giovedì 22 ottobre 2009

I fratelli Coen e Meryl Streep, accoppiata vincente del Roma Film Fest



ROMA, 22 – Ultima giornata di proiezioni e di arrivi per il Festival Internazionale del Film di Roma con l’accoppiata fratelli Coen-Meryl Streep. I primi per presentare in anteprima, fuori concorso, “A Serious Man”, la seconda per ricevere il Marc’Aurelio d’oro alla carriera (che le sarà consegnato domani in Campidoglio) e, per l’occasione, l’anteprima italiana di “Julie & Julia” di Nora Ephron, da domani nelle sale. E per migliaia di giovanissimi, gli aspiranti divi della saga “Twilight” approdati al festival per promuovere il secondo capitolo “New Moon” (in uscita mondiale il 18 novembre) con la presentazione dei primi venti minuti: Jamie Campbell Bower, Charlie Bewley e Cameron Bright, ovvero i membri della famiglia Volturi, accompagnati dalla sceneggiatrice Melissa Rosenberg.

Il film dei Coen dovrebbe essere il più personale dell’attivissimo e incorreggibile duo di autori perché, oltre che ambientato nella loro città natale (Minneapolis), scava a fondo nelle loro radici ebraiche. Una corrosiva e pessimistica commedia – naturalmente più nera che rosa – sulla disperazione. Ma “niente di autobiografico” spiegano.

Ambiente e personaggi che i Coen conoscono nei minimi particolari, visto che ci sono cresciuti.

“L'essere ebrei è gran parte della nostra identità - confessano – e, ovviamente, si riflette nei nostri comportamenti, in quello che facciamo. Compreso quella sorta di pessimismo che pervade i nostri film”. Però il grande Woody non c’entra, perché gli inseparabili fratelli si muovono in un contesto molto diverso. “Sì, è vero – affermano all’unisono Joel ed Ethan - il paragone tra questo film e quelli di Allen è interessante, ma in negativo: lui infatti ha una sensibilità ebraica tipicamente newyorkese, completamente differente rispetto ai nostri personaggi”.

La vicenda raccontata nella commedia, ambientata nel 1967, è quella di Larry (Michael Stuhlbarg, attore che proviene dal teatro), professore di fisica alle prese coi problemi della sua famiglia. La consorte (Sari Lennick) lo vuole lasciare per “un uomo serio”, al contrario di lui; il fratello disoccupato (Richard Kind) che dorme sul suo divano; il figlio Danny (Aaron Wolff) che aspira solo di fumare erba e ascoltare musica; la figlia Sarah (Jessica McManus) ossessionata dall’idea di rifarsi il naso. E, di fronte a tutto questo caos, lui decide di chiedere consiglio a tre rabbini diversi.

Già perché la pellicola è la somma di cultura e riti ebraici, incluso il prologo in yiddish ambientato nella Polonia dell’Ottocento.

Infatti, per quanto riguarda le reazioni della comunità ebraica americana, i due registi affermano: “Sarà perché gli ebrei ortodossi non vanno al cinema, ma ci aspettavamo all’uscita una qualche reazione magari perché c’è sempre quando si parla di una comunità specifica, di dinamiche precise e circoscritte, ancora di più se lo si fa ridendoci sopra. E, invece, la maggioranza delle reazioni, anche da parte della comunità ebraica, sono state positive. Oltre ogni aspettativa”.

In “Julie & Julia”, invece, Meryl Streep è Julia Child, una cuoca molto popolare negli States negli anni ’60 che aveva imparato a cucinare in Francia, stufa di fare la casalinga al seguito del marito funzionario d’ambasciata. “Tornando in patria – afferma l’attrice – ha mostrato all’intero paese come cucinare in maniera sana. La ricordo perfettamente perché era molto famosa nell’epoca in cui stavo crescendo”.

Julie Powell (Amy Adams, già al fianco della Streep in “Il dubbio”) è, invece, la trentenne che - nel 2002 - cambiò la sua vita imparando che cosa si può fare in cucina, ma partendo proprio dagli insegnamenti dell’altra Julia. Insomma le due avevano in comune, oltre il nome, l’ossessione per il cibo. Un’ossessione che, però, ha regalato loro la felicità. Nella vita e nel film, almeno è quello che ci racconta la ‘leggenda’.

Quindi, una commedia che - come spiega la Streep - è un inno ai veri piaceri dell’esistenza: “Amore, sesso e cibo: sono i tre gioielli che questa storia esalta, le cose che veramente contano, più di lavoro e carriera. Finché abbiamo un tetto sulla testa e le nostre necessità sono soddisfatte, si può essere felici. Per me, personalmente, è del tutto vero”.

Riguardo la vera Julia Child (ora scomparsa), l’attrice dice: “Ho avuto uno scambio di corrispondenza con lei: sono stata sempre molto attiva nel movimento slow food, che sostiene il piacere del gusto e del buon gusto, e la necessità di ingredienti freschi e genuini. Credevo che ci avrebbe sostenuto, invece con noi si è mostrata molto scorbutica! Però poi ha cambiato atteggiamento”.

“Mi sono riguardate tutte le trasmissioni televisive di cui era protagonista – confessa la due volte premio Oscar e con un record di nomination -, ho letto tantissimo di lei, di certo non ho avuto il tempo per aver paura di entrare nelle sue vesti perché ormai faccio passare pochissimo tempo tra un film e l’altro. Poi, come faccio sempre più spesso, mi sono ispirata a mia madre, donna solare ed energica. L’occasione di interpretare una persona reale ma tenendo sempre presente una donna che amo come mia madre, capace di guardare non alle cose negative ma solo a quelle positive, belle, della vita. Una donna cui ho tentato di somigliare. Tutte le donne avide di vita e vivaci che ho interpretato finora le ho fatte pensando a lei. E spero di farne altre in futuro”.

L’antidiva Meryl non ama gli elogi e non stravede per i premi anche se li accetta, come un ulteriore incoraggiamento. “Non mi interessano i complimenti eccessivi, tendo a pensare al lavoro più che ai premi, anzi tendo a non pensare agli Oscar anche se ho constatato che le nomination contano tanto proprio perché sono colleghi come me a poter scegliere. Però io sono sempre alla ricerca di ciò che è imperfetto, fragile, che si può migliorare”.

E il tempo che passa, anche per le star? “L’antidoto per me è un forte senso di gratitudine – dichiara -, perché ‘sono ancora qui’. Sì, ho sessant’anni, la mia vita è stata fortunata e devo ammettere che nella nostra professione ci sono carriere diverse. Io non mi sono mai preoccupata del glamour e della bellezza e ho sempre pensato di me stessa che mi si poteva plasmare come l’argilla. Posso dire di essere contenta di questa scelta ma capisco che oggi tutto è diverso: l’attenzione alla forma è costante e asfissiante rispetto a quando io ero giovane e chi comincia ora subisce una pressione molto forte. Trovo che la moda possa intralciare la strada di un’attrice, condizionare la scelta di un ruolo piuttosto che un altro. Io sono grata a questa professione per tutto ciò che essa mi ha permesso di esprimere ma temo che oggi anche le mie figlie che fanno le attrici siano costrette a fare scelte difficili. Io le mie le ho già fatte e, quando oggi in Cina, la gente mi indica dicendo ‘Kramer vs. Kramer’, un film vecchissimo, mi commuovo e capisco di aver fatto la cosa giusta”.

Ma ieri era passato anche l’ultimo film in concorso “Broderskab – Brotherhood”, opera prima del fotografo di moda danese (di origine italiana) Nicolo Donato. Un forte, lucido e inquietante dramma d’attualità sull’ondata di razzismo e omofobia (non solo) che sta sconvolgendo l’intera Europa e che si identifica nei gruppi neonazisti. Una storia dove il disagio e l’insoddisfazione, le apparenze e il pregiudizio portano alla violenza, ma anche dove l’avvicinamento, la conoscenza, il contatto portano alla riscoperta dei sentimenti più nascosti e dei desideri repressi.

