente priva di cliché o stereotipi, il che è quasi fantastico per un’attrice. Il mio lavoro è stato quello di calarmi nei suoi panni e cercare di rendere autentici la sua maniera di parlare, i suoi dialoghi ed i suoi rapporti con gli altri. Ma ho scoperto che è una cosa assolutamente naturale quando lavori con persone delle quali ti fidi perché a quel punto riesci ad immergerti totalmente nel personaggio”.

“Quando lavori con dei grandi attori – dice il regista, autore di “Thank You for Smoking” – vuoi lasciarli fare e fare in modo che siano i loro volti a raccontare la storia. Ellen in particolare riesce a fare delle cose quasi impercettibili ma al tempo stesso incredibili cambiando espressione. Posso darle 120 commenti su una singola scena e lei riesce a fare tutto quello che le chiedo alla perfezione”.

Per la sezione Premiere è toccato alla sempre affascinante venere nera Halle Berry, in dolce attesa, salvare l’onore delle star. E’ arrivata a Roma per l’anteprima di “Things We Lost in the Fire – Oltre il fuoco” di Susanne Bier, la regista danese di “Dopo il matrimonio” al suo debutto hollywoodiano. Il film che vanta la presenza del premio Oscar Benicio Del Toro, è la storia di due persone accomunate dalla perdita. Audrey, sconvolta dall’assurda morte del marito, e Jerry, ex avvocato tossicodipendente che sta cercando di uscire dal tunnel della droga.

“Mi interessa sempre ciò che accade alla gente in situazioni estreme – afferma l’autrice ‑. La storia mi sembrava così familiare e allo stesso tempo mi incuriosiva… perché era così realistica, una cosa che poteva veramente accadere. E mi piaceva l’idea di lavorare con Sam Mendes (il regista premio Oscar per ‘American Beauty’, qui nelle vesti di produttore ndr), che ritenevo sarebbe stato stimolante e anche molto piacevole”.

“Halle e Benicio sono entrambi magnifici attori – continua la Bier ‑. E’ meraviglioso guardarli lavorare e sono entrambi molto originali. Ho subito pensato che sarebbe stato fantastico vederli interagire. Mi immaginavo una certa chimica sexy e potenzialmente aggressiva stabilirsi tra loro, ma anche un senso di tranquillità… una sorta di affinità emotiva tra i due, che ritenevo sarebbe stata magnifica”.

“Credo che tutti gli attori debbano faticare – ammette la Berry – per ottenere le parti migliori. I ruoli interessanti sono pochissimi, soprattutto se sei una donna. Il personaggio di Audrey – spiega – non è stato scritto pensando ad una donna di colore. Pertanto non è a me che hanno pensato tutti subito. Ma sin dall’inizio ho detto al mio agente, ‘Io so che non stanno pensando a me, ma se potessi soltanto parlare con la regista…”

L’attrice è stata accontentata quando la Bier si è fermata a New York di ritorno in Danimarca e si sono incontrate in maniera informale. “Speravo – aggiunge la brava e bellissima protagonista – che Susanne sarebbe riuscita a guardare al di là dell’apparenza”. E così è stato.

Originale e commovente il film cinese, in concorso e passato nei giorni scorsi, “Li Chun – And the Spring Comes” di Chang Wi Gu. La storia di Wang Cai Ling, maestra di canto dotata da una voce sublime ma ‘bruttina’, sogna di trasferirsi a Pechino e cantare all’Opera. Ma tutti la snobbano o la respingono, tranne quando vogliono sfruttarla. Funzionari e divieti ufficiali le impediscono di coronare il suo sogno, ma lei ogni settimana si reca a Pechino e fa credere ai vicini di essere una cantante lirica affermata. Prima un giovane operaio vuole avere lezioni di canto da lei, poi un altro, artista fallito, le fa credere di provare un certo interesse per lei, tanto che lei se ne innamora. Infine, una ragazzina le confessa di avere un cancro perché la prepari per un concorso lirico nazionale, a cui partecipare prima di morire.

Raccontato così può sembrare un melodramma melenso e strappalacrime, ma il regista di “Peacok” (Orso d’argento a Berlino) ha in serbo ogni volta un colpo di scena che, dalla presunta favola, ci fa precipitare brutalmente nella realtà più dura e crudele.

Passato anche, sempre in concorso, “Reservation Road” di Terry George (Usa), autore di “Hotel Rwanda”, con Joaquin Phoenix, Jennifer Connelly, Mark Ruffalo e Mira Sorvino. Un dramma di rabbia, vendetta e grande coraggio su due padri, delle loro famiglie e di come le loro vite si incontrano.

E’ un pomeriggio caldo di settembre: il professore Ethan Learner, sua moglie Grace, e la loro figlia Emma stanno assistendo, orgogliosi, al saggio del loro figlio Josh. Parallelamente l’avvocato Dwight Arno e il figlio undicenne Lucas stanno assistendo ad una partita di baseball. La loro squadra del cuore, sta vincendo la coppa dei campioni. Finito l’incontro Dwight si mette in viaggio per riportare il figlio Lucas dalla sua ex moglie Ruth. Ma, in un istante, una terribile fatalità cambierà per sempre la loro esistenza… sulla Reservation Road.

Tanti, comunque, i film presentati che è impossibile vederli/seguirli tutti, anche perché le diverse sezioni corrono via parallelamente. E per questa ragione abbiamo dovuto trascurare “Alice nella città” che ha presentato tanti altri film interessanti, soprattutto che raccontano storie su o per ragazzi provenienti da tutto il mondo. Così come i diversi omaggi della sezione Extra che oltre Marco Ferreri e Totò, ha ricordato oggi anche Pier Paolo Pasolini (e Giovanni Guareschi) con la proiezione della versione restaurata di “La rabbia”.

Domani mattina (ore 11.30) il concerto dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, diretta dal M° Ennio Morricone – premio Oscar alla carriera 2007 ‑, precede la cerimonia di premiazione. In serata proiezione del film di chiusura, in anteprima, "L'abbuffata" di Mimmo Calopresti con un nutrito cast capeggiato da Diego Abatantuono. E domenica proiezione dei film premiati nelle diverse sezioni.

José de Arcangelo

giovedì 25 ottobre 2007

Festa Internazionale del Cinema: Dagli anni Sessanta dei Beatles all'attualità di Extra doc

ROMA, 25 – Film evento della giornata, molto atteso alla Festa del Cinema, nella sezione Premiere, è stato il musical “Across the Universe” di Julie Taymor, ispirato alle canzoni (33) dei Beatles e con le coreografie di Daniel Ezralow, molto noto in Italia, per averci lavorato per anni.

“E’ stato veramente spaventoso dover fronteggiare l’eredità della musica dei Beatles – dice la regista ‑, perché rappresenta il Sacro Graal. E’ così importante per tante persone e gli originali erano perfetti. Sapevamo fin dall’inizio di non voler competere con le versioni dei Beatles”.

Quindi, nel film rivivono oltre che le musiche anche l’atmosfera, i sogni e, in un certo senso, le ideologie degli anni Sessanta, attraverso la storia di due innamorati dal destino avverso, assieme ad un piccolo gruppo di amici e musicisti, vengono coinvolti dai movimenti emergenti della controcultura che contestano la guerra del Vietnam.

“Sebbene Elliot (Goldenthal) sia un compositore e non c’erano canzoni da realizzare in questa occasione – continua l’autrice ‑, i suoi arrangiamenti e la sua comprensione del dramma e dei personaggi sono magnifici. Ho lavorato con lui per vent’anni e ho una completa fiducia ed ammirazione per le sue opere. Sapevo che avrebbe trovato un modo diverso di interpretare le canzoni e così, presentandole con dei nuovi arrangiamenti, la musica sarebbe tornata ad essere originale. Non significa che questa sia una versione migliore, è soltanto differente”.

Camei d’eccezione, tra cui quello di Bono degli U2 nel ruolo di Dr. Robert, Salma Hayek (amica della regista) che interpreta ben 5 infermiere sexy e tutte contemporaneamente grazie al motion control, e Joe Cocker che è ubriacone, pappone e hippie canterino in “Come Together”.

Presentato anche ieri sera, in concorso, il nuovo film di Emidio Greco “L’uomo privato”, un autore che divide sempre la critica in pro e contro.

Un professore di Diritto, quarantenne affascinante, intelligente, ironico e affermato socialmente e professionalmente, è corteggiato dalle donne, verso le quali mostra un’accorta disponibilità. Ma è anche un personaggio chiuso in sé, rinserrato nelle sue condizioni di “privilegio”, vissute e usate come corazza contro la “volgarità e insensatezza della realtà”, verso la quale ha un atteggiamento di totale e aristocratico rifiuto. Vive, quindi, in una sorta di torre d’avorio che sembra nulla possa mai violare. Tanto che spesso non esita a reprimere i propri sentimenti e a sacrificare quelli degli altri. Fino a troncare all’improvviso la relazione con Silvia, una giovane follemente innamorata di lui.

Ma il destino gli prepara una brutta sorpresa. Nelle tasche di un giovane suicida – che si scopre un suo assiduo studente – la polizia trova un foglio di carta con il suo nome e il suo numero di telefono. E la sua “perfetta” esistenza non sarà più come prima, mentre la vicenda di tingerà di giallo.

“Un personaggio, una situazione e un racconto – dice il regista – che nascono da un sentimento diffuso e condiviso: la tentazione di fuga o di isolamento, di chiusura al mondo di fronte alla iattanza di una quotidianità e di una realtà delle quali si sono persi le coordinate e i punti fermi (o ritenuti tali) che davano ad esse senso e ragione. Con inevitabile approdo: la frustrazione del proposito nel confronto con la forza delle cose”.

Dunque, non solo un racconto ma anche, come sempre nel suo cinema, una riflessione – anche complessa sotto l’apparente “banalità” della vita – sul malessere e l’insoddisfazione nella normalità-anormalità del reale. Nel cast Tommaso Ragno, Myriam Catania, Giulio Pampiglione, Mia Benedetta, Ennio Coltorti, Mariangela D’Abbraccio, Vanessa Gravina, Vanni Materassi e Catherine Spaak. Musiche del premio Oscar Luis Bacalov.

