sabato 30 giugno 2012

La 'nuova onda' del cinema russo presentata in una ricca selezione di corti alla 48a. Mostra di Pesaro

Come è abitudine ormai da tre edizioni, anche quest’anno la 48a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ha dedicato un programma alla cinematografia russa contemporanea, stavolta con un esauriente panorama di esordi, quindi principalmente cortometraggi, di cui una parte importante è stata dedicata – come di consueto – allo “Sguardo femminile” e presentando in anteprima una delle opere più originali e seducenti della stagione precedente, il lungometraggio “Chapiteau Show” (2011).

E ad aprire la rassegna è stato proprio il visionario lavoro di Sergej Loban, riuscito mix di dramma, commedia e musical, quattro storie contemporanee incrociate che trasformano il film in un racconto corale dove si intersecano le fatti d’amore e d’amicizia, di rapporti padre-figlio e di lavoro. Infatti i cosiddetti capitoli si intitolano: Amore, Amicizia, Rispetto e Collaborazione. Il tutto raccontato con un ritmo frenetico che fa dimenticare allo spettatore che la pellicola dura oltre tre ore. Premio speciale della giuria, San Giorgio d’argento, al XXXIII Festival Internazionale del Cinema di Mosca; Grand Prix al XX Festival del Cinema dei paesi della CSI, della Lettonia, Lituania e Estonia, ‘Kinoshok’ (2011); Premio dell’Accademia Cinematografica Russa Aquila d’Oro per il migliore sonoro; Premio del Pubblico e per la Migliore Regia al Festival ‘Texture’ di Mosca (2012); il film non ha ancora una distribuzione italiana e, forse, dipende soprattutto dalla durata perché non solo è la dimostrazione che esiste una ‘nuova onda’ russa, giovane, creativa ed entusiasta, ma anche perché la pellicola è divertente, piena di riferimenti musicali e cinematografici – anche occidentali – e coinvolge lo spettatore in un ‘viaggio’ tanto bizzarro quanto gustoso. E’ stato definito “film-enigma”, “film-scherzo”, “film-labirinto” però in ogni caso funziona perché incuriosisce, critica e autocritica società e personaggi attraverso una graffiante ironia, ci catapulta da una storia all’altra – in una sorta di intermezzi musicali – facendo in modo che si sfiorino finché non si fonderanno nel gran finale.
Diversi mezzi, generi e durata per i cortometraggi presentati nell’ultima giornata del Festival in una ricca selezione che va dallo sperimentale al documentario, dalla fiction alla commedia breve. Infatti nel surreale “Dettagli insignificanti di un episodio fortuito” di Mikhail Mestetskij (28’), la storia prende spunto da un episodio reale, se vogliamo di scottante attualità, perché è ambientata in un tratto ferroviario, anzi sue treni fermi, bloccati l’uno a fianco dell’altro a causa di lavori ai binari. E come il tempo (anni) passa, ma il traffico non riprende, tra passeggeri e personale ferroviario cominciano a nascere inquietanti e strane relazioni, persino un matrimonio…
Anche in “Senza termini di prescrizione” di Roman Svetlov (18’), la vicenda prende spunto dalla realtà, anzi dalla Storia, e dalle parole della poetessa Olga Berggoltz, sulla stele commemorativa dei caduti della Grande Guerra Patriottica: “Nessuno è stato dimenticato, niente è stato dimenticato”. I ricordi della guerra non lasciano mai e non danno mai pace e Vladimir Grinko, un anziano che abita in un villaggio lontano, alla vigilia della ‘Festa della Vittoria’ sarà costretto a rivelare un segreto che ha portato con sé per tutta la vita…
“Gelo” di Natalija Kudrjashova (6’), quasi in un flash, costruisce una metafora del rapporto uomo-donna, ovvero quando la freddezza della relazione diventa tangibile. In “Abbracciare la mamma” di Olga Tomenko (33’) ci fa capire quanto sia difficile essere madri nella nostra società contemporanea. Travolta dalla routine quotidiana e dalle incomprensioni famigliari, una donna scopre all’improvviso quanto intensamente ami il figlio quando rischia di perderlo per sempre. Sembra scomparso, è stato rapito o se ne è andato? Il corto ha vinto cinque premi (regia di film a soggetto, fotografia, suono, film a soggetto del programma internazionale e del pubblico) al XXX Festival Internazionale Vgik e il Grand Prix del 7° Festival Kinoproba di Ekaterinburg.
“Sembrerebbe tutto a posto. O forse no?” di Maksim Zykov (18’), ci porta a metà strada fra realtà e fantascienza per costruire la vicenda di Serezha, un ragazzo che si reca in ospedale per ottenere un semplice certificato medico per la piscina, e si ritrova in una sorta di incubo: sottoposto ad una lunghissima procedura, sviene e sbatte la testa contro il pavimento. I medici decidono di trapanargli la testa per risolvere l’enigma, quindi, estrarre quello che hanno trovato.
“Eroina” di Marija Khomjakova (13’), non parla di droga ma di una donna, ignara di dove la porterà la scelta fatta un tempo. Una scelta fatta per amore, per una persona che ti accompagnerà per tutta la vita. “Sincope” di Julija Byvsheva (36’) è, invece, il ritratto del giovane pianista Oleg Akkuratov, ragazzo prodigio, nato ad Ejsk, cittadina di provincia, situata a brevissima distanza dalle coste del mare di Azov. Un documentario particolare, diverso e anticonvenzionale, che ci mostra meglio di tanti reality la vita quotidiana, tra famiglia e carriera, affetti e lavoro, di un giovanissimo pianista che si è esibito sulle più prestigiose scene internazionali. Ora, Oleg vive con i genitori e lavora nella locale Casa della Cultura. Un film breve che coinvolge perché ci fa partecipi del brillante e controverso destino di un ragazzo della porta accanto che si è rivelato un genio della tastiere.
“Favola per adulti-bambini” di Natalia Babintseva (30’) è ambientato nella Mosca del XXI secolo, megalopoli frenetica e in perenne cambiamento, una metropoli che, come altre oggi, ti costringe a urlare in strada, a sgattaiolare in mezzo al traffico, nell’indifferenza di chi ti passa accanto. Una città che non ha più nulla di fiabesco, ma che non impedisce ai suoi abitanti di sognare, di sperare in un miracolo che cambi per sempre la loro esistenza. Le protagoniste di questo mockumentary sono le tipiche ragazze della porta accanto, in tutto e per tutto simili ad altre coetanee simpatiche e carine che si incrociano in metropolitana in ogni grande città del mondo. E come tutte le ragazze, escono di casa sperando di trovare qualcuno o qualcosa che possa capovolgere la loro esistenza. Non troveranno sicuramente il principe azzurro, ma potrebbero diventare se non modelle, veline o attrice, ‘almeno escort’ di qualche personaggio ricco e importante. Quindi, l’ennesimo ma non la
meno importante delle tante opere dedicate al tema (dalle escort alla prostituzione delle universitarie), anche di lungometraggio. Anche perché l’autrice fa leva su quella spinta, tra sogno e miracolo, che porta ognuno (e non solo le ragazze) a sperare in un futuro migliore. José de Arcangelo

Nanni Moretti incontra il pubblico di Pesaro 48 e parla del suo cinema e delle sue storie da spettatore

Nanni Moretti Day alla 48a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema perché l’attore e regista, al centro del 26° evento speciale, a cura di Vito Zagarrio, ha incontrato il pubblico (e la stampa) al Teatro Sperimentale per una chiacchierata informale e ricca di ricordi e aneddoti sulla vita e la carriera, sul pubblico e sul privato, sulla politica e sul mestiere. "Le mie esperienze da spettatore sono state importanti per il mio lavoro di regista – esordisce Nanni, ex Michele Apicella -, tanti anni fa come oggi. Sono molto legato al cinema degli autori anni Sessanta, era un cinema contemporaneamente attento alla realtà e alla sperimentazione, i loro film riflettevano sul cinema e sulla realtà. Ognuno con il proprio stile prefigurava un nuovo cinema e una nuova realtà, una nuova società. Una riflessione non arida - anche se c'erano film politici un po' rozzi che si disinteressavano della forma e del linguaggio. Era una generazione che aveva avuto in eredità la società dai loro padri, che rifiutava il cinema avuto da loro e pensava ad una nuova società".