Lars è costretto dai pregiudizi (e dalle dicerie) a lasciare l’esercito e, avvicinato durante una festa, viene convinto ad entrare in un gruppo neonazi che organizza raid punitivi contro musulmani e omosessuali. L’apprendistato alla ‘fratellanza’ è duro e Lars viene affiancato dal mentore Jimmy, incaricato di testarne l’affidabilità e la preparazione sui testi fondamentali (leggi Mein Kampf di Hitler). Imprevedibilmente, tra i due scoppia la passione. Un amore prima represso, poi vissuto in segreto, finché alla fine le regole razziste e violente del gruppo metteranno gli amanti di fronte all’inevitabile contraddizione: tradire i ‘fratelli’ di ideologia o tradire l’altro e i propri sentimenti. Però, qualunque sia la scelta, porterà dritti alla violenza, fisica e/o psichica.

Domani si chiude con la cerimonia di premiazione, stavolta di sera, a partire dalle 18.30 e, a seguire, la proiezione di "Julie & Julia", appunto, anteprima fuori concorso.

José de Arcangelo

mercoledì 21 ottobre 2009

Roma FilmFest. L'Italia diventa protagonista nel raccontare Marzabotto e l'Aquila


ROMA, 21 – Il cinema italiano diventa protagonista del Festival Internazionale del Film di Roma grazie soprattutto all’opera seconda di Giorgio Diritti che, raccontando una storia di un passato da non dimenticare, ci fa riscoprire il potere delle immagini e sentire le emozioni che può (deve) offrire il grande schermo. “L’uomo che verrà” – in concorso nella selezione ufficiale – interpretato da Claudio Casadio, Alba Rohrwacher e Maya Sansa, ricostruisce – attraverso gli occhi di una bambina - la vicenda di una povera famiglia contadina, alla vigilia della strage di Marzabotto: 771 esseri umani sterminati dai nazisti.

Diritti, autore del non dimenticato “Il vento fa il suo giro”, lo fa senza retorica e senza colpi bassi, facendo uso di quella ‘naturalezza’ di situazioni e immagini, tipica del suo cinema, e del dialetto del posto. E, infatti, lui formatosi nel documentario e che ha poi lavorato a “Ipotesi cinema” - la scuola di cinema fondata da Ermanno Olmi -, non può che ricordare i capolavori del maestro, con “L’albero degli zoccoli” in testa. Anche quando ha un suo stile personale e dei tempi diversi.

Il quadro di un quotidiano lento, duro e crudo in un’Italia che non c’è più – quella del fascismo e della Seconda guerra mondiale –, dipinto in modo quasi inedito. Un sobrio dramma (imploso) che sboccerà nella tragedia.

Inverno, 1943. Martina, unica figlia di una povera famiglia di contadini, ha otto anni e vive alle pendici di Monte Sole. Anni prima ha perso un fratellino di pochi giorni e d’allora ha smesso di parlare. La madre rimane nuovamente incinta (l’azione del film si svolge lungo l’arco dei nove mesi di gravidanza) e la piccola vive nell’attesa del bambino che nascerà (l’uomo del titolo), mentre la guerra pian piano si avvicina e la vita diventa sempre più difficile, stretti fra le brigate partigiane del comandante Lupo e l’avanzare delle SS. E, infatti, quasi contemporaneamente i nazisti scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti…

Un’altra tragedia, recentissima, viene rievocata dal documentario “L’Aquila bella mè” di Pietro Pelliccione e Mauro Rubeo. Il terremoto che ha distrutto una città e ucciso centinaia di persone raccontato dall’obiettivo cinematografico in una sorta di diario dei giorni successivi e dalla testimonianza dei sopravvissuti. Infatti, il film ha gli occhi di chi a L’Aquila è nato, cresciuto e vissuto. Una troupe che vive nel tessuto sociale della città mostra il “fuoricampo” di ciò che è successo e sta accadendo dopo la catastrofe. Filma la realtà dal ventre delle sue macerie: in gioco è il futuro della propria città, delle proprie famiglie, degli amici, delle case e delle scuole e delle montagne.

Infatti, se alcune immagini vi sembreranno già viste fate caso al commento delle persone e allo ‘sguardo’ della cinepresa, e capirete che è tutta un’altra cosa.

Il film prodotto da Gregorio Paonessa e Valerio Mastandrea, supervisionato da Daniele Vicari, è la prima tappa, in anteprima mondiale, di una documentazione che durerà un anno intero, per raccontare la lunga e complessa storia della “ricostruzione”.

Anche “Immota manet” di Gianfranco Pannone con gli allievi dell’Accademia dell’Immagine de L’Aquila, affronta lo stesso argomento. Ad Aprile, Pannone e gli allievi dell’Accademia del Cinema de L’Aquila, stavano preparando un documentario dedicato a Ignazio Silone. Il sisma di aprile ha fermato tutto, la stessa scuola ha subito ingenti danni. Così è nato questo documentario breve dove convivono le immagini del terremoto e i brani tratti da “Uscita di sicurezza” di Silone. Lo scrittore abruzzese racconta del terremoto del 1915 in cui perse la madre ed altri cari e lascia, infine, un monito rivolto a tutti coloro che approfittarono di quella catastrofe per rimediare affari con i fondi economici destinati alla ricostruzione. Un monito che ci riporta ai timori dei nostri giorni.

Tutta un’altra storia ci aspetta domani con il premio alla bravissima attrice americana Meryl Streep e la cerimonia di premiazione.

José de Arcangelo

martedì 20 ottobre 2009

Al Festival di Roma: Argentina in concorso, Italia fuori


ROMA, 20 – Giro di boa ormai per la quarta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma - che si conclude venerdì -, pieno di appuntamenti e proiezioni, spesso in contemporanea e perciò sempre più difficile da seguire, anche perché in periodo di crisi siamo sempre più costretti a ‘presenziare tutto’ e spesso con più ‘ostacoli’. Incontro con la ‘romana’ Asia Argento, che ieri sera ha presentato il suo minifilm (42 registi per 42 clip di 42 secondi ciascuno) del film collettivo “Onedreamrush” nell’incontro col pubblico. “Le menti di 42 malati”, lo definisce, prodotto da Michele Civetta, dove diversi autori raccontano in un flash i sogni “come in una brevissima poesia”. Il suo, “S/He” (ovvero Lei/lui in inglese), racconta la vita di un quartiere popolato di trans. “Sono entrata nella loro vita – afferma l’attrice-autrice -, ho visto come si vestono, ho osservato come vivono, insomma, abbiamo giocato”.

Nel concorso ufficiale è passata l’opera prima dell’argentino (di padre norvegese) Marco Berger “Plan B” (Piano B). Una commedia sentimentale particolare ed inedita girata tutta in piani sequenza, a loro volta collegati da panoramiche di Buenos Aires dall’alto incentrate su una palazzina, una torre moderna, e giocata sul filo dell’ambiguità dell’amore (e del sesso) e soprattutto della seduzione. Una commedia agrodolce che conquisterà il pubblico che ama le scoperte e il cinema d’autore, perché la pellicola non ha il ritmo scatenato dei film d’azione contemporanei né tanto meno è interpretata da star, nemmeno del cinema argentino, ma da giovani di oggi, come del resto è il regista stesso.

Bruno ha lasciato la sua ragazza ma vorrebbe rimettersi insieme ma come lei, nonostante continui a vederlo (ed andare a letto con lui), rifiuta progetta una fredda e dolce vendetta. Scoprendo che lei esce ‘ufficialmente’ con Pablo e, spinto dal pregiudizio degli altri, Bruno decide di diventargli amico, anzi di sedurlo. Naturalmente chi gioca col fuoco (sentimenti) finisce ustionato: i due giovani saranno sempre più confusi emotivamente e la ragazza si ritroverà sola. Già perché il gioco della seduzione ha funzionato troppo bene dando il via a un “Plan C”. L’amore fra i due maschi.