In concorso anche “El pasado” (Il passato) di Héctor Babenco, coproduzione argentino-brasiliana, dopo i film hollywoodiani degli ultimi anni (da “Il bacio della donna ragno” a “Ironweed” e “Giocando nei campi del Signore”). Tratto dal romanzo omonimo di Alan Pauls (Feltrinelli) e sceneggiato dal regista con Marta Goes, il film narra la storia del giovane traduttore Rimini, il cui matrimonio con l’amore dei tempi del liceo, Sofia, sta approdando alla fine. Una separazione di comune accordo che per lui diventa presto incubo, perché Sofia “non molla”. Lui inizia una relazione con la modella Vera, ossessionata dal tradimento, che proprio per colpa della ex finirà tragicamente. Quando tutto sembra ristabilito, Rimini sposa la collega Carmen, ma una misteriosa amnesia traumatica cancella dalla sua memoria la conoscenza delle lingue che traduce. Però, nonostante sia costretto a rinunciare al lavoro, la nascita di un figlio, Lucio, risolleva il suo spirito. Ma è ancora Sofia a distruggere tutto: rapisce il bambino e racconta una menzogna. Lui perde moglie e figlio in un sol colpo, e finisce per fare il preparatore atletico in palestra. E Sofia si ripresenta ancora una volta come ‘salvatrice’ e, fondatrice del circolo femminile “Adele H.” per donne che amano troppo, lo mostra come se fosse un trofeo.

“Il libro parla del rapporto di due giovani – afferma il regista ‑ dopo che si sono separati e le conseguenze che il ritorno di un sentimento che è concluso ed è passato può avere sul presente. Il fatto che i protagonisti siano molto giovani conferisce al film una sorta di aureola virginale, una purezza ed un’innocenza che riportano al passato. In effetti, è una storia che è agli antipodi di tutto quello che viene fatto nel cinema contemporaneo e anche di quello che si può immaginare il pubblico voglia vedere. Ma non è né femminista né antifemminista”.

“In fin dei conti – aggiunge ‑, la decisione di fare questo film mi ha riportato in un universo dal quale mancavo da troppo tempo, quello degli emarginati. Non parlo soltanto di ‘Pixote’, ma anche del ‘Bacio della donna ragno’, ‘Ironweed’ e ‘Carandiru’. Mi ha fatto tornare all’universo delle emozioni e dei sentimenti presenti in un rapporto uomo-donna. E’ un libro che parla dei sentimenti degli uomini nel rapporto con le donne”.

Ma la storia potrebbe anche essere ribaltata, nel caso in cui è l’uomo che “non lascia mai”.

Sulla scelta del messicano Gael Garcia Bernal come protagonista, Babenco dichiara: “Ho iniziato a pensare ad un attore sui trent’anni e che fosse taciturno, calmo e tranquillo, meno energico della generazione atletica moderna da Gatorade. D’altra parte, non volevo un giovane che avesse un approccio distruttivo, dark o triste nei confronti del mondo. Riassumendo, avevo bisogno di un attore che mi assomigliasse. Qualcuno che, fin da giovane, si fosse posto molte domande e non avesse trovato tante risposte. Un uomo che ama le donne”.

“Poi ho capito che non potevo girare, ambientare, la vicenda in Brasile, perché è una società diversa, se vogliamo più ‘leggera’, allegra. Il protagonista doveva essere, quindi, un attore di lingua spagnola. Un giorno apro il giornale e leggo che Gael recita Garcia Lorca a Londra. Ho preso l’aereo, ho visto lo spettacolo e poi ho parlato con lui della sceneggiatura che però non era ancora finita. ‘Mandamela quando sarà pronta’, mi disse. Ma, visto che sapevo bene che Gael riceve tante sceneggiature ogni settimana, mi sono ricordato che Kubrick non inviava mai uno script ad un attore, ma li incontrava per leggerli insieme, e decise di fare la stessa cosa. Abbiamo organizzato un incontro a Buenos Aires, nel novembre 2005, quando lui era in città per un altro film. Abbiamo letto la sceneggiatura con alcune amiche attrici e due settimane più tardi ho ricevuto la mail da parte sua, in cui mi diceva che sarebbe stato disponibile per il film a luglio del 2006”.

“Rimini è un personaggio tragico – conclude il regista ‑, nella grande tradizione degli eroi maschili di Dostoevskij o Camus. E’ la descrizione della mascolinità più fragile, molto lontana dall’archetipo universale dell’uomo virile che si vede nel teatro e nella televisione moderni. E’ un uomo, ma non è un ‘macho’. La mascolinità viene spesso scambiata con la mancanza di sensibilità. Mi identifico con un personaggio come lui”.

Anche quest’anno, Cult (canale 142 di Sky) assegnerà il Premio Cult al miglior documentario in concorso della sezione Extra (altre visioni). La giuria: Sherin Salvetti, vice presidente di Fox Channels Italy, Aldo Grasso, editorialista e critico televisivo, Erik Gandini, regista, Roberta Torre, regista, Simone Cristicchi, cantautore. Tutti interessanti i film selezionati: “Forbidden Lies” di Anna Broinowski (Australia), è la storia vera di Norma Khoury, autrice del bestseller omonimo, racconto di un delitto d’onore in un paese arabo, di cui fu vittima la sua migliore amica; “The Gates” di Antonio Ferrara e Albert Maysles segue la preparazione e l’inaugurazione dell’installazione degli artisti Cristo e Jeanne-Claude, realizzata a New York nel 2005, dopo aver impacchettato il Reichstag di Berlino e Pont Neuf a Parigi; “In Prison My Whole Life” di Marc Evans (GB), prodotto dall’attore Colin Firth e patrocinato da Amnesty International, narra la vita di Mumia Abu Jamal, un giornalista ex membro delle Pantere Nere, condannato a morte nel 1982 per il presunto omicidio di un poliziotto. Un documentario originale perché a raccontarlo è William Francorne, un giovane inglese nato lo stesso giorno in cui fu commesso il crimine; “The King of Kong: A Fistful of Quarters” di Seth Gordon (Usa) che racconta l’età d’oro (anni ’80) dei videogames attraverso l’eccentrica ossessione di un tipico ‘local hero’ della provincia americana, deciso a diventare primatista mondiale.

“Manda bala – Send a Bullet” di Jason Kohn (Brasile-Usa), è invece un documentario curioso e sorprendente, vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Filmfest, che ci mostra una Sao Paolo inedita e, ovviamente, piena di contraddizioni. E’ la metropoli con il maggior numero di elicotteri privati e macchine blindate, dove la corruzione non solo trionfa ma è un investimento economico e politico, e il crimine (soprattutto i sequestri) è un’attività così diffusa da essere praticata come routine. Intervistate le vittime, spesso mutilate vengono poi curate da un chirurgo plastico locale che si è specializzato nel ricostruire orecchie, dita e altro; e un rapitore (mascherato) che si dichiara una sorta di Robin Hood: con i soldi avuti aiuta gli altri membri delle favelas a sopravvivere e a costruirsi una casa. Ma non solo, al centro della corruzione sono coinvolti gli allevamenti di rane per il mercato alimentare, un vero boom economico che, da una parte, rimedia all’estinzione dei batraci a causa dei pesticidi; dall’altra mette a rischio ancora una volta l’Amazzonia.

Cinefilo e nostalgico “Natural Born Star” di Even Benestad (Norvegia) che ricostruisce la carriera dell’attore norvegese Fred Robsahm, diventato una star degli spaghetti-western. Appassionato di mare e sbarcato a Roma, Fredrik trova fortuna nel mondo del cinema di genere. E, tra un western e un poliziottesco, sboccia l’amore (sul set) con la diva e sex symbol degli anni ’70 Agostina Belli. Un grande amore che sembra non dover finire mai, però negli anni ’80, una crociera nel Mediterraneo cambia per sempre la sua esistenza. Un documentario costruito come un melodramma con materiali e spezzoni d’epoca, un’originale intervista con Robsahm oggi e che si conclude con il rincontro con l’amata Agostina.

Di “Le pere di Adamo” e “The Universe of Keith Haring”ne abbiamo già parlato (domenica 21) in occasione della loro presentazione, mentre “La position du lion couché” di Mary Jimenez (Belgio), narra di Anne, una donna che cerca di organizzare la propria morte in funzione dei suoi amici: sono loro, in fondo, che patiranno la sua assenza. Un storia, ovviamente, straziante ma da un punto di vista che raramente il cinema affronta, prodotto dalla Dérives dei fratelli Dardenne. Con “Sigur Ros – Heima” di Dean DeBlois (Islanda) seguiamo invece il tour dei Sigur Ros attraverso il loro paese, l’Islanda. Paesaggi spettacolari, anzi sublimi, contrapposti alle sonorità ieratiche e ancestrali della band. Un poetico mix di natura e musica.

“La sombra del iceberg” (L’ombra dell’iceberg) di Hugo Domenech e Raul Montesinos (Spagna), “indaga”, settant’anni dopo la celebre foto di Robert Capa che immortalò un soldato dell’esercito repubblicano colpito da un proiettile sparato dai franchisti, sulla veridicità dello scatto. Dal 1936, per tutti, è l’immagine che fissò per la prima volta l’istante preciso della morte in battaglia, i registi – intervistando esperti in ogni campo – cercano di scoprire se questa icona del secolo scorso sia autentica oppure il risultato di una geniale messa in scena.

“Taxi to the Dark Side” di Alex Gibney (Usa), premiato come miglior documentario al Tribeca Filmfest, racconta dell’omicidio di Dilawar, un tassista afgano, avvenuto nella base militare americana di Bagram. Da questo episodio scatta una sorta di indagine, con sorprendenti scoperte ed una tensione da thriller, sulle tecniche di repressione e tortura messe in atto dall’amministrazione Bush dopo l’11/9. “The Unforeseen” di Laura Dunn (Usa) è, invece, la storia di un ambizioso fattore texano che diventa facoltoso imprenditore con il boom edilizio degli anni Settanta. “War Dance” di Sean Fine e Andrea Nix (Usa) ci riporta invece tra i bambini dell’Uganda, dove vent’anni di guerra hanno provocato a 30mila bambini, non solo la perdita di casa, famiglia e infanzia, ma anche l’arruolamento nell’esercito ribelle. In un campo profughi, i piccoli sopravvissuti Dominic, Rose e Nancy cantano e danzano seguendo il ritmo dei loro avi. E si preparano ad un viaggio per dimenticare la tragedia e raggiungere la capitale dove partecipare all’evento dell’anno: il Kampala Music Festival.

“Zero – Inchiesta sull’11 settembre” di Franco Fracassi e Francesco Trento (Italia), da un’inchiesta di Giulietto Chiesa, che – attraverso le testimonianze di scienziati, militari e testimoni oculari – fanno luce sulle contraddizioni (e menzogne?) della versione ufficiale. Come e perché sono crollate le torri gemelle e l’edificio 7 del World Trade Center? Com’è possibile che la difesa aerea più potente del mondo abbia reagito senza la minima capacità di efficacia e contrasto? Perché sono state trascurate alcune informazioni? Narratori di eccezioni di questo illuminante e provocatorio documentario, su un tragico evento che ha cambiato non solo il mondo ma anche il nostro modo di rappresentarlo, sono Dario Fo, Lella Costa e Moni Ovadia.