"Ci sono registi molto più colti di me – afferma -, come Gianni Amelio. Sono diventato uno spettatore costante abbastanza tardi, la mia infanzia non è stata come quella che François Truffaut raccontava nel suo film (“Effetto notte” ndr.). Io verso i 25 anni frequentavo con una certa assiduità i cinema Nuovo Olimpia e Farnese e la sera andavo a giocare a pallanuoto. Come spettatore è difficile parlare di se stessi, io sono cambiato in meglio, ma sono rimasto lo stesso come spettatore. Rispetto a 40anni fa, mi sembra di avere la stessa curiosità di vedere i film degli altri. Un regista ha la voglia di raccontare storie attraverso il cinema, e mi sembra che il mio rapporto col cinema sia integro, sono sempre curioso di vedere le opere degli altri, le programmo nel mio cinema, ogni tanto le distribuisco anche. Faccio altri lavori oltre il regista, però non lo faccio per dovere ma per piacere; non mi sento portatore di una missione, è una mia scelta". "Fare l'attore e regista dei miei film, forse, è stato un po' più difficile all'inizio – dice -, ma da 'Palombella rossa' in poi ho avuto la possibilità di vedere subito i ciak, perché prima non c'era il controllo video. Chiedevi all'operatore o all'assistente come era andata, se qualche comparsa era entrata in campo, se c'erano stati movimenti sbagliati. E' più semplice controllare al monitor la scena appena fatta. Certo si è concentrati su più fronti, regista, attore e magari anche a dirigere gli altri attori al tempo stesso. E' più difficile ma non mi lamento, è stato naturale fin dall'inizio: tre cose, non solo dietro ma anche davanti alla macchina da presa, come persona, come critico e come corpo. Un'altra cosa che mi sono portato dietro sempre è il raccontare del mio ambiente, politico sociale generazionale, non è d'obbligo ma è quello che si conosce meglio, e finora è stato così. Fin dai film girati in super8 ho raccontato il mio ambiente con ironia, prendendolo e prendendomi in giro, ma non faceva parte di un programma pensato a tavolino, tutte cose venute naturalmente, raccontare di me e del mio mondo. Nel mio penultimo film ("Il caimano"
ripresentato in Piazza in serata ndr.) c'è Silvio Orlando, nell'ultimo ("Habemus Papam" proiettato subito dopo l'incontro ndr.) Michel Piccoli". "Giocavo a pallanuoto – conferma -, ero specializzato nella palombella dalla parte sbagliata, c'è una parte giusta, da sinistra verso destra (non da mancino), e ho fatto di necessità virtù, anche il regista della squadra diceva che non ero molto forte fisicamente. Ho costruito il mio stile di gioco, di astuzia, di precisione. Quando giravo in super 8, anche 'io sono un autarchico' non volevo attori professionisti, ho cominciato una sfida. Ho voluto utilizzare spesso attori non professionisti, per capire cosa può interpretare un amico, un parente, un conoscente. Sapevo di non contare su grandi mezzi, mi piacevano anche certi film con la mdp fissa, senza muoverla a casaccio o inutilmente. Forse in 'Sogni d'oro', c'è molto uso della mdp fissa. Non andava appresso agli attori ma gli attori si muovevano dentro il campo. Non era la realtà, ma era un mio punto vista, perché passo dalla regia all'interpretazione come spettatore. Preferisco attori e attrici che non si annullano integralmente nel personaggio che interpretano. Interpreta e capisce quel personaggio, ma accanto io riesco a vedere la persona, l'attore. Non in trance. E piace allo spettatore perché recita senza tanti ammiccamenti. Regista e attori offrono il loro punto vista sulla realtà". "Ricorro spesso al paragone con me spettatore – prosegue -, all'inizio ero più freddo nel vedere i film, ero alla ricerca della perfezione formale. Quando nei primi film ero contemporaneamente regista e spettatore tendevo a non emozionarmi, a dare meno importanza all'intreccio, al plot. C'è stato però un momento preciso, nel dicembre '81, in cui cercavo di leggere meno per andare al cinema in maniera più tranquilla, e ho visto un film ("La Signora della porta accanto" di Truffaut) di cui per fortuna non avevo letto le recensioni, per paura che mi raccontassero il finale (che vi rovino io se non l'avete visto, omicidio/suicidio), mi emozionai molto e mi colpì finale, appunto. Ho cominciato, allora, a dare più importanza all'intreccio narrativo, alla storia, cominciavo ad emozionarmi come spettatore e anche come regista. Infatti, per 'Bianca' ho chiamato lo sceneggiatore Sandro Petraglia, con cui ho scritto anche 'La Messa è finita'. Successivamente ho scritto con altre due persone per dare maggior importanza alla sceneggiatura e alle emozioni".
"All'inizio leggevo tutto e conservavo tutto - dice riguardo critiche e articoli -, poi leggevo parecchio e conservavo tutto, ora leggo poco e conservo qualcosa, i miei film sono stati accolti benevolmente fin dall'inizio, da un certo momento in poi, non dico la Francia, ma una parte del pubblico e della critica francese hanno adottato i miei film da 'Bianca' e 'La Messa è finita' in poi. Mi viene in mente un frase di mio padre, quando l'ho costretto a fare una parte nel film, 'finché dura...', poi purtroppo è morto nel 91. Ho offerto piccole parti anche al vostro collega Gianni Buttafava - rivolgendosi alla stampa in sala - scomparso l'anno scorso, un uomo molto colto. Poi mi hanno bocciato, questo mi è venuto in mente a proposito della Francia, credo siano arrabbiati perché non abbiamo premiato nessun film francese, ma nemmeno americano. Ma io non mi arrabbiavo nemmeno quando venivo accomunato ai 'nuovi comici', e a Cannes (dove è stato presidente della giuria ndr.) è stata un'esperienza bellissima, anchese già ero stato in giuria in passato". "A proposito di ideologia – continua - mi viene in mente una scena dell'autobiografia di Marx (in 'Sogni d'oro' ndr.) in cui dice 'qui non sto capendo niente, forse ho sbagliato ideologia'. Insomma, negli ultimi anni moltihanno dimenticato che non ho fatto altro che prendere in giro la sinistra anche nella realtà, ma con ironia. Alcune persone qui oggi, hanno visto in questi giorni o in altre occasioni i miei primi due film. Il primo in super8, è uscito nel circuito di cineclub che oggi non c'è più; un pubblico di élite, piccolo, circoscritto al successo nel circuito, il secondo anche più professionale, prodotto a livello industriale. In questo passaggio non è che ho preteso di conoscere i gusti del pubblico. Sono andati a vedere il film forse perché gli piace, vuole questo. Era il mio stile, la mia ironia. Un film molto simile nei personaggi e nell'ambientazione a 'Io sono un autarchico' che speravo restasse per due giorni al Filmstudio, tanto che loro mi dicevano ‘l'hai parenti, amici da portare?’. Invece c'è stato tanti mesi ed è passato in altri cineclub di tutta Italia. Avevo una personalità, uno stile e un tono che mi sono portato dietro e che non pensavo avrebbero avuto successo. Ero un po' spaventato dalla nuova possibilità, e portandomelo dietro sono stato altrettanto fortunato, rivolgendomi ad un pubblico ‘normale e vero’, ed è stato visto di più". "Ho cercato di tenere distinte le due sfere - privata e politica -, faccio parte da oltre dieci anni del movimento dei 'girotondi' ma non vi ho girato nulla, e soprattutto le rare volte che ho affrontato direttamente la politica è stato un po' in 'Aprile' - un avvenimento privato e uno pubblico, la nascita di mio figlio e la prima vincita della sinistra - un po' nel 'Caimano'; perché in 'Palombella rossa' era in maniera non realistica, non per cambiare la testa dello spettatore, ma perché volevo raccontare questa storia. Un mio film si forma da un sentimento, quasi sempre negativo, nei confronti della società che ci circonda; si addensa in qualche personaggio, diventa un soggetto e poi sceneggiatura, che magari esige uno stile diverso, anche produttivamente. Ho bisogno di cominciare da una sceneggiatura solida ('La Messa', 'La stanza del figlio', 'Habemus'), in altri film cominciavo con un po' meno di sceneggiatura, c'erano dei buchi narrativi che speravo poi di riempire in fase di riprese o di montaggio. La politica è ‘direttissimamente’ entrata meno di quanto si pensi. Prima l'ho considerato un fatto personale, quasi privato, dopo i 'girotondi' sono diventato molto politico, non come regista ma come cittadino". "Volevo usare me stesso come forma di pubblicità inefficiente – confessa -, inadeguata, della sinistra su giustizia, scuola pubblica, indipendenza dell'informazione televisiva, non una manifestazione di una