Ancora un film italiano in anteprima, fuori concorso, “Oggi sposi” di Luca Lucini (da venerdì nelle sale) con un cast (italiano) all stars (soprattutto trentenni e non, in ascesa e/o affermati): Luca Argentero, Moran Atias, Dario Bandiera, Carolina Crescentini, Francesco Montanari, Filippo Nigro, Gabriella Pession, Isabella Ragonese e con le partecipazioni di Lunetta Savino, Michele Placido e Renato Pozzetto.

Una commedia corale su quattro matrimoni che, secondo il regista di “Amore, bugie e calcetto”, si rifà ai classici nel tentativo di aggiornare il vero spirito, le atmosfere (e gli incassi) per “dare nuova forza” al genere per eccellenza del nostro cinema. “In realtà – dice Lucini – è stato più bello che duro realizzarlo perché c’era una sceneggiatura forte” (di Fabio Bonifacci con la collaborazione di Fausto Brizzi e Marco Martani), però – tra alti e bassi – la commedia non riesce ad uguagliare quelle di una volta, nonostante i richiami all’attualità (il matrimonio multietnico ma non solo) perché gioca ancora un po’ con i vecchi stereotipi. E non ci sono (ancora) dei veri “mattatori”.

Ma ieri era stato presentato l’evento speciale dedicato al sacerdote cattolico Jerzy Popieluszko, sequestrato e ucciso proprio venticinque anni fa, il 19 ottobre 1984. Per l’occasione è stato proiettato in anteprima “Popieluszko. Freedom is Within Us” di Rafal Wieczynski. Una sobria e appassionata ricostruzione storica degli anni di Solidarnosc e degli avvenimenti che portarono alla caduta del comunismo, non solo in Polonia. Una grande produzione (settemila tra attori e comparse, due ore e mezza di proiezione) per raccontare la vita e il sacrificio di padre Popieluszko, il “cappellano di Solidarnosc”, appunto, divenuto simbolo di coraggio nella lotta per la libertà e la verità. Ai suoi funerali parteciparono oltre mezzo milione di persone e il clamore che seguì all’evento fu enorme, travalicando i confini nazionali.

“Ho ascoltato il racconto dei testimoni – esordisce il regista che allora era poco più di un ragazzino – e visto i filmati sulla sua vita. Non si occupava di politica ma delle persone, era un uomo al servizio degli altri, che trascende l’opera della sua vita. Non ha mai convertito nessuno, aiutava le persone a mettere a posto le loro vita senza influenze né imposizioni. Popieluszko lasciava una traccia nelle persone che incontrava, perché non creava una distanza tra lui e l’altro, anzi gli dava ascolto, e possedeva una saggezza popolare che viene da lontano”.

Ad un appuntamento di importanza internazionale non poteva mancare Lech Walesa, leader sindacale e poi Presidente della Polonia, che ha dichiarato: “Avendo un polacco come Papa eravamo convinti di portare la Polonia fuori dal comunismo, verso la normalità e la democrazia. E’ stato un compito enorme e difficile ma in cui molte persone hanno creduto fortemente. Popieluszko ha pagato con la sua vita e, riflettendo sul suo sacrificio in questo terzo millennio, ho capito che il nostro percorso ora è differente perché oggi si dà più valore all’economia che alle persone in senso lato. Bisogna creare nell’uomo una coscienza perché il nostro sogno ancora non è fino in fondo realizzato. Ma un po’ più in là raggiungeremo lo scopo".

"Considerando la situazione geografica polacca - aggiunge il leader polacco -, il nostro paese non ha potuto mai parlare con voce propria. E talvolta la Chiesa si sostituiva alla nazione per farlo, perciò esiste un forte legame con la Chiesa. Senza questa simbiosi la Polonia sarebbe sparita già da tempo”.

Proiezione affollatissima anche alla presenza di autorità (tra cui il sindaco Alemanno), funzionari, prelati e suore (anche in passerella sul red carpet), stampa e pubblico. Il film comunque uscirà prossimamente nelle sale distribuito da Rainieri Made, che già ha fatto vedere nei cinema (non senza difficoltà) “Katyn” del grande maestro Andrzej Wajda.

Altro film presentato in anteprima, fuori concorso, è stato il cinese “The Warrior and the Wolf – Il guerriero e il lupo” di Lang Zai-Ji, con Joe Odagiri e Maggie Q. Un’ambizioso fantasy che mescola storia, avventura e leggenda con quella che sembra essere diventata oggi una mania (soprattutto all’inizio), l’andare avanti e indietro nel tempo con i flashback finendo per confondere lo spettatore più smaliziato. Non mancano immagini suggestive e risvolti inquietanti, ma nel complesso la pellicola non riesce a (s)coinvolgere il pubblico né la critica.

Duemila anni fa, l’imperatore Han invia il suo esercito nell’estremo confine occidentale della Cina, oltre il deserto del Gobi, per sottomettere le tribù ribelli. La zona, pericolosa e inospitale, al giungere dell’inverno è popolata solo dai lupi. Dopo cruente e sanguinose battaglie, il comandante Lu e i suoi uomini iniziano la ritirata, trovando rifugio in un villaggio della tribù maledetta degli Harran, che vivono sottoterra e di cui la leggenda racconta si tramutino in lupi dopo l’accoppiamento con ‘stranieri’. E, infatti, accadrà proprio a Lu e ad una misteriosa vedova.

José de Arcangelo

lunedì 19 ottobre 2009

Roma FilmFest. L'esordio dietro la cinepresa di Stefania Sandrelli con la storia di una poetessa del medioevo


ROMA, 19 – La ‘famiglia Sandrelli’ al Festival Internazionale del Film di Roma per il debutto dietro la macchina da presa della cara, bella e brava, attrice Stefania: “Christine Cristina” con Amanda Sandrelli protagonista, presentato in anteprima - fuori concorso. Una storia importante, un personaggio speciale – ovviamente femminile – e una bella idea per un discreto film d’esordio che, purtroppo, non riesce a coinvolgere fino in fondo e ‘rimanda’ la sempre affascinante, simpatica ed entusiasta star del cinema italiano ad una seconda prova.

“Non credo ci sia una grossa differenza tra fiction e cinema – esordisce Stefania -, quello che conta è il senso di responsabilità nel lavoro e nei confronti del pubblico. Si ruba inconsapevolmente e poi lo si restituisce. Io ho cominciato con Pietro Germi (“Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata” ndr.), poi ho lavorato con Scola, Pietrangeli, Comencini e tanti altri, ho assorbito qualcosa da ognuno di loro. Li spiavo, li guardavo, cercavo di capire e di capirli. Risucchiavo il meglio delle persone come un’ape. E’ quasi inevitabile per gli attori la voglia di passare dall’altra parte. Sono quasi dieci anni che ci provavo, avevo proposto precedentemente una sceneggiatura, ‘Buongiorno amore’, ma nessuno me l’ha fatto fare”.

Come è nata l’idea? “E’ stata una questione di intuito, di fiuto. Cercando in occasione del Natale alcuni libri in via Cola di Rienzo, vidi nella vetrina di Gremese la miniatura di una donna che attirò la mia attenzione. Piccola quasi eterea, compita e attenta davanti a un mobile scrivania, seduta in posizione di scrittura. La moltitudine dei colori, la sospensione tra cielo e terra di quel luogo misterioso, mi incuriosì. Frugai tra le pagine di quel libro e trovai Cristina da Pizzano. E la storia di questa poetessa medioevale si è impossessata di me”.