Extra ha ospitato il pilot di un serial Fox Channels Italy, ispirato all’omonima miniserie argentina “Mujeres asesinas”, a sua volta liberamente tratta dal libro omonimo di Marisa Grinstein. L’episodio pilota di “Donne assassine” di Herbert Simone Paragnani è stato girato tra Buenos Aires e Torino, e ha come protagoniste Donatella Finocchiaro e Sabrina Impacciatore. Più melodrammatico, meno duro e crudo dei tv-movie argentini, il pilot però si presenta comunque un gradino più su della media televisiva italiana.

“Nel film si parla di un amore lesbico – dichiara il regista ‑, e di un delitto efferato che coinvolge una ‘donna di Chiesa’. Tutti tabù che nessuna rete ‘in chiaro’ sarebbe disposta a infrangere. E’ molto tempo che lavoro per il piccolo schermo, e l’esperienza mi ha insegnato che la tv generalista rifiuta il concetto di autorialità. Più che una critica, è una constatazione: i prodotti televisivi italiani si somigliano tutti, sempre alla ricerva d’un tocco di mélo, persino nelle sit-com”.

Domani ci attende il penultimo giorno di questa Festa, un po’ sfortunata riguardo al tempo. Dopo il weekend di freddo polare, ha dovuto affrontare anche la pioggia.

José de Arcangelo

mercoledì 24 ottobre 2007

Festa Internazionale del Cinema: Il leggendario Terrence Malick e il mitico Sean Penn

ROMA, 24 – Dopo gli italo-americani di “The Dukes”, l’attesa era tutta per Sean Penn e il suo nuovo film “In the Wild” con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, Jena Malone, Catherine Keener, Vince Vaughn e William Hurt. Un dramma, ispirato a un fatto vero e tratto dal libro “Nelle terre estreme” di John Krakauer (Corbaccio).

Ottenuta la laurea e con un promettente futuro davanti a sé, Christopher McCandless decide di abbandonare la sua vita agiata, di cancellare la sua identità e di partire alla ventura senza lasciare tracce, verso l’ignoto. Anzi, verso l’Alaska. Le tappe ora dure ora gioiose del viaggio di un giovane, audace e ingenuo, idealista e sensibile alla ricerca di se stesso, ma anche della felicità e della verità. Ma si sa, la natura può essere matrigna.

“L’avevo visto in un film – esordisce Penn a proposito del protagonista, Hirsch ‑, l’aspetto fisico, il suo modo di muoversi mi spingevano a credere che fosse giusto per la parte. Per qualche mese, ho passato del tempo insieme a lui per capire se avesse la volontà e la forza per passare 8 mesi in circostanze difficili. E’ la più grande scommessa che abbia vinto”. Già perché il giovane in ascesa, visto in “Alpha Dog” e “The Dangerous Lives of Altar Boys”, se la cava più che bene in un ruolo difficile e fuori dagli schemi.

“Penso e trovo un’infinità di cose che mi fanno arrabbiare – aggiunge l’attore-regista presentatosi con occhiali da sole e poco concentrato ‑, ma non credo di poter trovare l’ispirazione su questa base. Quando la stupidità raggiunge un volume troppo alto, questo sì mi fa arrabbiare profondamente. Suppongo che la mia esperienza più vicina a certi aspetti del film può essere quel periodo della mia vita passato sull’oceano, ma non credo a quel livello. Scusate, ma forse ho bevuto troppo vino rosso ieri sera”. Aggiunge per giustificare una certa distrazione.

“Suppongo di essere stato molto ripetitivo, ma penso che veniamo (gli Usa e l’Occidente) da un periodo in cui abbiamo sviluppato una dipendenza al confort, e che ciò susciti nei giovani la reazione di uscire da queste condizioni, riguardo a quello che gli altri ci dicevano di fare o volevano che facessimo. Dobbiamo fare battere i nostri cuori più velocemente. Due elementi principali mi hanno fatto da ancora, una parte della storia è mossa dalla fuga, dalla corruzione della vita che lo circondava; l’altra è l’inseguimento di qualcosa, un posto che avesse un senso per lui, in sintonia con la persona che sentiva di essere”.

“Per me l’equilibrio era far diventare reale Chris – dichiara Hirsch ‑, senza farlo diventare né martire né santo, esprimere tutto quello che sentiva, dargli una certa credibilità, non dargliele tutte vinte, perché era ora egoista, ora sconsiderato, ora avventato. Mantenere una certa autenticità anche nei difetti, nella sua sensibilità, perché sono i difetti che ci rendono umani”.

“Non ho fatto nessun tipo di forzatura – aggiunge Penn ‑, volevo permettere di condividere l’esperienza di una persona a chi vede il film, le persone che cerchiamo di essere anche con i difetti. Se pensate ragionevolmente e con onestà, capirete che la natura ci sovrasta comunque. Non mi sono permesso nessun eccesso né in un senso né nell’altro”.

“I film politici – continua il regista ‑, dipende da come venga interpretata la definizione, per me sono quelli che esprimono qualcosa di importante per il cineasta nel momento in cui lo fa. Quelli collegati con la natura, che la ritengono comunque una priorità, che sostengono che va salvaguardata”.

“Cerco di stare molto attento alle risposte – dichiara il produttore Bill Pohlad della Paramount ‑, del punto di vista del pubblico. Bisogna liberarsi dai condizionamenti, non ha nessun valore se non siamo capaci di sostenerlo e condividerlo. In tutti i film che ho fatto credo sia stata la testardaggine la cosa in comune”.

“Le altre persone che sono qui con me sono importanti – ribatte Penn ‑, mi hanno sostenuto dall’inizio alla fine. Bill mi ha sostenuto e incoraggiato, non ci sarebbe il film senza di lui. La famiglia è una questione difficile – aggiunge sui temi della sua opera ‑, non credo nel debito di sangue, ma tutti dovrebbero essere più tolleranti e comprensivi anche con persone che non sono del nostro stesso sangue. Qualsiasi individuo deve essere pronto a tagliare i legami, è una cosa necessaria, che include anche cambiare pelle rispetto ai genitori per poter scoprire chi si è veramente. Si tratta di un atto di fede, ma non lavoro per descrivere una religione, la cosa più importante è l’aspetto personale, espresso o inespresso, conscio o inconscio”.

Per esprimersi sull’attualità politica americana, Penn si affida alle parole di Bruce Springsteen che, durante il periodo governativo di Bush padre, a un suo concerto disse: ‘Guardate quanta strada abbiamo fatto… e ora stiamo tornando indietro”.

“Sapevo che avrei dovuto stare troppo tempo all’intemperie e in condizioni disagiate – dichiara il protagonista ‑. Ho fatto allenamento, corse, un po’ di sopravvivenza. Un livello di fisicità per me molto nuovo, dovevo guidare un kajak senza esperienza alcuna, fare camminate, arrampicate. In Alaska, dove ho indossato vestiti molto vicini al suo vero abbigliamento, ho patito il freddo e, nel deserto, il caldo eccessivo. Anche la troupe ha sofferto per quanto caldo faceva”.

“Qualche volta un regista mi ha avvicinato perché voleva usare la mia voce – dice Penn ‑, farmi fare la voce narrante. Gli attori sono cambiati negli anni, ci penso ancora alla recitazione, ma mi sono innamorato della regia. Le scelte sono invece molto simili al modo con cui scegliamo un partner. Bisogna scegliere bene sennò ci si ritrova in trappola”.

“Il mio atteggiamento è diverso da quello del personaggio – afferma Hirsch ‑, più intenso riguardo alla gioia che mi dà la natura, all’idea di espansione. Ma l’altra faccia della medaglia è il rispetto per il pericolo sempre presente, quando si vede da vicino, devi capire a che velocità una situazione può diventare pericolosa, avere sempre presente il senso della mortalità. Alcuni pensano che non accadrà mai a loro qualcosa di male a contatto con la natura, ma anche uno scivolone può causare la morte, provocare una disabilità permanente. Bisogna avere paura di se stessi in molti modi”.

“A Terry gli voglio bene – dice l’attore-regista a proposito di Malick che ha diretto anche lui ne “La sottile linea rossa” ‑, una persona davvero unica, mi ha sempre dato molte emozione, mi ha fatto venire in mente la voglia di lavorare. Mi sorprende che abbia sempre risposte da dare alle grandi domande sul mondo e sulla natura”.

Sulla famiglia McCandless, poi confessa: “Il rapporto è stato di fiducia reciproca, è trascorso del tempo, dieci, anni finché mi hanno permesso di fare il film, e mi hanno aperto la loro casa”.

“Ho conosciuto la sorella Carine – dice il protagonista ‑, mi ha illuminato, mi ha fatto capire chi era Chris, questo più di tutto. Sentire l’amore che aveva la sorella per Chris, è stato come scoprire il centro, il suo cuore. Bisogna avere maggiore rispetto di quel che si fa, e ci si rende conto che gli altri, quelli a cui ti ispiri, sono persone come noi, soffrono, hanno dei sentimenti”.

Su progetti futuri o probabile film a Roma, Penn conclude in tono scherzoso: “Ho passato solo una notte in Italia, sono uscito a bere, è già una grande sfida per me. Datemi tempo”. E su Hirsch:

“Il mio contribuito è stato solo averlo scelto, mi piace sentire che il suo lavoro viene apprezzato”.

Dopo il mitico Penn, è stata la volta del “colpo grosso” della Festa del Cinema. Il leggendario Terrence Malick, appunto, che non concede interviste da trent’anni, durante i quali ha realizzato soltanto quattro film: “La rabbia giovane” (1973 ma uscito da noi anni dopo, sulla scia del successo dei protagonisti Martin Sheen e Sissy Spacek), “I giorni del cielo” (1978), “La sottile linea rossa” (1998) e “Il nuovo mondo” (2006). E non si fa né fotografare né filmare, infatti esistono in giro due o tre vecchie foto di gioventù. Ha accettato di venire a Roma, convinto da Antonio Monda e da Mario Sesti, curatori dell’incontro, col pubblico e la stampa al buio e senza la possibilità di fare domande.

E, a conferma, che anche lui è convinto che l’artista non deve parlare della propria opera né svelare quello che voleva esprimere, ha voluto concentrare l’attenzione della chiacchierata sul cinema italiano. Introdotta ogni volta da uno spezzone scelto da lui stesso.

Il primo riguardava il grande Totò, con la scena del ‘burattino” di “Totò a colori” e quella della “cassaforte” in “I soliti ignoti”.