parte, ma rivolta a tutto l'elettorato; mi sono interessato a temi che interessassero tutti. Mi sono riposato come regista, per occuparmi in maniera disinteressata ad un movimento autonomo rispetto ad altri partiti. Nei miei film è entrata poco la lettura della società italiana. Quasi tutte le interpretazioni (dei suoi film ndr.) sono lecite, ma non sempre. Mi è stato chiesto se, mentre viene chiusa la bara legno (ne 'La stanza del figlio'), è possibile leggere, dietro la morte del ragazzo, la morte del '68?' Ho risposto: No! Molte interpretazioni però sono lecite". "Ci sono film che nascono attorno a una cosa, una famiglia spezzata dalla morte del figlio; altri, come 'Sogni d'oro' sono la storia di un regista, dei suoi sogni in cui s'innamora di una sua studentessa, che prepara un film sulla mamma di Freud; 'Bianca' è una storia d'amore, e faccio di nuovo professore nel liceo 'Marilyn Monroe' (anche se è il Giacomo Leopardi, da me frequentato), dove sopra la cattedra non c'era Pertini ma Dino Zoff. Una commedia sulla scuola, ma anche un giallo perché c'erano degli omicidi e, alla fine, si scopriva che ero stato io. E parte del pubblico non ci voleva credere, e andavano via dopo aver visto una confessione lunga dieci minuti, col primo piano mio e del commissario. E gli spettatori mi dicevano 'non sei stato tu, l'hai fatto per scagionare il tuo amico', l'altro sospettato interpretato da Remo Remotti (Siro Siri). Può avere controindicazioni il rapporto tra il pubblico e un personaggio che avevo fatto prendendo larga autonomia da me. A volte ci sono più ingredienti, più strati narrativi che si intrecciano; e dei film o soprattutto di 'quella cosa li', più passa il tempo, più mi piace lavorare ma è sempre più difficile raccontarli, spiegare il perché di questa o quella scelta". "Come ho già detto negli ultimi tempi ho lavorato anche con delle sceneggiatrici. Non lo so perché le donne non sono così presenti nei miei film, ma comunque ci lavorano. La scenografa Paola Bizzarri che ha fatto un lavoro enorme in 'Habemus Papam' è stata premiata; spesso Esmeralda Calabria ha montato i miei film; ci lavoro bene, anche se nei miei film ci sono più personaggi maschili che femminili. Pero vi anticipo che nel prossimo film la protagonista è una donna, cosa nuova, poi non so se è nuova... però è vera, il personaggio femminile sarà al centro della storia che girerò il prossimo anno. Ma sto ancora scrivendo, e se ne parlo troppo mi sembra mi si consumi". "Negli stessi anni (oltre 35 ndr.) Clint Eastwood ne avrebbe fatto 110 film – scherza -, Woody Allen 135. Però sono nate altre iniziative condivise con Angelo Barbagallo, abbiamo prodotto tra 28 e 33 film. Nell'86, appunto, conoscevo Angelo (il produttore ndr.) e mi ritenevo un regista fortunato, volevo restituire un po' di fortuna facendo esordire nuovi registi. Oggi hanno più mezzi, ma esordiscono sempre con tantissime difficoltà; allora si facevano i film con pochi mezzi e pochi attori. Tra gli esordienti che abbiamo scoperto Mazzacurati, Calopresti, Luchetti, Garrone, Santella, tra gli altri. Come lingua l'italiano ha solo 60milioni di spettatori e i nostri film - si diceva - non vanno oltre Chiasso. Allora bisognava produrre film parlati in inglese per attirare capitali stranieri. Ogni tanto i produttori facevano finti film internazionali, che non erano più italiani ma non ancora internazionali. Ibridi con ambientazione i vari paesi, sceneggiati in giro per il mondo, con attori stranieri stradoppiati. Noi a differenza di questa retorica perdente, abbiamo prodotto opere con delle radici, con storie e paesaggi italiani che se fossero stati fortunati potevano diventare anche internazionali. E' stato fondamentale l’apporto di Barbagallo anche per l'apertura del cinema (Nuovo Sacher) e altre novità. Produrre i film di registi esordienti (quasi sempre) che volevo io per primo vedere al cinema, però non mi sono mai messo dal punto di vista del regista e nemmeno del produttore, ancora una volta da spettatore, non nascondendomi dietro altri. Bisogna prendersi le proprie responsabilità perché mi dicevano 'ma il pubblico non lo capirebbe', mi ponevo come spettatore di fronte alla sceneggiatura, al montaggio e al mixaggio. Ero presente come spettatore, ma con un po' più di distacco. Non imponendo loro il mio stile, mi interessava capire
la loro strada e aiutarli il più possibile a trovare uno stile, una propria personalità, e controllare la situazione com'era vent’anni fa. Evitare i luoghi comuni contro il pubblico, anziché fare film attraenti/respingenti trovare un affiatamento con quel pezzo di pubblico interessato a questo tipo di film". "Il film dei Taviani ('Cesare deve morire’) pensavo di vederlo per primo, invece, alla fine sono riuscito a vederlo per ultimo, perché gli altri distributori avevano detto ‘bello ma difficile, non commerciale, non attraente’. Se è bello lo si deve distribuire, il pubblico non è sempre innocente, casomai è pigro. E' stata una sorpresa il premio al festival di Berlino e poi quelli avuti in Italia". "Come esercente ho programmato film iraniani, dedicato un corto a 'Close Up', li ho anche premiati a al Festival di Venezia e a Cannes 2007, sono tutte attività un po' collegate, ma mi piace ancora farle. Infatti martedì a Roma riparte la rassegna 'Bimbi Belli' dedicata agli esordi italiani della stagione, sono tanti: da Laura Morante ('Ciliegine') ai fratelli Di Serio (‘Sette opere di misericordia’), e alla fine c'è sempre un dibattito condotto da me". "Non so nemmeno perché ho interpretato due volte un analista, o fatto film d'ambiente religioso, riesco con difficoltà a fare l'interprete iguriamoci 'l'interpretatore' di me stesso, non so. Ho fatto un film ('La cosa') sul partito che stava finendo, non ho capito domanda (ancora su politica e film ndr.) ma la risposta è no". "A Cannes i film in concorso erano 22, e potevano essere meno, nessuno è stato premiato all'unanimità, tutti pensano alla giuria come a un corpo monolitico, possono essere 3 persone come qui, o 9 come a Cannes. Ma non è che si spezzano in due, il premio per l'attore protagonista magari si è d'accordo con uno, mentre per la sceneggiatura con un altro. A me piaceva il portoghese, ad altri tre giurati un altro che non è piaciuto a nessuno, e ci siamo detti prendiamo un terzo che sia piaciuto di più. Spero di avere il record delle riunioni, ne ho convocate 8 in 10 giorni, ogni tre film visti ci vedevamo. La strada è discutere molto di tutti i film e poi votare, e si parte dal più grande. Ricordo in questi anni che i primi 3 premi sono incompatibili con altri, se vengono assegnati non si può dare un secondo premio allo stesso film. Molti erano stati colpiti da Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant (protagonisti di "Amour" di Michael Haneke ndr.) e dal contenuto fondamentale, ma il film aveva già vinto (la Palma d'oro) e non potevano essere premiati. Abbiamo discusso fino all'ultimo. Ho trovato deludente la selezione americana, 6/7 film diretti e prodotti
da attori, non so se è rappresentativa dello stato attuale". "Il soggetto de 'La stanza del figlio' l'avevo scritto anni prima, ma poi è nato mio figlio, e ho deciso di fare prima 'Aprile'. Giravo intorno al ruolo dello psicanalista - che per mestiere cerca di alleviare la sofferenza degli altri - che si trovasse davanti al dolore più grande e vedere cosa sarebbe successo". "L'autostima degli anconetani era bassissima - aggiunge sul 'trasferimento' fuori sede -, mi dicevano 'perché sei venuto a girare qui?', ma Roma l'avevo inquadrata e raccontata in tanti modi, poi essendo un film sul lutto, avevo l'impressione che in una piccola città ci fosse ancora una comunità intorno alla famiglia, e come i tre protagonisti andando in città avvertivano un senso di solidarietà, da persone che sanno quello che è successo loro. Dopo una serie di sopralluoghi, ho deciso per Ancona". "Oggi col digitale è più facile fare film – conferma -, ma senza riflettere sul mezzo espressivo che si sta usando, quindi, ci saranno tanti film brutti. Ma per chi esordisce è importante l'uso, però se è casuale non fa che riprodurre il linguaggio televisivo dilagante, il quale senza rendersi conto è entrato dentro di lui. Ben venga il digitale se accompagnato dalla riflessione sul mezzo, altrimenti riprodurrà i modi di fare cinema più banali". "Penso sia evitabile un linguaggio che è l'espressione di un gergo che si usa e riusa di continuo. La nostra è una bella lingua, molti parlano in maniera molto semplice, altri in modo ricercato. Non sono per il parlare difficile, tranne quando è motivato". José de Arcangelo