“Pochi conoscono il suo nome – continua la neoregista -. Eppure Cristina è stata una figura esemplare nella storia della letteratura. Italiana, vissuta in Francia nel momento del passaggio dalla notte del Medioevo all’alba dell’Umanesimo, fu la prima donna a vivere soltanto grazie alla propria penna, cioè scrivendo e pubblicando opere poetiche. Poeti si nasce o si diventa? Nel caso di Cristina fu precisamente una conquista. Ed è proprio la storia di questa conquista avventurosa che il film vuole raccontare”.

Scritto da Giacomo Scarpelli, Stefania Sandrelli, Marco Tiberi con la supervisione di Furio Scarpelli, il film non è però un pamphlet femminista.

“E’ un film che ho portato nella pancia – confessa l’autrice – perché l’ho pensato e ideato e ho avuto la possibilità di farlo. La sceneggiatura è il sostegno del film, ma credo sia stata la forza e la grazia femminile che ha evitato che diventasse femminista tout court, e anche perché mi sono affidata a grandi sceneggiatori maschi dotati anche di una sensibilità femminile”.

“Secondo Scott Fitzgerald – aggiunge Tiberi – c’è uno spunto maschile e uno femminile, il primo è Pollicino, il secondo Cenerentola. Questa è una favola realistica perché Cristina passa prima dalle stelle alle stalle, e poi di nuovo dalle stalle alle stelle”.

Infatti, da un’agiata condizione (il padre era un astronovo al servizio del re Carlo V) Cristina precipita nella miseria più nera, con due figli piccoli, nell’imperversare delle lotte tra Armagnacchi e Borgognoni, e ha un solo imperativo: sopravvivere.

“Ho trovato in Amanda – dichiara l’autrice sulla scelta della figlia attrice – la disponibilità, la bravura e l’affetto che forse solo lei poteva darmi a tutto tondo. Christine ha dei lati in comune con Amanda, è tenerella, buffetta, ma è anche una donna che si è conquistata un posto illustre nella storia. Ha un suo contegno, non fa qualsiasi cosa per apparire e si capisce perché. Non ho costruito il personaggio su di lei, e ho rispettato l’essenza di Christine”.

“Non mi sono sentita investita da grande responsabilità – ribatte Amanda – ma mi sono affidata alle sue scelte. Al di là dell’affetto, credo che ero quella giusta per dare a Christine quello che meritava. Visto che la gestazione è stata lunga, ho avuto la possibilità di conoscere Christine a fondo e pian piano. E mi sono lasciata andare. Mai in vita mia mi sono sentita sostenuta in tutti i sensi da tutto e tutti. Non trovo vizi in mia madre a parte quello di seguirmi con la spremuta di arance, ma sul set si annullano i meccanismi della vita quotidiana. Sono onorata di essere Christine ma non mi sono mai preoccupata di essere all’altezza o meno, altrimenti non ci sarei riuscita”.

Ma nella pellicola - che la Sandrelli firma col compagno Giovanni Soldati - recitano anche Alessio Boni, Alessandro Haber, Blas Roca Rey (attore e marito di Amanda nella vita), Naomi e Nicholas Marzullo, Paola Tiziana Cruciali, con la partecipazione di Mattia Sbragia e con la partecipazione straordinaria di Roberto Herlitzka che, nei panni del saggio Sartorius, offre una scena da antologia, quella dell’incontro-sfida con Amanda-Christine.

La Francia dell'opera prima della Sandrelli - dato che si tratta di una produzione italiana a basso costo (2 milioni e mezzo di euro) - è stata ricostruita nel Lazio, con il sostegno della Film Commission, e negli studi di Cinecittà, 'riciclando' il "set di un vecchio San Francesco".

José de Arcangelo

domenica 18 ottobre 2009

Da Roma, un omaggio al caro amico e grande attore Heath Ledger


ROMA, 18 - Al Festival Internazionale del Film di Roma è stato reso omaggio, dalla sezione L’altro Cinema - Extra, a Heath Ledger, l’attore australiano che in pochissimi anni è diventato star indiscussa di Hollywood e che, dopo un’assurda e precoce morte a soli 28 anni, è già diventato mito. E’ stato una sorta di James Dean del terzo millennio perché anche lui come il ‘ribelle senza causa’ - e nonostante ne abbia girato qualche film in più di lui - è stato tormentato ed inquieto protagonista dentro e fuori dal set. Un attore in ascesa che raggiunse la maturità e l’affermazione con “Brokeback Mountain” di Ang Lee e la consacrazione, postuma, con il premio Oscar per il ruolo ne “Il cavaliere oscuro” ultimo (finora) capitolo cinematografico di Batman.

Prima della première italiana dell’atteso film del sempre visionario Terry Gillian di “The Imaginarium of Doctor Parnassus / Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo”, che Heath Ledger non ha potuto ultimare e in cui è stato poi ‘sostituito’ egregiamente in alcune sequenze dai bragi colleghi e amici Johnny Depp, Colin Farrell e Jude Law (hanno devoluto i loro guadagni al figlio del rimpianto attore), il pubblico dell’amata-odiata kermesse romana ha potuto apprezzare alcuni suoi brevi film inediti firmati da regista, portati da (altri) suoi amici-colleghi del collettivo denominato ironicamente The Masses, malgrado i loro progetti non siano certo popolari né tanto meno dei blockbusters.

Già perché l’amato interprete di "Casanova" e "I fratelli Grimm" studiava il mestiere del regista-autore, diventando una specie di mecenate del gruppo di amici artisti. Imparava così tutto il processo creativo: dalla sceneggiatura al montaggio. E, da grande appassionato di musica, ha firmato 6 videoclip con tecniche diverse, dall’astratto all’animazione, passando dalla sperimentazione vera e propria. Tra questi, “Morning Yearning” di Ben Harper e “Black Eye Dog”, dedicato alla memoria del cantautore inglese Nick Drake (pensava anche a un biopic su di lui) che, per uno strano scherzo del destino, morì a soli 26 anni a causa di un’overdose di medicinali, proprio come Ledger.

Secondo la testimonianza dei suoi amici, la produttrice Sara Cline e il regista Mat Amato, Heath si stava preparando ad esordire dietro la macchina da presa con la trasposizione del romanzo “The Queen’s Gambit” (La regina degli scacchi) di Walter Stone Tevis (1983), un ‘gioco’ che era una sua passione. Infatti, Cline e Amato, hanno ricordato l’amico scomparso attraverso gli archivi del collettivo (con il benestare della famiglia dell’attore scomparso), in cui Ledger era entrato negli ultimi 18 mesi di vita.

Il lungometraggio di Gillian - nelle sale dal 23 ottobre, distribuito da Moviemax -, lo vede invece nei panni del misterioso e seducente giovane Tony, strappato dalle grinfie della morte – un’altra coincidenza, visto che proprio il film fa rivivere Ledger ora e per sempre sullo schermo – e che si rivelerà l’asso nella manica di Parnassus nelle sue secolari scommesse col diavolo.

Infatti, il suggestivo e travolgente “Parnassus” è una fiaba senza tempo che racconta le vicende dell’omonimo dottore (Christopher Plummer) che ha lo straordinario dono di realizzare i sogni del pubblico del suo piccolo spettacolo itinerante chiamato l’Immaginarium, coadiuvato dalla figlia Valentina (la fotomodella Lily Cole), dal sarcastico e cinico assistente nano Percy (Verne Troyer) e dal giovane e bonario tuttofare Anton (Andrew Garfield). Tutti i desideri vengono esauditi e le ambizioni realizzate grazie ad un magico specchio. Ma questo dono così speciale gli è stato fatto centinaia di anni fa da Mr. Nick (Tom Waits), uomo divertente e scanzonato che altri non è sennò il diavolo in persona e che in cambio gli aveva preteso, se mai avesse avuto una figlia, la consegna della sua anima al compimento del sedicesimo anno di età.