“Amo questi film di Totò – confessa – perché ho scoperto in lui un grandissimo comico simile soltanto a Charlie Chaplin e Buster Keaton. Ha un volto melanconico come Keaton, un’aria triste, come se dietro facesse capolino la morte. Non riesco a capire perché non sia stato subito riconosciuto dalla critica italiana, ma piace a tutti”.

“Ne parlavamo con entusiasmo – continua ‑ del cinema italiano, veniva da noi (lui e i futuri colleghi Scorsese, Cimino, Spielberg, ecc., allora studenti di cinema ndr) accolto come una scoperta, come una finestra su un mondo da esplorare, ignoto. Ma non potrei scegliere un film in particolare, sarebbe come scegliere una stella del cielo. Mi ricordo che quando usciva un nuovo film italiano veniva da noi accolto come fosse di qualcuno a cui tenevamo, di qualcuno della nostra stessa famiglia, sono stati anni straordinari, regnava uno spirito fraterno”.

“Benigni, dietro le quinte delle analogie – afferma ‑, esprime gioia, amore, allegria. Ha nello stesso sguardo la malinconia e l’effetto esilarante. E’ il vero erede di Keaton e Chaplin”.

Poi tocca alla scena degli “schiaffi” (quando il padre scopre il “disonore”) di “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi.

“Innanzitutto, l’onore che era molto importante per la famiglia ed è diventato con gli anni meno importante, ma che la sceneggiatura ha il potere di trasformare in tragedia o in commedia. Sembra un’altra epoca, c’è un umorismo che non ti fa ridere a crepapelle ma che ti dà una sensazione di calore umano, ti fa sentire bene. L’amore, la felicità ti soddisfano, ti fanno sentire lieto come un bambino, sembra questa la giusta prospettiva per uscire e chiudere la porta dimenticando tutti i dolori e le tragedie del mondo. E’ l’umorismo particolare di certi film di Fellini, Keaton, Benigni. Molto diverso dall’ironia che si usa oggi che non risparmia nulla e nessuno, ma serve per ‘imbrattare’ la situazione”.

E a proposito di Germi: “In ‘Divorzio all’italiana’ appena appare Marcello Mastroianni, tutto agghindato, si illumina la scena. Un modello di sceneggiatura, non so se perché era un periodo particolare, ma l’amavo molto, come le commedie di Fellini ‘Lo sceicco bianco’ e ‘Il bidone’ E poi gli attori che più che recitare sembrano prendere vita nel film, inimitabili”.

“Lo sceicco bianco”, la scena in cui lei scopre il suo idolo sull’altalena nella pineta

“In assoluto la scena più famosa – afferma Malick ‑, anche se è difficile sceglierne una. La giovane provinciale scopre davanti a sé il suo sogno nel modo più grande e più bello che conosce. Lui è pieno di sé, fa solo scena, e noi soffriamo per lei. E’ un imbroglione che non si può non amare. Sordi è un grandissimo attore, ti travolge, ti fa dimenticare tutto”.

La quarta e ultima sequenza scelta riguarda “Il posto” di Ermanno Olmi (1961)

“Da giovane il mondo si rimpicciolisce intorno a te – dice il leggendario autore ‑ e ti senti intrappolato. Una fiamma che continua a bruciare, una sceneggiatura appena abbozzata, in punta di piedi, all’epoca il film è stato molto importante per me. Un vero capolavoro”.

Malick accetta di parlare della sua presenza come attore in “La rabbia giovane” e ci racconta come è andata. “E’ stato necessario – confessa – perché l’attore locale che doveva fare quella piccola parte non si è presentato, e dopo averlo aspettato a lungo decise di farla io. Mi resi conto di quello che è il lavoro dell’attore, in cima a un edificio molto alto, perché non riuscivo a smettere di ridere. Alla fine dissi ‘domani la rifacciamo con l’attore vero’ e Martin ribatteva ‘rovinerà il film’, mi ricattava e continuava a scherzare. Mi sono dovuto mettere il cappello texano perché faceva un caldo eccessivo, come in Sicilia”.

“I protagonisti li abbiamo trovato per caso. Martin Sheen faceva già teatro, ma è passato per strada proprio mentre il responsabile del casting stava cercando giovani attori per il film. Sissy Spacek invece è venuta per accompagnare un’altra attrice e credo portasse con sé la chitarra. Infatti è proprio originaria del Texas e allora cantava. Ricordo bene gli attori, mi piacevano molto e hanno reso il più possibile umani i loro personaggi. Per Martin è stato molto difficile perché il suo non ha alcun senso morale, è uno senza sensibilità. Sissy fu molto brava e grata.”

Domani è il turno dell’atteso musical di Julie Taymor “Across the Universe”, ispirato alle canzoni dei Beatles (ben 38), con Evan Rachel Wood, Jim Sturgess e Joe Anderson, una delle ultime anteprime straniere (nelle sale dal 23 novembre), mentre in concorso si vedrà l’argentino-brasiliano “El pasado” (Il passato) di Héctor Babenco con Gael Garcia Bernal. E vanno avanti anche le altre sezioni, di cui ne parleremo in seguito.

José de Arcangelo

martedì 23 ottobre 2007

Festa del Cinema: impegno e comicità con Redford, Cruise, Davi, Bogdanovich e Totò

ROMA, 23 – Il regista Robert Redford e il protagonista Tom Cruise di “Leoni per agnelli” (in anteprima e nelle sale a Natale) ‘non hanno dato buca’ alla Festa del Cinema. E meno male perché i loro colleghi (anche meno famosi) all’ultimo minuto o ci hanno ripensato o hanno avuto dei “problemi” per raggiungere il nostro paese in tempo. Giustificato il grande Sidney Lumet a cui il medico, per un problema all’udito, ha proibito di prendere l’aereo, ma il suo nutrito cast di star vecchie e nuove non si è minimamente degnato di farci una visitina, anzi hanno lasciato “solo” il produttore a presentare il film “Before the Devil Knows Your’re Dead”. Certo in un festival dovrebbero contare più gli autori e gli attori, piuttosto che le star. Ma per la “Festa” (non solo) il pubblico e i giornali pretendono divi da sfoggiare. E oggi lo potranno fare.

“L’origine del film? – dice Redford ‑ Ho ricevuto il copione (di Matthew Carnahan, “The Kingdom” ndr) a cui erano interessati entrambi (Meryl Streep e Cruise ndr), ho visto che era molto intelligente, che non riguardava la guerra in Iraq, ma un tema molto più profondo, gli effetti e le conseguenze sul nostro paese. Ha molti dialoghi, è impegnativo, interessante, riguarda molte delle cose che ci hanno interessato negli ultimi anni. Che uno appena uscito dal carcere, potesse scrivere una sceneggiatura così ti colpisce – scherza ‑. Ho sentito che Matt è seduto lì, non è vero niente è tutto uno scherzo. E poi il fatto che potesse essere fatto adesso, quando non ci sono molti film così, infatti, escono buone pellicole d’azione ed effetti speciali, ma pochi affrontano i temi che hanno toccato il nostro paese e che riguardano tutto il mondo”.

E poi chiarisce: “Se questo fosse stato semplicemente un film sulla guerra, probabilmente non avrebbe suscitato il mio interesse, perché sapevo che questo argomento comparirà in molte trasposizione cinematografiche nel tempo. Invece, quello che mi interessava è il modo in cui la storia utilizza la guerra per raccontare tre vicende personali su dei problemi che mi stanno molto a cuore: il ruolo dei media, dell’istruzione, della politica e della gioventù negli Stati Uniti. Quello che mi interessava in particolare era l’idea che queste storie, in qualche modo, potessero essere messe insieme in maniera drammatica, per spingere il pubblico a riflettere su quale sia la nostra situazione attualmente”.

Il Senatore che aspira alla Presidenza Jasper Irving (Cruise) sta per fornire una storia sensazionale su una nuova strategia bellica ad una giornalista televisiva (Streep). Un professore un tempo idealista, Malley (Redford) si confronta con uno studente capace e smaliziato, che ha bisogno di una spinta. Nel cuore della battaglia in Afghanistan, due ex studenti di Malley, i volontari Arian (Derek Luke) ed Ernest (Pena) vivono sulla propria pelle i dibattiti e i discorsi dei mentori e dei politici in un accesso combattimento per la sopravvivenza.

“Quando ho sentito che Bob voleva fare film così mi ha entusiasmato moltissimo – afferma Cruise ‑ anche a Meryl. Ho studiato la sua carriera, come cineasta, come attore, come uomo, come ha fondato il Sundance, come ha rotto con il sistema degli studios e ha fatto i film che voleva fare. Opere come “Il candidato”, “Tutti uomini del presidente”... Quando ho fatto “Taps” con Timothy Hutton, Bob gli aveva appena dato la sceneggiatura di “Gente Comune” (il film premio Oscar dove Hutton era protagonista ndr), e ho notato allora che davvero riesce sempre a comunicare delle idee importanti in modo appassionante, in qualcosa che è anche bello da vedere. Penn (Sean) e io mettevamo sotto Timothy per sapere che effetto faceva lavorare con lui, gli chiedevamo ‘cosa ti dice’. Ora a distanza di anni, poter lavorare con lui è stato straordinario. Il mio personaggio è molto reale, non una caricatura, la sua complessità, la sua intelligenza, certo è molto diverso di come sono io. E poi recitare faccia a faccia con Meryl Streep!”.

“Il mio interesse in politica è come cittadino e artista – confessa l’autore-attore ‑, si hanno due scelte, o uno si interessa o è indifferente. Io volevo comunicare alcune cose che sentivo, in particolare l’amore per il mio paese. Ho avuto la fortuna di essere nato e cresciuto in America. Ma quando le virtù (libertà, democrazia) scompaiono, vengono sbiadite, non rispettate tutto cambia. ‘Il candidato’ era qualcosa di appassionante, una frecciata su alcune cose che succedono durante la campagna elettorale, e mi sono adattato al periodo (anni ’70) per far vedere come vengono scelte queste persone. Un fatto molto dark, e molto buffo, devono usare una sorta di maschera. Anni dopo, quando il giornalismo stava salvando il primo emendamento dagli abusi terribili sulle leggi e i diritti nel mio paese (‘Tutti gli uomini del Presidente’). ‘I 3 giorni del condor’, narrava di un’agenzia (la Cia ndr) che non risponde e non deve rispondere a nessuno, e in che modo questi abusi possono toccare una singola persona. Ora c’è internet, la tivù via cavo, si crea più informazione, ma anche la possibilità di manipolarla di più. Oggi più che mai questi cose succedono, ci sono tanti problemi. Abbiamo perso delle vite umane, i sentimenti, la nostra posizione di rispetto, anche socialmente. Il rapporto tra i media e il paese, la scuola, i giovani credo siano un problema analogo negli altri paesi. I giovani devono prendere in mano la possibilità di farsi sentire, oppure volgeranno le spalle perché sono stufi, ma possono prendere posizione. Nel film si raccontano tre storie, tre ambiti, e le conseguenze su due soldati cresciuti credendo di lottare per il proprio paese, e alla fine vediamo cosa succede”.