Mostra di Pesaro. Le conseguenze della guerra fratricida in Bosnia sulla nuova generazione nel film di Aida Bigic, e la tragedia dei naufraghi del 'viaggio della speranza' in quello di Sandro Dioniso

PESARO, 30 - Presentati ieri sera gli ultimi due film in concorso, l'italiano "Un consiglio da Dio" di Sandro Dioniso, scritto con Flavio Alaia, e il bosniaco "Djeca" di Aida Bigic. Il primo è un esperimento non del tutto riuscito, un tentativo di fondere un testo di finzione con interviste dal vero, cioè documentarie, degli immigrati naufragati/approdati in Italia via mare dopo un'infernale odissea durata mesi, a volte anni.

Nonostante l'efficacia del testo e dell'interprete Vinicio Marchioni, i suoi spietati monologhi (anche metaforici) non riescono a sposare i racconti degli extracomunitari sul loro ‘viaggio della speranza’, e l'opera resta in bilico tra la rappresentazione teatrale all'aperto (sulla spiaggia-cimitero) e il documentario sociale. Anche quando il film si propone come un’analisi lirico-efferata del male, i due versanti non si amalgamano mai del tutto. Da una parte il racconto nudo e crudo del ‘trova cadaveri’, sorta di Caronte contemporaneo; dall’altra le testimonianze altrettanto dure e tormentate. Comunque, “Un consiglio a Dio” resta un valido intento di fondere cinema, teatro e documento. “Una riflessione sul tema dei migranti – dice l’autore -, visto in chiave paradossale e grottesca”. Al contrario "Djeca" colpisce e conquista prima dal punto di vista cinematografico, poi da quello umano, anche quando non si riesca a capire fino in fondo i retroscena dell'esistenza della giovane protagonista. Infatti, il passato viene evocato, anzi accennato, in qualche dialogo e in rari, ma efficaci, flashback di repertorio (la guerra). Però tocca allo spettatore intuire e capire una tragedia che non possiamo aver dimenticato, anche se sono passati quasi vent'anni. La ventitreenne Rahima e il fratello quattordicenne Nedim sono orfani della guerra in Bosnia. Vivono a Sarajevo, in una società in fase di transizione e cambiamento che ha ormai peso ogni compassione verso i figli delle vittime del conflitto. Ma, dopo un’adolescenza inquieta, Rahima ha trovato conforto nell’Islam e spera che il fratello segua le sue orme, ma a scuola il ragazzo si scontra col figlio di un potente ministro e la situazione precipita. Infatti, il film narra la storia di una generazione, nata e/o cresciuta dopo la guerra fratricida, vittima soprattutto delle conseguenze, sopravvissuta ad un mondo che non esiste più, forse, e alla ricerca di una nuova strada verso il futuro.
Visti, tra gli eventi speciali, anche il primo documentario ‘partecipato’ ovvero “Il pranzo di Natale”, costruito con il contributo filmico di tante persone – tra registi e gente comune – che offre un quadro sull’argomento ora grottesco ora genuino ora semplicemente documentario della ‘festa’ per eccellenza degli italiani, non solo. Un gustoso viaggio tra sentimenti e costumi, tradizione e trasformazione, ricordi e momenti vissuti. Un altro, gustoso, ‘esperimento’ ideato dalla regista Antonietta De Lillo, intervallato da una conversazione con Piera degli Esposti a cura di Marcello Garofalo. E “Ciao Silvano” di Tecla Taidelli, affettuoso e sincero omaggio a Silvano Cavatorta, docente alla Scuola di Cinema di Milano e fondatore dell’associazione e del festival Filmmaker, da parte della sua allieva più irrequieta. Realizzato su richiesta della stessa moglie di Cavatorta, la regista ripercorre la vita del fimmaker scomparso nel 2011 dando voce ai suoi amici e colleghi. “Silvano mi aveva ammessa – confessa l’autrice – nonostante mi fosse presentata con l’aspetto punk e con i capelli dipinti
di arancione e mi ha sempre supportato e ‘sopportato’ in ogni mio progetto”. Per la sezione “Il cinema documentario oggi: l’Italia allo specchio”, sono passati anche “Thyssenkrupp Blues” di Pietro Balla e Monica Repetto (2008), già presentato al Festival di Venezia, e “Predappio in luce” di Marco Bertozzi, passato lo stesso anno al Festival di Roma. Il primo, attraverso le vicende – prima e dopo la tragedia - di un operaio della Thyssenkrupp Acciai Speciali costretto al licenziamento e poi richiamato a lavorare durante lo smantellamento, offre la testimonianza del terribile incendio in cui bruciarono vivi sette suoi compagni di lavoro. Il secondo ‘indaga’ sul perché Predappio, la città del duce, è ancora oggetto di viste nostalgiche e di rituali altrove impensabili. Poi la giornata è stata interamente dedicata all’evento speciale Nanni Moretti, tra l’incontro col (di cui parliamo altrove), l’inaugurazione della mostra a lui dedicata e le proiezioni dei suoi film e corti. José de Arcangelo

venerdì 29 giugno 2012

Pesaro 48. Ritratti d'Italia nell'obiettivo del documentario, e del mondo nei film in concorso