Nella Londra contemporanea, la figlia di Parnassus è alla vigilia dei 16 anni e Mr. Nick si prepara a riscuotere l’agognato premio. Per fortuna Parnassus è convinto di conoscere il diavolo come le sue tasche e spera di riuscire ad ingannarlo coinvolgendolo nell’ennesima scommessa con una posta ancora più alta. Entrambi dovranno sedurre cinque anime e portarle dalla loro parte. Il primo che raggiungerà l’obiettivo, deciderà del fato della ragazza. E a questo punto ‘arriva’ Tony che, non solo sconvolgerà l’esistenza e i piani dei quattro girovaghi, ma s’innamorerà – ricambiato – della bella e giovanissima Valentina.

Il grande regista è riuscito a sincronizzare la magnifica interpretazione di Ledger ripensando alla storia – scritta con lo stesso co-sceneggiatore di “Brazil” e “Le avventure del barone di Munchhausen”, Charles McKeown - e senza l’aiuto la tecnologia digitale. Infatti, ogni sequenza interpretata da Depp, Farrell e Law rappresenta uno dei vari aspetti del personaggio che Heath andava recitando, ogni volta che ‘entrava’ nel magico specchio. In questo modo, la ‘favola’ umana diventa ancora più suggestiva e si arricchisce di riferimenti all’esistenza umana di ieri, di oggi e di sempre.

“Parla delle persone creative – confessa Gillian a proposito della sua pellicola -, degli artisti. Cercano di ispirare gli altri, incoraggiandoli ad aprire gli occhi per apprezzare la verità del mondo, ma la maggior parte di loro non ha successo. Questa è la realtà. E’ un’idea magica e tragica al tempo stesso, un gruppo di persone straordinarie in un teatro favoloso che viaggia per Londra, ma senza che nessuno ne faccia caso. Sono convinto che, nel mondo moderno, la gente non veda più quello che è veramente importante. Tutti sono concentrati sul loro Ipod, sui videogiochi o a investire in borsa, tutte attività interessanti e che richiedono tempo, però ci sono tante cose straordinarie e importante che accadono là fuori e nessuno presta attenzione”.

Ed ecco che spuntano i riferimenti alla nostra società attuale che, appunto, non sogna più ad occhi aperti, non partecipa a riti culturali collettivi come faceva una volta per il teatro e per lo stesso cinema, dove fantasia e cultura sono tornati ad essere interesse di pochi.

José de Arcangelo

sabato 17 ottobre 2009

Giornata nel segno dell'amato George Clooney al Festival di Roma


ROMA, 17 – Terza giornata nel segno dell’amato George Clooney – che ha ‘incrociato’ il collega Richard Gere, fermatosi per l’incontro col pubblico, e ha portato Elisabetta Canalis sul red carpet - al Festival Internazionale del Film di Roma, dove è stato presentato in anteprima “Tra le nuvole” di Jason Reitman, il giovane autore già consacrato alla Festa del Cinema per “Juno”. Una riuscita, divertente e graffiante commedia, più amara che dolce, nell’America della crisi.

Ryan Bingham (Clooney), un esperto tagliatore di teste (incaricato di ‘licenziare’ per conto delle aziende), in superlavoro e superstress per via della crisi, è riuscito a prendere una decisione vitale: si è staccato da tutto e da tutti per avere una vita senza legami. La sua esistenza on the road, di aeroporto in aeroporto, millemiglia dopo millemiglia, è però minacciata proprio quando sta per ottenere da una compagnia aerea il premio fedeltà, un superbingo da dieci milioni di miglia, e subito dopo aver incontrato la donna dei suoi sogni, appassionata di viaggi e alberghi.

Il tutto raccontato con sottile ma pungente ironia, fra la tragedia di chi si trova da un giorno all’altro su una strada e la commedia di chi la provoca ‘involontariamente’ per lavoro (che scaccia lavoro). Dal personale e privato la commedia diventa universale, esasperata da un’attualità di cui siamo vittime un po’ tutti.

‘Soliti problemi organizzativi’ ci hanno fatto partecipare a ‘conferenza stampa’ già iniziata, nonostante fossimo in fila con gli altri giornalisti accreditati da quasi mezz’ora (in anticipo) e non solo, perché siamo finiti in ‘galleria’ e, quindi, senza la possibilità di fare domande. Comunque, siamo riusciti a sapere che Clooney “non è mai stato licenziato”, cioè “non ha mai perso un lavoro” ma qualche volta – soprattutto agli inizi della carriera – è stato disoccupato; mentre ora è lui che sceglie cosa fare, quando non è addirittura produttore e/o regista di se stesso.

“Ho una vita stupenda – confessa – con tanti legami. Amici, famiglia ed altri. Io e Ryan siamo molto diversi, io mi trovo spesso circondato dagli altri, lui è solo. La sceneggiatura era stata scritta anni fa, molto tempo prima del crollo finanziario. Era una sofisticata commedia a tutto tondo. Poi Jason (il regista ndr.) ha introdotto elementi di attualità e lo ha fatto egregiamente senza nulla togliere all’atmosfera della storia. E così, a guardarlo si ride, ma c’è anche molta commozione. C’è molta gente che si identifica con le vittime della logica del profitto, una logica che è diventata dominante”.

“Avevo cominciato a scriverla sette anni fa (con Sheldon Turner, dal libro di Walter Kirn) – ribatte Reitman – e non avevo mai pensato di poter lavorare con George. Infatti, quando ha accettato ero eccitato ed entusiasta all’idea di lavorare con lui. E’ stato splendido e anche facile perché io stavo li a guardare. Credo che gli americani si identificheranno con i personaggi del film, sono fiero del protagonista e orgoglioso dei due personaggi femminili (la donna di Ryan e la sua giovane collega che propone di esercitare la loro professione attraverso internet ndr.). Sono personaggi molto attuali perché l’individuo negli Stati Uniti pensa di non essere solo, visto che oggi è facile interconnettersi. Ti sembra di essere dappertutto ma in realtà non sei da nessuna parte”.

“Capisco molto bene il mio personaggio – aggiunge l’attore -, il suo lavorare ‘sospeso in aria’. Succede anche a me di passare da un aereo all’altro, ma in questi casi ti mancano la famiglia e gli amici. E alla fine ti chiedi quando tempo hai passato con gli amici”.

“Volevo incontrare dei teen-ager per trovare una canzone adatta al film – dichiara il regista -, invece è stato in cinquantenne ha consegnarmi una cassetta. Un uomo che aveva appena perso il lavoro e aveva scritto questa canzone molto lucida e onesta, che riguarda circa un milione di persone, di cui non vedi mai le facce, e alle quali dà voce. E perciò nel film ho fatto lavorare circa 25 persone di Detroit che avevano perso veramente il lavoro, e interpretano loro stessi (le persone licenziati ‘in diretta’ ndr.). Perché oggi chiunque può perdere il posto”.

Consueta domanda sul Nobel a Barack Obama a Clooney e solita (con qualche variazione) risposta: “Ho cominciato a sostenerlo fin dall’inizio. Sono fiero che l’America abbia trovato e scelto Obama, ma tutti lo dobbiamo incoraggiare ed aiutare soprattutto per quel che riguarda il programma di una politica estera per la pace. Avevamo bisogno di qualche grande uomo, un presidente come Roosevelt o Jackson, e l’abbiamo trovato.

Riguardo i futuri impegni, Clooney dichiara: “Ho un paio di progetti, uno sul caso Guantanamo contro Armstrong. C’è in cantiere anche una commedia ma bisogna avere un buon copione ed è ancora presto per parlarne”.

E il regista, figlio d’arte, è costretto a parlare del padre, Ivan Reitman: “Mio padre è un eroe! – afferma orgoglioso -, un grande narratore di storie. Non mi sono mai sognato di avere il successo che ha avuto lui, sono sempre più fiero di mio padre”.