“Il nostro paese – continua Redford ‑ è molto polarizzato, molto diviso, la vita è troppo complicata, quasi in bianco e nero. Tutti i media sono cattivi, o tutti i politici. Bisogna riconoscere quelli che controllano i media, la politica. Fin dall’inizio, dal 9/11 inpoi, ci hanno provato. Moltissimi erano terrorizzati, non capivano cosa succedeva o quello che sarebbe successo. Dovevamo accantonare tutto, la libertà di espressione e di sapere. Nel nostro paese quel partito politico aveva il controllo di entrambi i rami del Congresso, tutto il potere era nelle loro mani per fare quello che volevano. Oggi finalmente abbiamo scoperto la verità, perché, come e a quale prezzo siamo andati in guerra. Allora non l’hanno fatto. Per paura, o rispetto o per il controllo dei media da parte delle grandi imprese, ma era una posizione politica ben precisa e per quello non hanno voluto dirci niente. Il cinema non dà risposte pone solo alcune domande, propone, forse, persone diverse, ruoli diversi per dirci che non possiamo, non dobbiamo ripetere gli stessi errori. Si possono dire delle cose rilevanti attraverso lo spettacolo, in modo non propagandistico, su personaggi in conflitto gli uni con gli altri. Ha un ruolo da svolgere, ma non di propaganda. Come ha, forse, solo il documentario”.

Redford, che recita anche nel ruolo del professor Malley, secondo Cruise: “Si cala nel personaggio nel senso strutturale, con grande forza intellettuale. Mentre eravamo faccia a faccia con Meryl, entrava Bob. Lei si girava e… era davvero la stessa inquadratura di ‘La mia Africa’, tanto che io dicevo ‘scusa puoi ripetere’. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone che ammiro, con cui avevo sperato sempre di lavorare. Con lui come attore, diretto da lui, anche con Meryl. La sceneggiatura mi ha appassionato moltissimo perché affronta un tema che nessuno ha raccontato. Entusiasmante. Straordinario”.

“Non so molto dei festival – risponde il regista interpellato sul tema star o meno ‑, conosciamo Cannes, il Sundance Filmfest. Non so da cosa dipenda il successo dei festival. Credo lo sia già il fatto di farlo a Roma dove c’è arte, cultura, tutto lo avete già qui. Mi sarei domandato perché non farla. Non credo sia necessaria la presenza delle star. Al Sundance ci sono nuove voci, nuovi talenti, nuove tendenze e scoperte. Negli ultimi anni al Sundance ci sono state molte star che recitano nel cinema indipendente e vogliono venire. Non dipende dalle star, ma dai giovani talenti. Non penso che sia così, spero che ogni festival ce la faccia per il proprio valore non per le star che porta”.

“Non lo considero affatto un film di guerra – riprende Cruise su “Lions for Lambs” ‑, spero sia un film che fa riflettere il pubblico, che possa spingerlo a costruire un dialogo, che metta le persone a confronto con le proprie responsabilità. E che, come ‘Tutti gli uomini del Presidente’, fra cinque anni sia ancora valido. Se fosse uscito negli anni ‘70, avrebbe avuto una sua pregnanza, quello che spero abbia, ma non so che effetto avrà. Lo abbiamo proposto in molte università dove ha stimolato moltissimo le persone a parlare e a discuterne”.

Con i due divi anche i giovani interpreti Andrew Garfield e Michael Pena, nei ruoli dei giovani soldati e allievi di Malley (Redford). “Abbiamo girato per varie parti del paese, fino a Philadelphia, prima di tutto mi dicevano ‘hai un accento strano, viene dall’Inghilterra?, ‘No, da Chicago’ – afferma Garfield (che però è cresciuto a Londra, dove ha studiato recitazione ndr) – ‘Cosa studi?’ Pensavo soprattutto a questa cosa. Dopo questo film dovrò ripensarci, mi vergogno di quello che volevo studiare. Non è come una pacca sulle spalle, ha un effetto forte, credo, al cento per cento”.

“E’ bello sentirmi rappresentato da uno come lui – dice Pena ‑. Ti fa sentire felice, un artista, fare dei film dove i giovani fanno sentire la loro voce, il loro sogno e che se vogliono cambiare le cose ci riescono”.

“Tutti hanno la possibilità di parlare liberamente – aggiunge Cruise ‑, i film servono alla sensibilizzazione e non solo alla conversazione, permettono di attraversare i confini della comprensione e del rispetto reciproco. Io, allevato da una madre single e con delle sorelle, sognavo luoghi come questi, viaggiare fin qua su, e da attore ho questo privilegio, posso permettermelo. Vedo talmente tanti conflitti che potrebbero risolversi con la comunicazione e il dialogo. Credo che la comprensione sia l’unica soluzione possibile, anziché costruire delle barriere tra le persone che producono invece degli stereotipi. Sono stato in molte parti del mondo, ho potuto immergermi in culture diverse e ho imparato ad avere grande rispetto e comprensione per queste culture. Da ragazzino, al cinema scoprivo tanti mondi diversi, affinità e comprensione di mondi diversi. Anziché essere sospettosi su certi aspetti, bisogna dialogare”.

“Sono ottimista e pessimista al tempo stesso, suppongo – afferma Redford ‑, sono sensazioni che cerco di trasmettere alle persone. Non so se questo cambierà la politica, volevo solo riflettere. Abbiamo una speranza, ma non credo di sperare che il film cambi le politiche, quando si hanno tante cose da perdere, incluso il lavoro, credo che la gente si risvegli perché vuole proteggerle”.

“La cosa più straordinaria nella mia vita – confessa Garfield ‑, lavorare con tre persone che rispetto profondamente, perché sono cresciuto guardando i loro film. Per la mia generazione è molto importante capire queste cose, che c’è qualcosa da fare in questo campo. E’ stato coraggioso mettermi in questo film, perché avevo bisogno di risvegliarmi. Nella mia esperienza personale, ho cercato di immaginare ogni rapporto dal punto di vista del personaggio, contro la guerra, col male. Di vedere altre facce, altri punti di vista. Vedendo il mondo attraverso la vicenda dei soldati, perché noi non siamo costretti a guardare la realtà in faccia, loro lo fanno per noi. Scopri gli aspetti fantastici di lavorare con loro, cosa che ti dà ispirazione, ti avvicina alla cultura, al cinema”.

“A me non me ne importava nulla della politica – ricorda l’attore-regista ‑, di chi governava o meno, finché non venni in Europa, a Firenze, per studiare Storia dell’Arte. Andavo negli ostelli della gioventù, viaggiavo tanto. I miei compagni, i miei amici mi dicevano ‘come fa a non importarti niente’, e ho cominciato a guardare il mio paese da un punto di vista politico europeo. E’ stata una scoperta dal valore inestimabile per me, perché ho guardato il mio paese da un altro punto di vista, dal di fuori. Oggi i miei figli e nipoti sono incoraggiati a mettere molta attenzione a quello che succede al di fuori dal loro cerchio. E’ un mutamento inevitabile come l’oscillare del pendolo. Negli ultimi anni i giovani non si sono impegnati, sono apatici, menefreghisti. Proprio perché è il vostro futuro, il loro futuro, spero possano viverlo come catalizzatore. Il pendolo si sta spostando sempre di più, i giovani si chiedono c’è qualcosa che posso fare, cominciano a domandarselo”.

“Mi ricordo – conclude il divo Cruise – quanto abbiamo cercato di guardare alla complessità vita, e quando abbiamo cominciato il film, di aver guardato tutto l’ultimo secolo. Questa è una delle cose che apprezzo perché non solo siamo arrivati al convincimento che la guerra non ha mai risolto nulla, ma che l’unico modo di evitarla è farsì che le persone possano vedere i caduti come persone in carne e ossa. E che è costosissima. Oggi che le informazioni sono moltissimi, è come se ci fosse meno comunicazione e meno comprensione possibile. E’ come un conflitto nato dal passaggio dall’inglese all’italiano, una frase o una parola tradotta o interpretata male. E’ un esempio semplicistico, ma che accade”.

ROMA, 23 – “Da quando cominciai ad andare al cinema – esordisce l’attore Robert Davi, regista esordiente di “The Dukes” omaggio all’Italia e all’italianità della sua famiglia ‑ i primi film erano italiani: Fellini, De Sica, Pisolini. Avevo letto un articolo, sulla terza via di Tuffler, dalla rivoluzione industriale a quella tecnologica, e volevo descrivere cosa succede in una persona, come avere un sogno che possa cambiare l’immagine di se stessi. Ho visto e ascoltato i cantanti anni ’50- ‘60 che rappresentavano nelle loro canzoni quello che avevano e facevano nella vita. Volevo, in una fase di transizione come quella attuale, che ci fosse un po’ di divertimento che ci riportassi a tempi un po’ più gentili”.

Infatti “The Dukes” sembra una sorta di “Soliti ignoti” in salsa musical

“La mia famiglia è italiana – aggiunge Davi, “cattivo” doc del cinema americano ‑ e il senso dell’umorismo sempre ha avuto un ruolo importante in famiglia, un po’ come per Fellini (vedi “Amarcord” ndr), è il senso della vita. E (Peter) Bogdanovich (uno dei protagonisti e il più esilarante ndr) è uno dei più divertenti, anzi divertentissimo”.

“Mi piacciono i film di Davi – afferma l’autore di “L’ultimo spettacolo” ‑, mi ha detto che questo era molto divertente e la mia parte era molto bella. Per riuscire a far ridere bisogna cercare di non essere molto divertente, bisogna essere onesti, entrare nella parte. Mi piacciono i film comici perché secondo me la miglior cosa che si possa fare è far ridere la gente. Quando Gwen (Edmund, il grande attore ndr) stava morendo gli hanno chiesto ‘come ti senti?’, e lui risposi ‘E’ dura ma non tanto come fare un film divertente’. Spesso ci sono cose esagerate, basta riportarle alla realtà, in tanti film italiani troviamo la comicità della vita, quella di tutti i giorni”.

“Ci sono anche altre donne nel film – dice Elise DeJoria ‑, ma certamente è un film di Davi, c’è la musica e l’atmosfera, è un piacere lavorare con loro, ho imparato tanto per il mio mestiere, è stata una bellissima esperienza. Dovevo cogliere un po’ la parte che dovevo svolgere. Mi sembrava di stare un sogno, e mi piace recitare”.