PESARO, 28 - Ormai al quarto giorno, la 48a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema - Festival di Pesaro ha sfoggiato più della metà dei film del concorso e altrettanti documentari italiani che riflettono l'Italia degli ultimi anni. Tra alti e bassi, i film che concorrono per il Premio Lino Miccichè visti finora, partono tutti da una vicenda vera, a volte autobiografica, per raccontare la realtà di oggi tra disagio, insicurezza e ricerca di identità. Il tailandese "In April the Following Year, There Was a Fire", scritto e diretto da Wichanon Somunjarn ci porta col suo protagonista Nhum nel suo paese natale in occasione del matrimonio di amici durante il Capodanno. Rivede i vecchi amici, incontra una vecchia compagna di scuola di cui era, forse, innamorato e ritorna dalla famiglia. Però ad un certo punto la pellicola vira verso il documentario attraverso un'intervista prima al padre e poi al fratello del regista stesso. E il viaggio diventa una suggestiva e ambigua confusione tra realtà e fantasia, passato e presente, documentario autobiografico e finzione. Da un'idea interessante e su un argomento che nemmeno gli israeliani conoscono, "Sharqiya" (che nella lingua dei beduini significa vento dell'est, un vento del deserto 'potente e cattivo') di Ami Livne, in parte delude. Perché racconta le vicende del giovane beduino Kamel che vive, accanto alla capanna di legno e lamiera del fratello e della cognata - che vorrebbe andare all'università contro il volere del marito -, in un piccolo villaggio nel deserto e lavora come guardia di sicurezza alla 'stazione centrale' (titolo internazionale) di Be'er Sheva, una città nel sud di Israele. Un giorno, tornando dal lavoro, il giovane scopre che c'è un'ordine di demolizione delle loro baracche e, per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sul loro problema, decide di mettere una bomba alla stazione facendo poi finta di essere lui stesso a scoprirla. Ma la sua

azione si rivelerà inutile perché non provocherà i risultati sperati e le loro case verranno comunque demolite, anche perché il suo atto di ribellione e di conseguente eroismo non verrà considerato degno d'attenzione nemmeno dalla televisione, anzi. Infatti, l'opera prima del giovane regista pecca a volte di ingenuità e non riesce a coinvolgere lo spettatore nella vicenda di queste tre anime diverse, accomunate soltato dal legittimo desiderio di restare nella loro terra ad ogni costo. Più coinvolgente e toccante il ritratto femminile di "La jubilada" (la pensionata) del cileno Jairo Boisier Olave che narra la storia della trentenne Fabiola che, stanca e delusa della sua avventura in città, torna nel suo paese natale. Anche se lei non lo ammette, tutti sanno che aveva sì fatto l'attrice, ma in film pornografici. E la sua voglia di ricominciare non sarà per niente facile, perché il suo passato verrà a gala, sbarrandole ogni porta e, soprattutto, impedendole di vivere in pace con gli altri e con se stessa. In bilico tra lo squallore del suo passato e quello della realtà provinciale, bigotta e maschilista che la circonda, la donna sarà, forse, costretta a ripartire.
Giocando tra documentario e improvvisazione "Unten Mitte Kinn - Lower Uppercut" (Montante basso) del tedesco Nicolas Wackerbarth - proiettato in piazza subito dopo la vittoria agli europei di calciodell'Italia sulla Germania -, nonostante parta da uno spunto non originale, riesce a coinvolgere e farci riflettere sul mestiere dell'attore e sulla sua ambiguità. Anche perché siamo in Germania, dove le scuole di recitazione ufficiali vengono seguite e valutate anche per le possibilità di lavoro futuro che offrono ai diplomandi. Infatti, narra di una classe di studenti di recitazione all'ultimo anno che inizia a prepararsi per la 'prova finale' con una rappresentazione teatrale ispirata ai "Bassifondi" di Maxim Gorky. Però a sole due settimane e mezzo dalla data dell'esame si ritrovano senza il severo professore che li seguiva né un adattamento del testo e nemmeno i ruoli assegnati. Lo spettacolo rischia di diventare un vero disastro e l'accademia addirittura di chiudere. "Se gli studenti tentano di rovesciare la situazione - si chiede l'autore -, qual è il prezzo che devono pagare? La protesta studentesca trova il suo fine nella ricerca di una fantomatica figura autoritaria oppure conduce a una genuina forma di espressione?" E' l'eterno dilemma di chi affronta per la prima volta il mestiere dell'attore, tra insicurezza e paura, passione e determinazione, volontà e coraggio. Tutte componenti importanti che aiutano a crescere nella professione e nella vita. Tanti sguardi e punti di vista diversi su un'Italia che cambia, spesso in peggio, tra una crisi (economica) e l'altra (politica), tra problemi culturali (la scuola) e sociali (lavoro, disoccupazione, terremoto) nella sezione "Il cinema documentario oggi: l'Italia allo specchio". Il più bello e coinvolgente è "Ju Tarramutu" di Paolo Pisanelli perché per raccontare e seguire le vicende della tragedia de L'Aquila ha scelto di far parlare i protagonisti, ovvero le vittime del terremoto che tolto loro parenti, amici, vicini e soprattutto la città. Rinunciando ad ogni commento, il regista ci fa ascoltare le testimonianze, la delusione, l'indignazione e la rabbia dei diretti interessati, tutti sentimenti che noi abbiamo condiviso, di fronte alle 'parole' e alle beffe di chi li doveva aiutare e proteggere, anziché fare 'propaganda'.
Ma vanno segnalati anche "Come un uomo sulla terra" di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene che, sempre attraverso le testimonianze dirette degli emigrati, illustra l'atroce odissea, soprattutto degli etiopici, che per raggiungere l'Italia erano costretti ad attraversare la Libia, non solo in condizioni disumane, ma a pagare per venire arrestati e tenuti ammassati anche per anni. Valga per tutti la storia di ordinaria violenza che ha subito Dag, studente di Giurisprudenza ad Addis Abeba, costretto ad emigrare a causa della forte repressione politica. Dopo aver attraversato il deserto, giunto in Libia si è imbattuto in una serie di disavventure legate non solo alle violenze dei trafficanti di uomini, ma soprattutto alla sopraffazioni e alle violenze della polizia libica, prima di raggiungere l'Italia via mare. E' lui è uno di quei pochi che ce l'ha fatta. "Palazzo delle Aquile" di Stefano Savona, Alessia Porto ed ester Sparatore, è la lunga cronaca delle vicende di 18 famiglie rimaste senza casa che occupano per un mese il Palazzo delle Aquile, sede del municipio di Palermo. La sfida: le case in cambio del palazzo. Anche qui sono i membri delle famiglie a raccontarsi attraverso dichiarazioni, incontri e scontri con politici e funzionari. "Scuolamedia" di Marco Santarelli ci porta dentro la scuola media inferiore Luigi Pirandello, nella perfiferia industriale a nord di Taranto, nel Quartiere Paolo VI. E' il ritratto di una scuola di periferia che resiste, si confronta e si scontra con i sogni, i problemi e le difficoltà di ragazzi e genitori. Ma anche degli insegnanti, chi più chi meno, cercano di aiutarli e cambiare le cose. Uno spaccato socio-culturale dell'istituzione scolastica oggi nel sud Italia.
Tutta altra tecnica e tutt'altro linguaggio in "Magog" (Epifania del Barbagianni) di Luca Ferri, e "Land of Joy" di Laura Lazzarin, che raccontano il nord est attraverso immagini che parlano da sole. Soprattutto il primo in cui la pianura pada si presenta come luogo dell'assurdo. Groviglio incestuoso, osceno addirittura, di stratificazioni architettoniche e fallimenti edilizi. Palme, vere e di plastica, vuoti urbani, pieni urbani e neon di ieri e di oggi. Un intreccio di neoclassico e futuristico, cumuli di ulivi (sradicati e ripiantati) e abusi decorativi, tra vecchio naif e nuovi eccessi. Il secondo osserva il Veneto, in passato terra di emigrazione, oggi tra le aree industriali più ricche del Paese e, quindi, con la più alta percentuale di immigrati, egemonizzata politicamente dalla Lega Nord. Un quadro in cui tragico e comico spesso coesistono e si confondono. José de Arcangelo