Ovviamente, nel frattempo, ci sono stati anche altri film nelle altre sezioni, eventi ed sono partite le retrospettive. Quella dedicata a Luigi Zampa, con la proiezione della versione restaurata di “La romana” con Gina Lollobrigida; e quella su Meryl Streep, premio Marc’Aurelio alla carriera. Fuori concorso / Anteprima è passata l’ultima fatica di James Ivory “The City of Your Final Destination” con Anthony Hopkins, Laura Linney, Charlotte Gainsbourg e Alexandra Maria Lara, l’attrice rumena attiva in Germania e lanciata internazionalmente da Francis Ford Coppola in “Un’altra giovinezza”, proprio alla Festa del Cinema due anni fa. Dal romanzo di Peter Cameron “Quella sera dorata” (Adelphi), ambientato in Uruguay e girato in Argentina, un sobrio ed elegante dramma targato Europa che i più cattivi hanno definito “il solito Ivory”, ovvero “Quel che resta di Ivory”. Per Proiezioni ed eventi speciali, l’interessante documentario musicale “Sound of Morocco” di Giuliana Gamba, che - sulla scia di “Crossing the Bridge: Sound of Istambul” di Fatih Akin, oppure di quelli sulla musica cubana – ci propone un viaggio musicale attraverso le antiche musiche etniche e le odierne contaminazioni o rielaborazioni, come per esempio il rap marocchino dei giovani che l’hanno fatto loro e ne sono orgogliosi. Così, guidati da Nour Edine, musicista marocchino che vive in Italia da vent’anni, conosciamo Abdellah Ed-Douch, giovane e poverissimo berbero che canta il sentimento struggente che lo lega alla sua terra; Omar Sayed, del gruppo rock anni ’70 “Nass El Ghiwane”, definiti da Scorsese i “Rolling Stones dell’Africa”, il primo che ha cantato l’orgoglio musulmano e l’unicità dell’anima e della cultura dell’Islam; fino al festival di Essaouira.

José de Arcangelo

venerdì 16 ottobre 2009

Una giornata fitta di incontri al IV Festival Internazionale del Film di Roma


ROMA, 16 – Seconda giornata fitta di incontri al Festival Internazionale del Film di Roma, che ha visto ancora una volta il sempre fascinoso divo hollywoodiano Richard Gere e l’ormai leggendario e sempre impegnato maestro cileno Miguel Littin, fino all’incontro a due (con pubblico e stampa) Giuseppe Tornatore-Gabriele Muccino per l’ormai tradizionale appuntamento della sezione L’Altro Cinema – Extra.

Gere – che domani alle 18.00 incontrerà pubblico e stampa per la stessa sezione – è il protagonista e coproduttore di “Hachiko: A Dog’s Story” di Lasse Hallstrom, presentato ufficialmente nel pomeriggio dopo il tipico rituale del red carpet, fuori concorso, per Alice nella Città, minifestival nel festival dedicato al cinema che parla dei, su e ai ragazzi. Invece, il film nonostante la storia si è rivelato una favola per adulti, che possono però vedere e apprezzare tutti, soprattutto i ragazzi più grandicelli, quelli che stando vivendo la loro adolescenza.

La possiamo considerare una “vera e propria storia d’amore” – l’ha definita giustamente la cinquantenne star – come ogni storia che parli di sentimenti (veri) che coinvolgono due essere viventi, uomo-donna, due uomini, due donne, un uomo o una donna e i loro ‘animali’ domestici che spesso si rivelano più ‘umani’ e ‘intelligenti’ di tanti uomini. Come del resto l’amicizia, dove il sesso non c’entra, ma in cui il rapporto è spesso profondo, cioè amore vero e proprio.

Non a caso, lo stesso attore ha detto: “Le persone hanno paura di parlarne e tutti lo definiscono amicizia, invece si tratta di amore nel senso più profondo del termine”.

Ispirato a una storia vera, diventato racconto popolare e poi l’omonima pellicola giapponese, il film – che uscirà nelle sale italiane per Natale distribuito da Lucky Red – racconta la vicenda di Hachi, un cane di razza Akita, e dell’amicizia speciale con il suo padrone (che, racconta Gere, nell’originale era un anziano anziché uno splendido cinquantenne). Ogni giorno Hachi accompagna il professor Parker alla stazione e lo aspetta al suo ritorno. L’emozionante natura di ciò che accadrà quando questa routine verrà bruscamente interrotta è il clou del racconto perché rivelerà allora lo straordinario potere dei sentimenti, ovvero come un semplice gesto possa trasformarsi nella più grande manifestazione di affetto mai ricevuta.

“Quando ho letto la sceneggiatura - confessa il protagonista - ho pianto tanto che non ero sicuro che fosse la reazione emotiva giusta, ma l’ho riletto qualche giorno dopo e ho pianto ancora. La potenza di questa storia per me resta un mistero. E’ quel qualcosa che comunemente chiamiamo amore, fedeltà, pazienza, compassione, comprensione; parti di noi stessi. Possiamo vederlo guardandoci allo specchio: noi non siamo il nostro lavoro, né il nostro look. Siamo quella forza misteriosa chiamata amore”.

Qualcuno, provocatoriamente, gli chiede se è più facile recitare con una famosa star o con un cane, il divo risponde diplomaticamente con un sorriso: “Il trucco, durante le riprese, è stato quello di non addomesticare il cane. Abbiamo solo fatto in modo di creare un’atmosfera di fiducia per l’animale, aspettando che succedesse qualcosa di magico. E’ stato come lavorare con un bambino, e come sosteneva Robert Altman sul set ‘il segreto è non dire mai ai bambini cosa devono fare’. Solo nelle situazioni autentiche, quotidiane, si può catturare quel momento magico e nel nostro film non ci sono stratagemmi né giochi cinematografici: c’è e resta solo la potenza della storia”.

Non mancano certo i riferimenti al buddismo e alla sua amicizia col Dalai Lama - infatti Gere ha voluto inserire in apertura un monastero zen -, né al suo legame con i cani fin dalla sua infanzia.

“Ho sempre avuto cani, fin da piccolissimo – rivela -. Non avevo ancora un anno quando me ne andavo per casa carponi col mio cucciolo cocker spaniel, Clipper; poi è stata la volta di Billie, una femmina (come Billie Holiday). Per me il cane è un compagno speciale e soprattutto per questo ho fatto il film. In realtà, non voglio dare un nome a questo rapporto ma spesso penso che gli animali siano reincarnazioni di cari amici con cui riprendiamo l’amicizia”.

Immancabile la domanda su Barak Obama, visto il recente premio Nobel, e Gere la pensa come tutti noi: “Si tratta di un incoraggiamento – conclude – per ricordargli il motivo della sua elezione a Presidente. C’è sempre il rischio che, nonostante le buone intenzioni, possa diventare come i leader che l’hanno preceduto, anche se lui è una persona che parla direttamente ai nostri cuori. Perciò tutti lo amano”.

Dalla star indiscussa e impegnata, al maestro del cinema latinoamericano Miguel Littin che ha raccontato una storia vera, da non dimenticare, e dedicata soprattutto ai giovani di oggi che hanno riempito i cinema cileni e non hanno vissuto i terribili momenti del golpe e gli anni della dittatura di Pinochet, che il regista – volutamente – non ha voluto nominare nemmeno una volta nel suo film. Un colpo di stato militare – appoggiato non solo moralmente dagli Stati Uniti - che soffocò il primo ‘esperimento’ di governo socialista democratico eletto e sostenuto dal popolo. Ispirato al libro autobiografico di Sergio Bitar, allora ministro delle miniere per Salvador Allende, che quella orribile esperienza l’ha vissuta, “Dawson, Isola 10” ricostruisce la prigionia in un’isola dimenticata dal mondo, all’imboccatura dello stretto di Magellano, flagellata dal freddo polare.