“La conosco, è una mia amica – confessa il regista ‑, ho visto in lei un certo non so che, ma veniva respinta da uno degli attori. Avrei potuto mettere un’altra, ma non sarebbe stato lo stesso lavoro. Respinta, perché ha la capacità di trasmettere chi era”.

“Ho scelto tutte le musiche dopo averle riascoltate ancora una volta – continua ‑, le prime immagini delle musiche che conoscevo (molte italiane ndr), la musica popolare, l’opera e quindi Paolo Conte (ben sei canzoni ndr). Ho trovato lo spirito dei personaggi, vivo a Los Angeles e ho tutto i suoi cd. Mi piacciono le ‘immagini’ delle sue canzoni, regalo le sue canzoni agli amici. E chi lo conosce lo ama immediatamente. Volevo dare il ritmo e lo spirito attraverso la colonna sonora, e trasmettevano un certo senso agli attori. Chiunque può fare una canzone sul gelato al limone ma non come lui. Piace a tutti, volevo venisse fuori tutto”.

“Bruni (Sergio), invece, rappresenta un po’ la metafora di quello che accade ai personaggi-attori nella transizione. Al ristorante, la musica di Pavarotti è il tema per Joseph Campanella, il vecchio italiano. Negli anni ’80 avevo letto articolo su un italo-americano che entrava in un locale per cercare lavoro e veniva preso per ladro. Il riferimento è il Fellini di “Le notti di Cabiria”, perché mi ha molto colpito. Volevo anche Nino Rota e quel tipo di atmosfera”.

“Certamente stavo facendo il cattivo, ma a volte i sogni assumono una particolare rilevanza, anche il tempismo è particolare. E’ proprio così, molto semplice. E’ difficile a Los Angeles, invece, fare un film. Succede poi che si incontra una persona, come Frank Visco (uno dei produttori ndr), italiano nato a Caserta, ci si conosce e… Siamo diventati ottimi amici, poi ha sentito l’idea di questo film e mi ha detto: ‘facciamolo’. Ci ho messo tanto, non è che posso dire ‘io sono ‘un cattivo’ e voglio fare un film’. Non è così automatico. Voglio ringraziare Piera Detassis (direttrice della sezione Premiere ndr), sono felice di essere qui. (dopo un calido applauso e in italiano) Non mi fate così che mi emoziono e… il cattivo si mette a piangere (si emoziona veramente)”.

“E’ molto difficile come ci siamo incontrato Robert e io – dichiara Visco ‑. Letto articolo sulla sua partecipazione a ‘007 – Vendetta privata’, dove gli chiedevano si avesse voluto fare qualcosa di diverso e lui ha parlato di ‘The Dukes’. Gli dissi ‘Ho letto l’articolo e so che vuoi fare questo film, sul sogno che riguarda una persona che aveva avuto una seconda possibilità nella vita. Mi è piaciuta la sceneggiatura e questo suo modo di fare film. ‘Se io posso contribuire al sogno, dico, lavoriamo tutti insieme per realizzare questo sogno’. Questa è stata la mia avventura e sono molto stimato per averla fatta. Ho riconosciuto il lavoro che tutti fanno per un film. Dal più umile al più famoso hanno lavorato moltissimo, dai tecnici agli attori. Mi ha fatto piacere lavorarci”.

“Non ho mai pensato a ‘The Blues Brothers’ – aggiunge Davi ‑, mi ricordo il film, mi è molto piaciuto ma non ci avevo pensato, casomai ai ‘Soliti Ignoti’ di Monicelli, a ‘I vitelloni’ di Fellini, dove un giovane girava in continuazione ma non ai Blues Brothers”.

“Mi è piaciuto ‘Big Night’, già avevo scritto una prima stesura della sceneggiatura e ho notato ‘la stessa sensibilità’. Voglio lavorare in Italia, ma ho in progetto prima un film a New York con cast italiano e americano, e dopo cioè una sceneggiatura ambientata a Roma. Dio piacendo, e se Visco fa soldi con questo film saremo a Roma fra qualche anno. Ci sarà anche Peter (Bogdanovich) con noi. Sempre con un personaggio divertente”.

A proposito di attualità e dell’11/9, dice: “Volevo allontanarmi dalla paura e dal terrore, l’idea che c’è il black out (nella sua pellicola, ma non c’è panico né terrore ndr) ma si può sempre accendere una candela. Che fosse un po’ sentimentale, che il pubblico se ne tornasse a casa con una sensazione di speranza”.

Gli americani vedono gli italiani sotto un’atmosfera romantica, non vedono che l’Italia è cambiata. ‘Mio fratello è figlio unico’ per me è un grandissimo film sull’Italia contemporanea. America pensa ancora allo stereotipo del mafioso italo-americano, io questo fatto la voglio affrontare nel prossimo film “Little Al”, su un gruppo di siciliani di NY. Ho parlato con Riccardo Scamarcio a LA. Vedremo, se tutto va bene sarà anche lui nel cast”.

“Credo che Robert abbia già risposto – aggiunge Bogdanovich ‑, c’è un cliché americano, io ho partecipato anche a ‘I Soprano’ ma credo riguardassi più gli americani che gli italiani.

“E’ come Jerry Lewis – afferma Davi. E Bogdanovich ribatte, “Sì ho questo aspetto un po’ mesto, ma sono in realtà divertentissimo”.

“Ieri all’Excelsior, appena arrivato, e Peter era dietro di me era preoccupato perché c’era sciopero. Pensavo che non fosse arrivato. Ma, dopo 36 ore di aereo era disperato, e aveva perso il bagaglio. Per me era una situazione divertentissima. Praticamente non aveva neanche le mutande però il sorriso era sempre lì”.

“I miei genitori – racconta Bogdanovich ‑, quando sono nato erano tristi, non per colpa mia, ma perché anni prima avevano perso un bambino. Pensavo fosse io a renderli infelici e ho cercato di divertirli. Poi ho capito che non era così. La comicità è una cosa molto complessa, come regista ho scoperto delle persone (l’irresistibile Streisand di “Papà ti manda sola?” ndr), ma non ha nessuna relazione col mio ruolo. Ho semplicemente accettato, neanche pagato molto (scherza), ma adesso sta recuperando.Intendo fare altri film come regista, ho realizzato due documentari, l’anno scorso uno su John Ford, ora uno su John Paddy. E’ divertente seguire una band rock, forse avrei dovuto fare il rockettaro. E ne farò uno a gennaio, di suspense, basato su commedia omonima, dove una famiglia pianifica un omicidio e poi tutto va storto. Voglio fare ancora due o tre film”.

Incontro anche per ricordare il grande Totò, a cui Extra rende omaggio con la proiezione di “Un principe chiamato Totò” di Diana de Curtis (la nipote) e Barbara Calabresi.

“Lui separava completamente il suo lavoro dalla sua vita privata – dichiara la figlia Liliana ‑, diceva che casa poteva essere quella di un notaio. Sono un operaio dello spettacolo, e a casa mi levo la tuta. Una vita normalissima dentro casa, sobrio e severo, odiava chi urlava. Odiava il volgare ladruncolo, non sono assolutamente io. Ma amava la sua maschera, lavorare per avere successo. Non finiranno mai di amarlo. Bambini piccolissimo lo amano per quello che lui è riuscito a comunicare, e ormai siamo alla quarta generazione. Riusciva a comunicare umanità, ognuno di noi puoi identificarsi con lui perché non è mai l’avventuriero, è un ladruncolo che ruba per mangiare”.

“Un dovere di chi fa mestiere – sostiene Alessandro Gassman ‑, collaborare a questo ricordo, perché fa parte della cultura di questo paese. Totò sta al livello delle maschere della commedia dell’arte, che più passa il tempo più sono inimitabili. Il paese sembra abbia subito una sorta di alluvione (riguardo alla cultura e l’arte ndr). E come la gente comune che si adopera per salvare le opere d’arte, mi sento uno con l’acqua alla gola che salva un’opera d’arte unica e irripetibile”.

“Ho fatto tanti anni di avanspettacolo all’Ambra Jovinelli (1960/61), dove si incontravano spesso lui e il padrone che gli faceva vedere dal palchetto pochi muniti di qualche comico. Io dicevo ‘Perché non mi fai conoscere Totò’, il proprietario rispondeva ‘A’ Lì non l’ho mai fatto per nessuno, ti faccio un biglietto per Totò, il principe ti darà dei soldi ma non li accettà’. La fame allora era terribile, ma dissi ‘Non accetto’. Andai dove abitava, via Monte Parioli, credo, mi l’autista Cafiero, ‘Ho un biglietto per il principe’ lo prese e glielo portò. Tornando mi disse ‘Questo te lo manda il principe’. Tastai la busta e capì che c’erano dei soldi, ‘Dica al principe che non ho bisogno di soldi, devo lavorare’. ‘Accettali’, mi replicò, ‘No mi ha detto di non prenderli’. Ho dato la parola d’onore Graziani’. Allora il principe mi ricevette e mi chiese ‘Di dove sei?’, ‘Io sono pugliese’, ‘ah di dove’, ‘di Andria. Sono un comico d’avanspettacolo. Lino Zagara, Zaga’. ‘Cambialo subito – mi disse ‑ i diminutivi dei nomi vanno bene, ma quelli dei cognomi portano male. Poi mi chiamarono per fare una cosettina in un film, e pensai non ho il cognome giusto. Devo fare il manifesto da Giustino disse il padrone. ‘Lino lasciamolo, Zaga levalo’. Apro registro alunni viene fuori Banfi. Il padrone del ristorante mi disse speriamo diventi famoso così paghi i buffi”. Poi il popolare racconta (e fa vedere la foto accanto a Totò) del Festival dell’avanspettacolo (63/64), quando faceva il terzo attore nella compagnia di Beniamino Maggio, che vinse il primo premio e c’erano tutti Sordi, Mastroianni. Mentre si stava struccando gli è capitato vicino Totò ed ecco la foto. “Mi fa continuamente parlare con lui, penso se fosse qui gli sarei piaciuto. Ho anche qusta fotina che mi ha dato l’anziano proprietario di una ricevitoria dove Totò sta compilando la scheda, ho fatto un fotomontaggio e pare che stiamo insieme, e tutti a dire ‘beato te che l’hai conosciuto’. La suggestione della gente verso mostro sacro non gli fa capire che è un falso, anche perché la mia è recente. Ho fatto un sogno vero, raccontato sul mio blog, ero in galleria che compilavo la schedina con lui. Che fate, si ricorda di me, dammi del tu, Antonio. Le anima come siete tutti insieme come siete magri, tutti uguali, Fabrizi è sempre stesso, stiamo cercando un ruolo per un pugliese, Proprio adesso ti servo. Ma prima che facciamo la lavorazione passeranno 25 anni, ma poi è un corto... Poi vedevo mio padre e Totò che mi dicono ‘sì fallo’. Credo sarebbe venuto anche lui a vedere ‘L’allenatore nel pallone 2’”.