Francesca Inaudi nella giuria del 48° Festival di Pesaro, parla del suo lavoro e della sua esperienza fra piccolo e grande schermo

PESARO, 29 - Francesca Inaudi è nella giuria del concorso della 48a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema - Pesaro Film Festival, ma non è la prima volta che si trova in questo ruolo perché è stata giurato nel concorso lungometraggi del Festival di Trieste e in un paio di rassegne dedicate ai corti. "Mi piace perché riguarda il cinema internazionale - ci confessa l'attrice -, di film che probabilmente non usciranno in Italia, che ti danno un'idea di come si muove nel mondo. Il cinema necessita dire cose anche in maniera non organica. Mi piacciono il film belli, soprattutto quelli che hanno l'urgenza di dire qualcosa, ma non necessariamente di raccontare una storia. Hanno una cosa forte da esprimere, da dire". Da quello che abbiamo capito dei tuoi lavori precedenti e soprattutto in "Il " girato in Patagonia, ti piacciono le sfide. "Mi piacciono le sfide in generale, alzare le asticelle perché in questo mestiere impari fino agli ottant'anni, scopri parti di te che non sapevi avere. Interpretare personaggi molto lontani da me, appartenenti a un mondo che non condivido. Renderlo lo stesso anche se non mi piace". A proposito del film che hai appena girato con Brignano e delle polemiche di questi giorni che ne dici? "Penso che il modo in cui ognuno gestisce fama o l'enorme successo sia una reazione affidata all'essere umano non all'attore. Nel film ho girato pochissimo con Enrico Brignano, ma non mi sento di giudicare le persone perché io stessa non so come reagirei. Dipende da come ci si sente in un determinato momento, da come stai; magari ti è morto il gatto, stai male e non hai voglia di firmare autografi. Lui ha raccontato che gli hanno chiesto l'autografo persino ai funerali del padre. In certe situazioni il disequilibrio viene fuori. E' una persona piacevole, l'ho visto stanco, affaticato, ma ognuno si prende i pesi che sa portare. Nel film sono l'ex compagna, con la quale ha una figlia, e che tenta di riconquistare. Lei, invece, ha una certa forma di durezza perché entrambi sanno che non stanno bene insieme, ma non riescono a staccarsi. E' una commedia dai canoni leggermente diversi, ma finché non sarà finita non la posso giudicare. Il regista (Andrea) è molto preciso, diverso da quelli con cui ho lavorato finora, non fa mai 3/4 ciak a meno che non lo richiedano. Per me è un modo di lavorare congeniale perché non sento il bisogno di ripetere. Sarabbe molto bello che tutte le film commission producessero di più, perché abbiamo tutte regioni meravigliose. Marche è una delle più belle, anche per il modo della gente che dopo un'iniziale apparente chiusura si rivela estemanente aperta. Bisogna organizzarsi per decentralizzare il cinema, sarebbe sano per il paese e per il cinema. E che investissero soldi sul territorio per dare più possibilità di fare ai ragazzi, anche ai ventenni. Io mi sento una donna non più una ragazza". E sulla televisione che ne pensi? Come ti trovi a lavorare? "E' solo un cambiamento di codice, personalmente la guardo abbastanza poco - dice -, spesso per ricontrollare il mio lavoro, per vedere cosa ho fatto, come crescere. La uso per informarmi, per avere un approffondimento dei fatti e delle notizie. Il mio rapporto non è d'odio né d'amore, la considero quello che è, come un elettrodomestico. Lavorarci è una difficoltà in più, è una palestra soprattutto se la fai per diversi anni come ho fatto io. Una lunga serie ha dei ritmi inconcepibili, tanto che poi il cinema ti sembra una passeggiata. Con quella esperienza posso fare un film d'autore o un'opera prima a basso costo, sei una macchina e sai farlo. Tutto serve, perciò la rifarei anche se mi è costata fatiche e sofferenza. Se hai qualcosa da comunicare la manovalenza costa, il mio maestro diceva per fare una cattedrale devi cominciare facendo l'artigiano". A volte ci sono fiction realizzate come veri, buoni, film. "La televisione ha più mezzi perciò è più disposta a rischiare - conferma -, gli americani e gli inglesi fanno delle serie che hanno la dignità di una saga dai contenuti potentissimi, ma poi, alla seconda serie, anche loro la distruggono, come da noi con 'Tutti pazzi per amore' che era originale, brillante, irreverente, poi dalla seconda stagione tendeva a normalizzarsi. Il problema della normalizzazione è che si pensa che gli spettatori non siano pronti alla straordinarietà. Quando si cerca di fare cinema, invece, non si vuole vedere normalità, l'arte è fuori dalla normalità. La fiction contro la violenza sulle donne ("Mai per amore" ndr.) è di estrema attualità. Ma non mai è facile raccontarla perché le cose che accadono nella realtà sono spesso più improbabili della finzione. Però il pubblico italiano non è cretino come si pensa". Che progetti hai? "Riprendere a teatro "Colazione da Tiffany" e un film sul calcio fiorentino, diretto da Stefano Lorenzi, da girare a settembre. Lavoro molto e non mi lamento mai. Bisogna essere coscienti di quello che uno ha. Lo Star System in Italia, meno male che non c'è. Ci vuole un mercato enorme come quello americano per sostenerlo. Altrimenti fai un film pazzesco e 5 no, ed è tutto costruito su quello, sennò non campano; vivono della propria immagine. Il nostro cinema, invece, non è basato sull'immagine dell'attore, per una ragione di etica, mentre quello hollywoodiano predilige l'estetica fine a se stessa. La nostra è molto lontana, più concentrata sulle cose da dire e non su chi le dice. Certo in passato ci sono stati Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, e le star che emigravano a Hollywood, ma erano altri tempi. Dall'altra parte c'è la tivù in cui ogni giorno si può guadagnare lo status di star, dove si ha l'impressione che da un giorno all'altro si possa avere tutto. L'importante è che si riesca a riconoscere che dentro c'è anche qualcun altro che si è fatto il 'bucio' per arrivarci, anche se non lo condivide, non capisce. Spesso si pensa sia normale essere a un certo livello, perché ci è arrivato, lui c'è. L'essenza della star è essere intoccabile, irrangiungibile. Scamarcio per un po' ha fatto la star: non firmava autografi, si rifiutava di fare certe cose. Sali un gradino, ma il pubblico ti rifiuta, perché se tutto è raggiungibile anche tu lo devi essere. Sei dentro la scatola a casa mia, quindi ti posso toccare, e quando ti saltano addosso diventa faticoso. La star la fai, ma diventi stronzo. Le star americane sono intoccabili sempre, ma nei momenti pubblici in cui sono raggiungibili, sono perfetti, sorridono sempre, salutano, firmano autografi. Quando c'è un'industria crea lo Star System, da noi lo lasciamo alla televisione. Ma inun paese allo sfascio economico come il nostro è difficile. E ormai per non parlare male diun film si dice è 'un po' televisivo', ma non è vero, anche se si intende 'piccolo e brutto'. Non mi piace vedere i film in tv, perché diventano un'altra cosa. 'Noi credevamo' (in cui recita anche lei ndr.) in tivù sembrava intrappolato in qualcosa". "Mi innamoro delle cose non delle persone - dice -, ho fatto film più importanti o meno però è la definizione che danno gli altri. Anche lavorando con un cosiddetto regista di nicchia come, per me 'Il richiamo' è un film importante. Dentro ogni film, dentro ogni cosa trovi quello che ti piace. Mi piacerebbe lavorare anche fuori, all'estero, per confrontarmi, per capire perché la globalizzazione non si applica nelle cose positive, rispetto l'Africa nera, poter allargare i confini e sentirsi davvero cittadina del mondo. La difesa della proria identità in un mondo che verso la globalizzazione è un'altra dimensione". Quindi, non ti innamori sul set? "Ma amo le persone perché il mondo è fatto di persone, fatto di umanità. Strehler, il mio maestro, era considerato terribile. Io credo che un uomo possa essere il peggior stronzo ma una persona immensa. Però un regista che non ama gli attori sbaglia, non può volere la disumanizzazione dell'attore perché è un suo veicolo. Kubrick amava sostenere umanità, ma si dice avesse un rapporto conflittuale con gli attori, e loro la prendevano in un altro modo. E' una questione di equilibri. Mi interessa fino ad un certo punto chi sono gli attori e il regista con cui lavorerò, ma non parto mai prevenuta. Nella vita si cambia per tanti motivi e circostanze, forse un regista che conosci ora lavora in un altro modo. Non mi interessa chi, ma come e cosa vuol dire. L'armonia è necessaria per fare certe cose, la 'nostra disarmonia' con Sandra Ceccarelli è diventata elemento fondante per 'Il richiamo'. Non l'ho cercata, ma pensavo 'mi troverò male', invece è venuta fuori da sola ed era funzionale per i personaggi. Un'alchimia perfetta dentro un disagio. Se la cosa ha un senso, al di là della realtà, quando capita è molto bello, è qualcosa che va da sé". E domani tocca a Nanni Moretti che avra il tanto atteso incontro col pubblico e la stampa, in occasione dell'evento speciale a lui dedicato. Ed è già tutto 'esaurito'. José de Arcangelo