“E’ un caso esemplare in cui la tortura – afferma l’autore -, oltre che fisica, diventa anche intellettuale e psicologica. E l’obiettivo centrale dell'oppressore è quello di cancellare l'identità e perfino la nazionalità, distruggere la volontà, estirpare ogni segno di appartenenza e capacità di ragionare. Ma se l'oppresso sviluppa la capacità di resistere e mantenere intatta la propria dignità, come accadde per i ‘prisioneros’ di Dawson, i ruoli si ribaltano e l'oppresso inizia a esercitare la sua superiorità intellettuale sull'oppressore, che può solo contare sulla forza (bruta ndr.). Così gli uomini dell’isola riuscirono a ricostruirsi uno spazio democratico. Utilizzando il loro stato di prigionieri di guerra, organizzarono corsi secondo le rispettive professioni precedentemente esercitate. Si può addirittura parlare di una 'Repubblica di Dawson' tenendo conto però che fu una conquista dei prigionieri e mai concessione degli aguzzini. Che non sapevano come comportarsi. Per questa ragione applicarono la Convenzione di Ginevra riservata ai ‘prigionieri di guerra di una nazione straniera’”.

Sempre la dittatura di Pinochet – che diede il via ai ‘golpes’ militari a catena in tutto il Sudamerica (Uruguay, Argentina pian piano fino all’America Centrale) – è al centro del documentario di Mimmo Calopresti dedicato ad Adriano Panata “La maglietta rossa”, perché nel 1976, proprio in pieno regime, la squadra italiana di tennis doveva affrontare non solo il Cile ma disputare la finale della Coppa Davis proprio a Santiago. Mentre tutta la sinistra chiedeva di boicottare i giochi, fu Berlinguer stesso a consigliare gli atleti italiani di parteciparvi per evitare che il dittatore strumentalizzassi il fatto a suo favore. Però è stato lo stesso Panata l’ideatore di una sottile ma riuscita provocazione: presentarsi in campo in maglietta rossa. Il colore della contestazione e della ribellione che tanto irritava ovunque i dittatori.

Però gli incontri non finiscono qui, ci sono state la regista Donatella Maiorca, l’autore del libro “Minchia di Re” Giacomo Pilati, il cast (Isabella Ragonese, Valeria Solarino e Corrado Fortuna), l’autrice delle musiche Gianna Nannini e la produttrice Maria Grazia Cucinotta a presentare “Viola di mare”, da oggi anche nelle sale. Una storia d’amore, anzi di frontiera geografica e identitaria, che intreccia leggenda, verità e poesia nella Sicilia dell’Ottocento, rievocando uno scandalo antico, perduto. La venticinquenne Angela ama Sara e cerca di sopravvivere allo scandalo della propria omosessualità fingendosi uomo. Ma pregiudizio, intolleranza e menzogna regnano.

Chiusura con due autori italiani, amati anche all’estero e soprattutto in America, a confronto. Incontro e dialogo col pubblico illustrato da un frammento dei documentari sulla Sicilia realizzati dal ventenne Tornatore che anticipano il suo cinema e il suo ‘stile’, e poi sequenze di film di uno scelte dall’altro (Muccino) e viceversa. Quindi, i due registi parlano del loro lavoro, delle loro ricerche, dei loro film più amati, delle loro paure e timidezze, dei loro segreti e dei loro sogni, avverati e non. La ‘ridondanza’ che vedono tanti nell’autore siciliano e la ‘profonda leggerezza’ del regista romano di cui parlano altri.

José de Arcangelo

giovedì 10 settembre 2009

Battibecchi e polemiche al Lido per "Il grande sogno" di Michele Placido


Anche se ormai siamo arrivati al nono giorno della 66a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, come di consueto, i film si accavallano e si susseguono irrimediabilmente. Succede pure che qualcuno ci sfugga, che qualcun altro venga dimenticato per ragioni di tempo e/o spazio.

Infatti, nei giorni scorsi – tra George Clooney e i film italiani – era passato, in concorso, il maestro della nouvelle vague Jacques Rivette con il suo secondo film con protagonista Sergio Castellitto, e Jane Birkin, ovvero “Questione di punti di vista” che si può gustare subito in sala. Dal teatro (“Chi lo sa?”) al circo, una commedia che è anche una straordinaria parabola sulle relazioni umane e sull’amore, temi cari all’autore e al cinema d’oltralpe.

Alla vigilia della tournée estiva, il proprietario e fondatore di un piccolo circo muore improvvisamente. Nel tentativo di salvare la stagione, la compagnia decide di rivolgersi alla figlia maggiore, Kate che, nella sorpresa generale accetta. Il caso mette sulla sua strada Vittorio - un manager italiano – che decide di seguirli per qualche tempo, inserendosi sempre più nella vita della compagnia, sino a valicare il confine ed entrare nello spettacolo

Ieri, invece, è toccato al tanto atteso e pregiudizialmente discusso di Michele Placido, terzo in concorso, “Il grande sogno” con Luca Argentero, Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca.

Un dramma – anche se il regista lo definisce commedia – autobiografico, ambientato in Italia nel ‘68, quando i giovani sognavano di cambiare il mondo, quando le regole venivano infrante, l’amore era libero e tutto sembrava possibile. Racconta dell’incontro tra Nicola (Scamarcio, alter ego dell’autore), un bel giovane pugliese che fa il poliziotto ma sogna di fare l’attore; Laura (Trinca), una ragazza della buona borghesia cattolica che sogna un mondo senza ingiustizie e Libero (Argentero), uno studente-operaio, leader del movimento studentesco che sogna la rivoluzione. Tra i tre nascono sentimenti e forti passioni e Laura – divisa fra entrambi - dovrà scegliere chi dei due amare.

La storia si ispira all’esperienza autobiografia dello stesso Placido, agente di polizia che arrivato a Roma decise di intraprendere la strada della recitazione, quello era il ‘suo’ grande sogno. Battibecchi e contestazioni in conferenza stampa che ha raggiunto il clou con l’esplosione del regista alla domanda di una giornalista spagnola (scambiata per americana) che chiedeva come mai il film è stato prodotto da Medusa, come tutti sanno società del gruppo Mediaset, appartenente alla famiglia Berlusconi.

“Berlusconi non so chi sia e nemmeno lo voto, voto da tutt’altra parte. Ma voi mi dovete dire con chi (c….) devo fare i miei film: li ho fatti con la Rai e mi avete contestato, ora con Medusa e protestate ancora”. Dopo, credendo la cronista statunitense, ha parlato del cinema americano che, dopo i misfatti compiuti dal governo Usa ovunque, tenta di recuperare facendo vedere quanto gli americani siano ‘buoni’ e ‘pacifisti’ (come nel film con Clooney), chiudendo il discorso con un “ma andatevene a quel paese”. Ma, dopo la proiezione ufficiale, Placido ha dedicato il suo film all’ex direttore de “L’Avvenire”, Boffo, “una persona che ha lo spirito del ’68”. Sarà, come lo stesso direttore della Medusa, Carlo Rosella che era stato fischiato dai giornalisti, quando aveva esordito con “Anch’io ho fatto il ‘68”. Però sono tanti quelli che dopo averci partecipato hanno ‘cambiato sogno’, dal ‘mondo migliore’ al ‘miglior conto in banca’, oppure al successo ad ogni costo. O no?

Tornando al film, Placido ha dichiarato che la gioventù di allora era “desiderosa di libertà e libera davvero, svincolata da tutto ed altruista. Il ’68 è stato un movimento straordinario che travolse convenzioni ed ipocrisie, sconvolse equilibri decennali, fu un’onda travolgente ed i giovani di allora hanno fatto bene a lottare. Erano motivati ovunque nel mondo e pronti a combattere una società ingiusta sia a casa propria sia nelle lontane e orribili guerra come quella del Vietnam. Un grande movimento e, appunto, come dice il titolo del mio film, un grande sogno”.