“Il film l’abbiamo costruito a casa nostra – confessa la nipote Diana ‑, noi viviamo con Totò, abbiamo le cose del nonno. Calabresi (Laura), mamma e io, la cosa particolare del documentario è che è la voce di Totò che ci racconta la sua vita, mentre Alessandro è la voce narrante. Sono cose che le sento dentro di me, di settant’anni fa. Storia intima, sentimentale, familiare, e poi Lino, Alessandro, i grandi del cinema. Tenero e affettuoso e si vede una parte di Totò. Antonio sta qui con noi, ci guarda. Vissuto a Roma, ed è a Napoli con i nostri bambini della Sanità, i figli di Totò, gli alunni della Scuola Giovanni XXIII, sono il futuro quei bambini che erano allora erano Totò. Roberto è il piccolo Totò mentre Lorenza è il futuro. Totò è dentro di noi, è un cartone animato, è tutto. Tutti si sono affascinati a questa storia”.

Il fatto che Totò non venga ricordato e celebrato come dovrebbe è segno – secondo Gassman ‑ dell’incapacità cronica dell’istituzione che si deve occupare, che non distingue tra qualità e quantità, è la malattia grave di questo paese. Totò non ha bisogno di difesa, di considerarlo un monumento, ma considero sia un dovere oltre che un piacere per tutti di farlo. Io ho cercato di farlo il meglio possibile”.

Il museo al Palazzo dello Spagnolo verrà aperto all’inzio del 2008, dove ci saranno tutte le cose di Totò, ma anche uno spazio per le scuole, un locale per il teatro, per non fare stare i ragazzi in mezzo alla strada, ma in una struttura protetta. Scuole per ragazzi in difficoltà, in un quartiere in difficoltà, che è il messaggio che lui voleva dare.

“Collaboriamo con questa scuola – conclude Liliana – da 23 anni, i ragazzi stanno fino alle 5 del pomeriggio, e quattro ragazzi stanno già al conservatorio. Potranno così avere un futuro nell’arte, nello studio, nei mestiere. Diventeranno musicisti, attori, artisti. Un punto di riferimento dove lui è il patrono, il San Gennaro della situazione, diciamo”.

José de Arcangelo

lunedì 22 ottobre 2007

Festa Internazionale del Cinema di Roma: Gli amari "Giorni e nuvoli" di Soldini

ROMA, 22 – Alla Festa del Cinema è arrivato, purtroppo, l’inverno. Sarà stato il freddo ad impaurire le star? Infatti, Keira Knightley (ma era andata a Venezia per “Espiazione” ha dato forfait, il partner nel film (“Seta”), Michael Pitt, ha perso l’aereo ma almeno è arrivato dopo (per la passerella). Tim Robbins protagonista di “Noise” (Rumore) di Henry Bean, si trovava ieri a Roma, ma non alla Festa. Poi abbiamo scoperto che ci sono state “eventuali” interviste e l’embargo per esse e per recensioni del film, perché si tratta di un’anteprima mondiale e che l’attore-regista, per impegni precedenti, è stato nella capitale solo 24 ore. Peccato perché il lungometraggio di Bean racconta un fatto (quasi) vero, attuale e drammatico ma sul filo dell’ironia.

Ma oggi è la giornata di Silvio Soldini e del suo bel film, attuale, avvincente e, quindi, piuttosto drammatico ma aperto alla speranza: “Giorni e nuvole” con Antonio Albanese e Margherita Buy. Loro c’erano (quasi) tutti, anche la giovanissima in ascesa Alba Rohrwacher (da “Melissa P.” a “Mio fratello è figlio unico”) e Fabio Troiano, mentre Giuseppe Battiston era assente giustificato perché sta girando un film a Buenos Aires. Presenti all’incontro con la stampa anche i tre sceneggiatori: Doriana Leondeff (anche con “La giusta distanza” di Carlo Mazzacurati), Federica Pontremoli e Francesco Piccolo.

Storia di una coppia nell’Italia di oggi: Elsa e Michele sono colti e benestanti, con vent’anni di matrimonio alle spalle e una figlia chiamata Alice. La loro serenità economica ha permesso ad Elsa di lasciare il lavoro per coronare il suo sogno: laurearsi in Storia dell’Arte. Ma all’improvviso tutto cambia: Michele ha perso il lavoro e con esso tutte le loro certezze, la sicurezza e l’equilibrio.

“Una parte di questo film ha a che fare con lo stupore di due persone – esordisce Soldini ‑, che abituate ad una quotidianità senza problemi economici, di colpo scoprono che non sarà più così. Michele non capisce neanche cosa sta accadendo, non sa come reagire, sono storie che leggiamo anche sui giornali. E’ rimasto come tramortito. I miei film nascono sempre dall’esperienza che ho fatto in precedenza – continua ‑. Dopo “Agata e la tempesta” volevo affrontare un tema che non conoscevo così bene e che volevo sviluppare da tanto tempo, la relazione di coppia. E’ reale perché è quello che sta accadendo realmente, e ho cominciato a lavorare tirando fuori questi due personaggi, facendo accadere quello che succede poi nel film”.

Abbiamo lavorato per molto tempo – afferma lo sceneggiatore Picolo ‑, soprattutto sul loro rapporto, la discesa lenta di una coppia borghese e la sua capacità di stare insieme, e capire i passaggi reali di questa caduta. Un imprenditore che finisce in periferia, che deve fare i conti con una discesa lenta ma inesorabile. Confrontavamo quello che scrivevamo con la realtà. Per esempio quando chiami o arriva un pony express speri che siano ragazzi, ma invece spesso sono persone di 40/50 anni. E partendo da un mondo alto borghese perché è proprio lì che tutto viene toccato. Volevamo partire da un amore ma da un punto di vista intellettuale alto”.

“Faccio sempre dei film costruiti – dichiara l’autore ‑, forse questo più di altri, anche perché una volta scelti bene gli attori si può cominciare a parlarne. E loro sono disponibile e generosi, è bello lavorare con loro. Scopri che sei molto fortunato”.

“La storia mi ha colpito talmente – confessa Albanese ‑, perché vengo dal mondo del lavoro, tema che ho già affrontato nel mio spettacolo ‘Giù al nord’, non solo per sentito dire, ma per esperienze personali. Lo sguardo di un mio amico, sembrava un fermo immagine, quando ha ricevuto questa notizia (il licenziamento ndr). Ed ero incuriosito perché lo conosco. E’ un argomento per me molto caro, mi sono buttato col cuore e con l’anima, e con l’aiuto di Margherita che amo particolarmente. E’ stato facile, un’armonia che si innesta per tutti così. Mi sono trovato bene a Genova dove siamo stati 4 mesi, le case, gli spazi, l’atmosfera... Ti dà la sensazione che sia molto legata al mondo del lavoro, vedi tante gru, lavori in corso. Il mio passato continua ad essere quello, e mi sono buttato con gioia nel lavoro”.

“Le stesse cose che ha detto Antonio – ribatte la timida Buy ‑, segno che siamo una coppia affiatatissima. Ho lavorato molto, io sono pigra, mi è servito, il regista è molto bravo e preciso. Non si poteva proprio andare giù”.

“Silvio – aggiunge Albanese – ci diceva ‘niente male’, è il massimo che riesce a dire. Ho chiesto in giro e mi hanno detto ‘vuol dire che è ipercontento’. E’ entusiasmante la passione di Silvio, stava lì sul pezzo, a cercare l’atmosfera giusta”.

“Anch’io confermo tutto quello che ha detto Antonio – dice la giovane Rohrwacher che interpreta la loro figlia ‑. Un’esperienza interessantissima, emozionante, vedevi come la storia diventava viva. Era presente una sensazione di grande spontaneità, ma si partiva da un’idea molto precisa che Silvio aveva e che noi seguivamo perché eravamo armonici”.

“I paesaggi diventano molto presenti, Genova c’era, si sentiva e si vedeva, e dopo ‘Agata’ (dove avevamo girato solo una parte), mi sono detto vorrei tornarci ancora. Volevo girare nei luoghi, non fare interni in studio, vivere la città, quindi molte delle inquadrature a volte sono ‘rubate’ perché c’è una luce molto bella. L’alba dell’inizio è stata fatta lì per lì. Dovevamo fare una scena in automobile e, mentre aspettavano, con una seconda mdp abbiamo approfittato per girarla. Ma non siamo andati a Genova per il suo bagaglio sul lavoro, ma solo per un suo valore pittorico, il resto si è poi aggiunto facendo parte della storia”.

“Una sceneggiatura che abbiamo subito apprezzato – rivela il protagonista ‑, e ho riversato tutto sul corpo, volevo capire se dovevo avere una certa pesantezza o no, lui è uno che si trascina. Di conseguenza quello che devi dire viene spontaneo, dopo aver costruito il personaggio. Michele è colpito da questo lutto, e si deve vedere da come cammina, dal suo sguardo. Deve trascinare poi un pensiero rivolto a tutti gli altri”.

“E’ una sceneggiatura bellissima – ribatte la Buy – così, vincendo tutte le mie pigrizie, ho lavorato molto. Non si può pensare a un lavoro chiuso, senza interventi da fare. E stata fatta una ‘riscrittura’ che si avvicina all’interpretazione, tutto condotto con grande attenzione e amore”.

“Si ha anche la possibilità di sbagliare – aggiunge Albanese ‑, ma lavorando con gli sceneggiatori, si può anche collaborare. E’ una cosa che non si fa più nella fiction, perché è un lavoro non studiato fino in fondo. Ci si deve avere tempo, invece, per modellare tutto. L’argomento è molto importante e lo meritava, anzi era importantissimo”.

“Il pensiero più grave è che non mi abbia sorpreso, colpito di più (il suicidio dell’operaio perché non poteva più pagare il mutuo ndr), conoscendo determinate situazioni, e che frequento amici che vivono ancora quel mondo e tutto il resto. Merito del film è rappresentare una situazione, ma non si permette di giudicarla. Sì, questo è un sentimento che ci può distruggere”.