giovedì 28 giugno 2012

Flatform ha presentato il suo nuovo progetto nell'ambito della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro

PESARO, 28 - E' stato presentato nell'ambito del Festival - martedì 26 nel cortile di Palazzo Gradari -, anche il nuovo progetto di Flatform da realizzare prossimamente, 'Pesaro sinfonia', al Parco Miralfiore, in parte per ragioni di tipo estetico-ambientali perché si presta all'installazione/video che coinvolgerà l'Orchestra Rossini di Pesaro, e tutto l'organico (180 tra musicisti e coristi). Il cuore del progetto è la relazione col passaggio del tempo all'imbrunire, il passaggio della luce dell'ambiente con il cambiamento/dissoluzione del suono nel pezzo musicale attraverso i movimenti in questo spazio. Un concetto abbastanza complesso da spiegare - dicono gli organizzatori -, perché si tratta di qualcosa che non si può ancora vedere. "Verrà girato in due versioni come era stato deciso fin dall'inizio - aggiungono -, non come accadeva di consueto, ma in una duplice versione, una legata al mondo delle arti visive (installazione), l'altra per lo schermo. Il girato si farà con due modalità diverse (tre camere Red molto evolute ad alta definizione), e quella installativa in tre formati diversi che attraversano l'evoluzione della video arte, dagli anni '70 per finire col passaggio all'alta defiizione e all'HD, ossia una dissoluzione nella dissoluzione. Sarà realizzato a settembre, in un tempo un po' diverso, perché di solito è dilatatissimo. In questo caso, invece, sarà diverso perché tutto verrà girato in un giorno. L'intervento francese (l'intera produzione) si concentrerà principalmente sulla parte audio che sarà completamente realizzata nei loro studi evolutissimi, tra i migliori d'Europa. Il tutto sarà completato nell'ultima settimana di settembre e a inizio ottobre dovrebbe già essere finito". Il progetto è nato tempo prima, durante il festival dell'anno scorso, quando i realizzatori di Flatform hanno scoperto il parco che ha le caratteristiche giuste per poter realizzarlo, perché "si ha la sensasione di essere comunque in città, anche quando stando a Miralfiore ti sembra non capire se sei nella città o no. Un punto fisso dove sta anche l'orchestra, che ci offriva la possibilità di girare anche a Pesaro. Dunque, in Francia si farà solo la post produzione, perché 'i cugini, a volte tanto odiati', offrono vantaggi enormi, producendo e senza pretendere che si giri in loco". Il gruppo di artisti sarà, quindi, impegnato nella realizzazione di un video che sarà girato nel Parco Miralfiore, uno spazio speciale perché urbano, interno alla città, e al tempo stesso anche selvaggio e naturale, per un progetto nel quale rivestiranno grande importanza i suoni e l’illuminazione. Il collettivo dei Flatform è un gruppo di artisti nato nel 2006 e attivo fra Milano e Berlino nell’ambito delle videoinstallazioni e delle installazioni mobili. Dopo essere stati omaggiati nella scorsa edizione del Festival, il collettivo ha rinnovato quest’anno la collaborazione con la Mostra di Pesaro ideando e relizzando la sigla della presente edizione: un video dove dei titoli di coda con i credits del festival scorrono "al contrario", una sigla che si propone come elemento di raccordo tra il prima e il dopo di ogni evento, per un unico film lungo tutto il festival. José de Arcangelo

mercoledì 27 giugno 2012

Pesaro 48. Il regista Christian Petzold parla delle due anime della Germania e di un passato che sta ancora lì

PESARO, 26 - Alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema si è tenuto stamattina il primo incontro con il regista tedesco Christian Petzold, autore del film presentato in anteprima ieri sera in piazza. Un dramma esistenziale ambientato negli anni Ottanta, nella Germania ancora divisa, separata, dal muro che crollerà solo alla fine del decennio. "Barbara" ha vinto l'Orso d'Argento al Festival di Berlino 2012, ha avuto il premio della giuria dei lettori del "Berliner Morgenpost" ed è stato ben accolto dal pubblico tedesco e francese. "Petzold è uno dei registi più significativi del cinema tedesco contemporaneo" - ha detto il direttore del festival Giovanni Spagnoletti -, ricordando i precedenti film, dall'opera prima "Gespenster", presentata a Venezia, "Yella" a Berlino e Chicago, e "Jerichow", ancora al Festival di Venezia. "I problemi dell'identità tedesca - ha aggiunto -, il rapporto tra vita e morte (Gespenster) è la chiave poetica del suo lavoro, e ora ha in mente un film dalla storia di Primo Levi, che riguarda direttamente il famoso viaggio, appena uscito da Auchswitz, per tornare in Italia, un percorso rifatto sullo schermo da Davide Ferrario".

"Rispetto al film che intendo realizzare - ribatte il regista - si tratta di un lungo viaggio paragonato a un'odissea, basato nelle linee di principio a quello di Primo Levi, ma è il viaggio di un tedesco che parte alla ricerca del suo volto, dekla sua vera identità. Sebbene sia ispirato al percorso di Levi, è una visione alla Hitchcock sulla scia de 'La donna che visse due volte'". E poi confessa sulle due anime della Germania: "Nel 1982, ho ricevuto la visita di un amico italiano, Raffaele Celsi, che mi ha detto 'Sarà una visita breve, perché devo assolutamente andare a Berlino est per sperimentare tutto quello che la Germania orientale rappresenta'. Ma si è ripresentato un'ora dopo: 'Ho comprato solo un disco, è stata un'esperienza terribile, sembra la Corea del Nord, tutto grigio illuminato dalle luci del nero'. Io invece vi passavo una settimana tutte le estati, per me sono state esperienze sempre straordinarie, anche la mia prima fidanzatina era lì. Ma ho memoria di esperienze estremamente terribili - perché i miei provenivano da lì -, dovrebbe essere il passato ma non è, il passato è ancora lì. Ho pensato bisogna occuparsi di quest'isola, che come in tutti i tempi spartani bisogna combatterci. Anche perché le persone non spariscono e vengono a dare una testimonianze. Non erano più divisi, isolati, ma hanno vissuto, sono cresciuti in quel paese. Volevo realizzare un film su questo problema". "Il tema del fantasma (in questo caso della DDR ndr.) lo affronto spesso nella mia fantasia - prosegue Petzold -; è un fantasma venuto anni fa, quando ho letto un romanzo di uno scrittore dell'est, ambientato nell'epoca in cui era nata la DDR, dal '49 in poi, che parla di tutti i lavoratori che affrontano il tema dell'antifasciscmo, delle donne che si sforzano per ricostruire il nuovo Stato. Ma il libro poi è stato vietato, perché parlava di un sogno che vuole essere costruito e dell'apparato che impedisce che quel sogno si realizzi. Volevo rappresentare entrambe le cose, e come il sogno poi svanisce". "Quello che ho trovato nella DDR è che non c'era possibilità di (di)mostrare la sensualità, la leggerezza. Tutto era estremamente legato alla ragione, tutti dovevano essere con i piedi per terra. Quando andavo a trovare i miei cugini portavo le mie realtà: la musica pop, le fotografie, i colori, perché ho vissuto qualcosa di straordinario che non apparteneva al loro mondo. Credo che la distruzione della DDR sia stata anche un merito della musica pop. All'interno avevo notato che nella tv dell'est venivano sempre trasmessi film di Romy Schneider, che era amata e ammirata. Perché lei era la personificazione della sensualità e dell'armonia, riusciva ad uscire dai canoni, rappresentava Parigi, i profumi, la sensualità che loro non avevano. A Nina Hoss (la protagonista ndr.) ho fatto vedere per cinque giorni di seguito film con Romy Schneider; abbiamo visto insieme come si truccava, si vestiva, camminava; lei doveva capire le sue caratteristiche, e attraverso il suo atteggiamento dire 'basta, non ci sto più'. Quel tipo di espressione che ha andando in bicicletta per le strade del paesino sperduto come se si trovasse a Parigi, doveva rappresentare la sua ribellione". Dell'attrice che è quasi un suo feticcio, dice: Quando ho iniziato il mio lavoro ho capito subito che c'era una chimica tra di noi, prorpio mentre guardavamo 'Stromboli' di Rossellini, e ho considerato quanto Ingrid Bergman sia stata un'icona della donna moderna, esiliata, non più all'interno di un contesto sociale. E' importante in ogni situazione in cui vi si trova ci sia la realtà, soprattutto di donna. Ho capito che avremo potuto lavorare insieme. E' nata così, da allora guardiamo molti film insieme, in passato anche 'Viaggio in Italia' perché c'è il tema dell'addio. Nina riesce a capire quello che mi piace nella recitazone, è un'attrice eclettica, e anche nella vita sembra non avere appartenenza, radici; esprime profonda indipendenza e solitudine, sono rimasto male, anzi arrabbiato, perché non le è stato attribuito il premio (l'Oscar tedesco) per la miglior interpretazione femminile" . "Quello che adoro nel cinema è la suspense, creare la suspense, che non vedo moltissimo nei festival e nel cinema europeo. Tutto quello che è tensione, pressione che venga sia da un matrimonio, sia da una rapina in banca per mettere al sicuro il bottino, sia da un sentimento, da un'autorità superiore o da uno Stato che mette sotto pressione la popolazione, ma anche dall'idea del lavoro, del coraggio che ci vuole in alcune situazione. Così come il comportamento, la decisione di 'Barbafra', quando deve trovare un nascondiglio per i soldi, li mette al sicuro utilizzando materiale (chirurgico) del suo lavoro abituale per un gesto non abituale, o addirittura 'criminale'. Suspense, tensione, pressione richiedono attenzione alle cose, alle situazioni di lealtà, ai rapporti tra le persone stesse, tutte le nuove ondate, dal neorealismo alla nouvelle vague si ricollegano, immagini che si vedono anche nei film fantascienza".
"Volevo accennare al fatto che Stella (l'adolescente da cui Barbara si prende cura ndr.) fugge da una specie di campo di lavoro minorile, una sorta di prigionia, una minaccia che ho avuto sempre davanti agli occhi. Portare capelli troppi lunghi, che dicevano 'dovresti comportarti in questo modo' se non vuoi finire in carcere giovanile, in un campo di lavoro. Lo sentivo raccontare dai miei cugini, e lo rapportavo alla mia vita. La cosa strana è che questi campi dovevano indottrinare i giovani, perché riuscissero a capire i semi del male del fascismo, invece è stato uno strumento di brutalità profonda. Con un occhio particolare scoprire il collegamento tra la vita nell'Est e nella Germania ovest, la stessa cosa tra la chiesa cristiana e quella evangelica". "Senza alcune remora sui miei anni di Wenders che trovavo estremamente spontaneo, ma un cinema realizzato senza donne. I suoi erano film sui giovani, road movies; poi invece ho scoperto Fassbinder e il suo cinema sulle donne 'nude', e ho apprezzato tantissimo a posteriori la sua opera e ho imparato, negli anni '90, dopo la fuga dalla famiglia e dal viaggio di Wenders, la sua lezione. Per la fuga mi è venuto in mente Douglas Sirk (amato anche da Fassbinder ndr.) e il suo 'Come le foglie al vento', che con Nina abbiamo visto insieme. E' sempre estremamente importante parlare di cinema, anche europeo. Le nostre discussioni sono state importantissime nel rapporto tra Barbara e il fidanzato occidentale che le dice 'quando finalmente riuscirai a fuggire e verrai a vivere all'Ovest non dovrai più lavorare', ed è questo il vero significato, quello che le donne gli danno". "Effettivamente c'è un'economia a livello di scrittura, di sceneggiatura - aggiunge sul suo modo di lavorare -; nel mio primo film c'era un'economia di montaggio, quella stessa che devi ottenere in fase di scrittura. Un obiettivo che mi ha aiutato tantissimo nella realizzazione. L'ho imparato anche dai corti americani, che si può parlare degli uomini e usarli come metafore della vita. Ho visto un trailer su quanto sia importante l'economia nella scrittura perché in questo modo si ottiene una realizzazione immediata. In 'Barbara' c'è il linguaggio degli sguardi, per me quello più importante; dal modo in cui si guardano i personaggi riesci a capire una serie di situazioni: la pressione la sfiducia le debolezze, i terremoti che si scatenano all'interno di ognuno di loro. Ho fatto una sola inquadratura dall'alto, le altre tutte tra lo sguardo delle persone, che non è mai lo sguardo di un autore. Odio certo cinema americano che invece offre lo sguardo del regista, quello dello Spielberg anni '80-'90 che non sopporto proprio". L'esempio migliore - visto che spesso porto al cinema i miei due figli con me e rivedo i film - è 'Alien' di Ridley Scott, all'inizio, addirittura prima ancora di entrare nella navicelle pensi che ci sia qualcosa inquietante, lo senti sulla pelle, qualcuno o qualcosa che provoca suspense e tensione. Questo è un autore, c'è un intrigo, ti fa capire che sta succedendo qualcosa di bizzarro, che è stata inviata li per qualche ragione non corretta, rappresenta una cosa estremamente importante. La stessa cosa non può dirsi de "Lo squalo" perché si capisce immediatamente qual è la suspense: la paura. Molto diversa da quella di Scott, lo vedi dalle prime quattro inquadrature che si tratta
di un buon film o meno". Però in giornata sono passati diversi film e cortometraggi delle diverse sezioni, tra cui vanno segnalati, nel concorso, "In April the Following Year, There Was a Fire" del tailandese Wichanon Semumjarn, e, in piazza, l'israeliano "Sharqiya" di Ami Livne, il titolo è una parola beduina e araba che significa 'vento dell'est', un vento del deserto 'cattivo' che porta con sé non solo tanta sabbia ma anche polvere nelle case e nelle anime.Ma ne riparleremo ampiamente e con calma nei prossimi giorni, così come dei documentari italiani. José de Arcangelo