“Durante la scrittura del film anch’io mi sentivo sull’orlo del suicidio – confessa con un filo di amara ironia Soldini ‑, dovevo trovare il modo di scrivere per capire come sono i protagonisti e poi buttarmi come loro. E ti lasci trascinare, come se la storia ti portassi a un finale tragico. Ho cercato la maniera con cui i personaggi potessero capire che messi uno di fronte all’altro potevano scrollarsi di tutto e parlarsi nel modo più sincero possibile. E così comprendere qual è la cosa più cara, quella a cui ci tengono di più”.

“In ogni film – dichiara il regista ‑, forse questo è il più lontano da ‘Brucio nel vento’, bisogna buttarsi dentro insieme ai personaggi. Perciò ho parlato molto con Ramiro Civita (il direttore della fotografia). Che tipo di mdp usare, la macchina a mano, girare tre o quattro minuti di tempo senza fermarsi, senza campo/controcampo. Anche i Dardenne studiano sempre molto prima anche se poi sembra tutto spontaneo, improvvisato. Non sono capace di fare altrimenti. Lo stile da vedersi, forse è più imperfetto, ma è meno finzione”.

“Il rapporto di coppia – risponde Albanese alla ‘bella domandina’‑ mi interessa, mi interessava e mi interesserà. Qui cambia tutto, mi perdo, la figura femminile è sempre più forte di quella maschile, e riesce a sostenere questo uomo colpito dalla crisi”.

“Ultimamente ci sono stati per me dei ruoli molto vicini – afferma la Buy ‑, legati al sentimento, donne che subiscono una sorta di sottomissione psicologica, non amate, cadute nelle cose drammatiche ad ogni costo. E ogni tanto bisogna farle. Ora spero di essermi leggermente riscattata, non rinnego nulla, ma questo è un personaggio diverso e mi fa molto piacere se mi farà uscire (spero) da questo cliché”.

“La bellezza di questo mestiere è lavorare con gli attori ‑¨conclude Soldini ‑, portare avanti un discorso, fare cose diverse. Battiston ha lavorato di più con me, perciò voglio trovare sempre qualcosa per lui che non ha fatto già, andare al di là della ripetizione, del già visto e del già fatto. Si lavora anche sui personaggi ‘piccoli’, che non si vedono tanto, ma che lasciano il suo segno. Si può dire che hanno un loro messaggio in qualche modo. L’attenzione ai personaggi secondari è tantissima nel cinema americano, a volte ci si ricorda di più delle piccole parti, dell’attore che in sole cinque scene lascia il segno”.

“Nella mia prima esperienza al cinema avevo due pose, proprio in “Un’anima divisa in due” (sempre di Soldini ndr) e anche per Mazzacurati in “Vesna va veloce”, due piccole cose. Una grande verità – dice a proposito di ‘coppia’ affiatata ‑, innanzitutto sono uno puntuale, e Margherita è di una puntualità inimitabile, lavora tanto, poi è brava, di una simpatia incredibile, a me piace. La amo. Ed entrambi non amiamo molto andare in aereo”.

“Infatti domani andiamo a Genova in macchina – ribatte la Buy ‑. Antonio è molto simpatico e serio, di un nevrotico pazzesco. E’ un vantaggio per me, mi sono calmata. Io sto molto meglio con lui. Le mie ansie le metto da parte”.

Anche per “Noise”, nonostante non siano venuti gli attori, c’è stata comunque una conferenza stampa, ma col regista. Il film racconta la storia di David che ama follemente New York, e non potrebbe vivere da nessun altra parte. Ma dopo notti insonni e angoscia, scopre che non tollera più il rumore che produce la sua amata metropoli. Inizia così una silenziosa crociata notturna contro i produttori di rumore (soprattutto le ‘sirene’ antifurto delle macchine, ma non solo) per poter finalmente ricominciare a vivere tranquillamente. Ma…

“Devo ammettere che il personaggio l’ho trovato a casa – confessa Henry Bean (autore di “The Believer”) ‑, la coincidenza di cercare, andare, girare per ore e scoprire l’origine del rumore (allarme d’automobili ndr) e poi finire in prigione, prima è successo a me in prima persona. Ma mi sono fermato lì. Volevo capire e raccontare cosa succede a chi non si ferma e scopre che sta distruggendo la propria vita. Ho pensato a tutto ciò, intrappolato tra la verità e la felicità. Naturalmente cerchiamo la felicità, ma per una parte della vita c’è la ricerca della verità. Può accadere a qualsiasi uomo o donna che vive in una qualsiasi città del mondo, oltre il termine ‘rumore’. Un po’ dappertutto c’è questa stessa situazione”.

“In linea di principio – continua l’autore ‑, nel film, si pensava ad un argomento serio trattato come fosse banale, di poco conto. Ne abbiamo parlato, e abbiamo capito che costruito in modo serio sarebbe stato troppo noioso. L’argomento comunque sembra irrilevante, ma poi invece è rilevante. Quindi, un problema ‘banale’, ma in questa mia scelta c’è il desiderio personale di dare uno sguardo diverso sul mondo, non un pensiero, però basato su qualcosa di ironico”.

“Io (nella realtà ndr) mi sono fermato quando ho scelto la felicità sulla verità – dichiara ‑. C’era stato un arresto e dovevo pagare parecchie migliaia di dollari. Ho fatto questo per molti anni, passato una notte in prigione e spesso tanti soldi, ma non mi portava a nulla. Delle volte non riuscivo neanche a controllarmi, ma non ero pronto a distruggermi e a spendere tutti quei soldi. Ho pensato al mio personaggio e a cercargli un’alternativa, dei tentativi per uscirne fuori, e mi sono comportato abbastanza in linea con New York. Mi sono detto ‘sono uno in cattiva fede, disonesto, non mi voglio sprecare, voglio fare un film’. Vivo ancora a NY, sono stati fatti diversi tentativi per superare i problemi del rumore, comunque non hanno avuto un grosso successo, ma credo avranno prima o poi dei risultati. Ho visto, per esempio a Santa Monica, che nei parcheggi non sono permesse allarme antifurto, e i produttori potrebbero ideare qualcosa di diverso. Infatti, è difficile che la polizia ti dica che è una cosa negativa, dovrebbero essere messe fuori legge. Purtroppo credo che continuerò a soffrire per questo”.

“Il film potrebbe stimolare nuove iniziative – aggiunge sull’intervento dei governanti ‑, sì mi è successo, è così, i governi irresponsabili non si occupano dei problemi della città e dei cittadini. In una politica in linea con la guerra dell’Iraq, non è che voglio parlare male di Bush ma... Come è possibile superare l’impasse, se non si riesce nemmeno a fare rispettare le leggi e i diritti dei cittadini”.

“Noise è la parte due della trilogia sul fanatismo. Di questa follia, il tema più ampio è il fanatismo politico, il terzo sarà sul fanatismo artistico. E sarà ancora più complicata. C’è uno scrittore americano, Dr. Suss, autore di “Gli anni di chi”, su un elefante che sente delle voci che provengono dalla polvere, da un fiore, ma che gli altri non possono sentire. E ha i diritti per realizzare una versione per adulti, ad esempio con la musica, su note che nessun altro può sentire”.

Interpellato sui ‘rumori’ di Roma, il regista dice: “Devo dire non sono stato ancora nel traffico a Roma, ma ho visto e subito molti ingorghi del passato, quando ero studente e viaggiavo per l’Europa. All’American Express di Parigi ho visto che c’erano due o tre assegnazioni per l’intero alfabeto; a Roma invece c’erano cinque categorie per lo stesso alfabeto, e la gente che si aggirava.

Una follia abbastanza simpatica non è così grave rispetto alla follia del mondo, magari fosse più banale e ci potesse prendere di sorpresa, rispetto alle tragedie del mondo. Il corpo risponde diversamente quando si è giovani, si hanno sensazioni diverse. Forse erano più problematici per me allora i ristoranti rumorosi. Nell’aspetto metaforico, c’erano cose che mi davano fastidio, tipo i genitori forti e autorevoli ai quali non potessi rispondere, questi li avevo già allora”.

“Abbiamo sempre vissuto e convissuto con persone che non amiamo, del tipo non ci piace il vicino che cucina le cipolle e non lo sopportiamo. La città è più densa di questa vicinanza e si creano più situazioni di questo tipo. Il rumore è la metafora del potere, sono obbligato a sentire, che invada la casa, le mie orecchie; mi impedisce di pensare come vorrei fare. Per esempio tramite la tivù che uno tiene magari sempre accesa. Ha la bocca ma non l’orecchio, il governo è così, non vi può sentire. I governanti fanno discorsi, dichiarano guerre, ma non abbiamo niente da replicare. Solo le elezioni, ma nemmeno i sondaggi hanno effetto sulle decisioni politiche. Lo scenario che vogliamo non riusciamo ad ottenerlo.

Sono americano, la disubbidienza civile ha sempre fatto parte dell’America, fin da Jefferson. Dobbiamo però trovare delle alternative, ci sono degli standard, ora è nato un nuovo partito di centro democratico, ma è difficile fare questo tipo di coalizione, la regole del gioco non lo consentono. Sono un po’ frustrato in America, perché è difficile fare alleanze politiche, la disubbidienza può stimolare l’appetito del pubblico, ma è sempre civile”.

“Il personaggio del film cerca di fare qualcosa, di agire, lavora moltissimo ma il sindaco (un viscido e rozzo William Hurt ndr) ha la meglio su di lui. La sua sottigliezza diventa fonte di rumore che è quello che vorrebbe combattere, ed è qualcosa che, alla fine, non ha un gran significato. Non ho un programma, ma a livello personale ho molte idee”.

In serata, presentato in anteprima l’atteso film di e con Robert Redford “Lions for Lambs - Leoni per agnelli” con Tom Cruise e Meryl Streep, che nelle sale italiane si vedrà soltanto a Natale. In concorso, poi, è passato “Mongol” di Sergei Bodrov, autore del non dimenticato “Il prigioniero del Caucaso”, nuova versione sulla leggenda di Genghis Khan. Tra vita e leggenda e basandosi su autorevoli documenti storici, il regista premio Oscar ricostruisce i drammatici e tormentati primi anni del sovrano nato nel 1162.

Nella sezione “Extra” si è visto il terzo film del cantautore Franco Battiato “Niente è come sembra” con Giulio Brogi, Pamela Villoresi, chiara Conti e la partecipazione speciale del redivivo Alejandro Jodorowsky. Partite anche le proiezioni per l’omaggio a Marco Ferreri con “L’udienza”, presentato dalla vedova Jacqueline Ferreri; Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna; Tatti Sanguinetti, critico cinematografico e curatore della maratona sui tagli di censura ai film dell’autore; e Stefania Parigi, docente di Storia del cinema italiano all’Università di Roma 3. Al Cinema Trevi la retrospettiva completa del regista.

José de Arcangelo