Un film pensato a lungo, anzi da una vita, che ha visto l’attore-regista impegnato, corpo e anima, per evitare l’effetto nostalgia. E il rischio, visto le premesse, c’era.

“Non volevo un film nostalgico – afferma l’autore - su quel ’68 che non tornerà più e perciò non è nemmeno diretto ai sessantottini di allora. O, almeno, non sono i principali destinatari. Il film, che è una commedia corale su come eravamo, come ci ribellavamo, come pensavamo, è per i giovani di oggi”.

Placido, allora giovane poliziotto venuto dal profondo sud, c’era ma dall’altra parte della barricata.
E non sognava solo un mondo migliore ma sognava soprattutto una vita diversa: quella dell’attore. Un sogno non facile da trasformare in realtà, per lui povero giovane appena arrivato nella capitale (del cinema) con una pessima dizione, che voleva essere ammesso all’Accademia d’Arte Drammatica e di fuggire da quella Valle Giulia dove, durante i fatidici e celebri scontri, c’era anche lui. Tra i poliziotti.

Però i giovani di oggi “sognano poco o non sognano affatto – conclude Placido - perché non credono quasi più in nulla. O così mi sembra. Per loro un nuovo ’68 sarebbe necessario. E io spero che cambino. Anche per questo ho fatto questo film pensando a loro”.

Oggi erano in programma, in concorso, “Al mosafer” di Ahmed Maher, “Soul Kitchen” del turco-tedesco Fatih Akin, e “La doppia ora” di Giuseppe Capotondi, quarto e ultimo film italiano. Per Controcampo Italiano, “Il piccolo” di Maurizio Zaccaro. Fuori concorso, “L’oro di Cuba” di Giuliano Montaldo, e “Gulaal” di Anurag Kashyap. Nella sezione Orizzonti, “Korotkoye zamykaniye” di Petr Buslov, “Dou niu” di Hu Guan, “Touxi” di Liu Jie, “Wahed-Sefr” di Kamla Abu Zekri, “Dai mon e Cock-Croz” di David Zamagni e Nadia Ranocchi.

Domani, per le Giornate degli autori, ancora un film italiano, “Mille giorni di Vito” di Elisabetta Pandimiglio, dedicato ai (dimenticati) figli delle carcerate.

In Italia c'è chi è condannato al carcere senza avere mai commesso reati: i figli delle detenute. Compiuti tre anni, vengono liberati. Saranno costretti a rientrare in carcere ogni settimana per visitare le madri ancora detenute. Oggi nel nostro Paese sono più di settanta i bambini carcerati senza colpa. Vito è uno di loro. Compiuti tre anni, come prescrive la legge italiana, è tornato libero portandosi dietro il peso di quell’infanzia così particolare.

José de Arcangelo

martedì 8 settembre 2009

Dopo il blitz di Chavez, George Clooney di nuovo al centro dell'attenzione al Lido


Clooney, è sempre Clooney a concentrare l’attenzione di pubblico e stampa, anche al Lido. Prima perché portando con sé Elisabetta Canalis ha confermato voci e rumori sulla loro love story; poi perché è presente (ancora una volta) come protagonista di un film sulla guerra in Iraq, fuori concorso, “The Man Who Stare at Goats” di Grant Heslov, il cui riferimento è “M.A.S.H.” di Robert Altman; infine perché con il gossip ci scherza, scambiando battute con i colleghi e con il giornalisti, dato che Brad Pitt – sempre scherzando - gli ha fatto sapere che è ora di fare outing e dichiarare di essere gay. Ribattute e colpi di scena anche nella conferenza stampa veneziana, dove un ‘giornalista’ – un altro esibizionista della nostra società dell’apparire - si è persino spogliato dichiarandogli il suo amore.

Ma oggi era il settimo giorno di proiezioni alla 66a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, segno del primo giro di boa della kermesse. Proiettato il secondo film italiano in concorso “Lo spazio bianco” di Francesca Comencini con Margherita Buy protagonista. Un dramma femminile intenso e toccante che l’autrice di “Le parole di mio padre” costruisce con passione e sincerità. Un riflessione profonda e sincera su maternità e dintorni nel terzo millennio. Importante anche l’altro film in concorso, targato Israele, “Lebanon” di Samuel Maoz, un’altra – amara – riflessione sulla prima guerra in Libano (la stessa del film d’animazione “Valzer con Bashir”), e firmata da un autore che ne ha preso parte, allora ventenne.

Il film presentato nel Controcampo Italiano è “Il compleanno”, opera seconda di Marco Filiberti (“Poco più di un anno fa”) con Alessandro Gassman, Maria de Medeiros, Massimo Poggio, Michela Cescon, Christo Jivkov, Piera Degli Esposti e per la prima volta sullo schermo il fotomodello brasiliano Thyago Alves. Un coinvolgente, emozionante e suggestivo melodramma contemporaneo dagli echi ora viscontiani ora pasoliniani ora sirkiani. Un labirinto di passioni mediterraneo che diventa universale, anche quando a scatenare gelosie, rancori e frustrazione è l’esplosione di un rapporto omosessuale. Perché se fosse stata una relazione fra un uomo maturo e una giovane non sarebbe cambiato nulla, forse. Nemmeno l’epilogo e un finale, per così dire, aperto. Per non parlare del riferimento ai classici, dalla tragedia all’Odissea; dell’ambiguità della bellezza; della nostra società che ci allontana sempre di più gli uni dagli altri. Non è un caso che il regista sia un appassionato, tra l’altro, di musica lirica.

“Difendo con unghie e denti il mio lavorare con severità, libertà ed autonomia – esordisce il regista a proposito della produzione indipendente (Zen Zero con la partecipazione degli Atelier d’écriture Evian éQuinoxe 2207 al Royal Evian Resort) –. La cosa più tragica è che (alla fine ndr) non c’è catarsi, ma la complessità dei rapporti nella cultura giudaico-cristiana dopo duemila anni di storia, oserei dire un dramma proustiano. Non mi interessava la dimensione omosessuale, non ho mai nascosto niente, ma la tensione, l’ambizione di universalizzarlo. E’ la dimensione tragica che mi appartiene. In una società che tende all’omologazione, alla semplificazione dei linguaggi, volevo una forza ontologica superiore, una tensione metaforica”.

Sull’ambientazione, invece, afferma: “La cornice è la spiaggia di Sabaudia ai piedi del Monte Circeo, spazio denso di suggestioni epiche e mitologiche intrise di seduzioni, come quella subita da Ulisse da parte della maga Circe. L’epos è presente in modo inequivocabile nel mio lavoro, è una delle funzioni da me più usate per suggerire un secondo piano di lettura, un altrove che amplifichi il senso di ciò che cerco di fare. Ma Sabaudia è anche un nome che ha rappresentato un ‘mondo’ importantissimo nella recente storia italiana: qui negli anni ’70, alcune tra le voci più importanti della nostra cultura (basti pensare a Moravia, Pasolini, Bertolucci e la Maraini) si davano appuntamento e qui sono nate opere fondamentali per il cinema e la letteratura di quegli anni. Di quel clima e dei suoi valori estetici e culturali, i protagonisti del mio film hanno nostalgia, una nostalgia che rimanda alla loro adolescenza, ma anche, indirettamente, a quello che è stato l’ultimo momento possibile di una classe intellettuale, portatrice di istanze capaci di compenetrarsi con la società. Mi emoziona molto l’idea che questo film possa essere letto come una metafora dell’occidente o anche solo del mio Paese, teatro di passività e di omertà”.

“Poeti” di Tony D’Angelo – che sarà invece presentato domani, sempre nel Controcampo - è un singolare viaggio nella poesia nascosta e metropolitana per raccontare Roma attraverso le immagini e le parole dei due protagonisti: Biagio Propato e Salvatore Sansone. Biagio e Salvatore non si vedono da anni e si incontrano per caso una mattina al cimitero acattolico di Roma dove entrambi sono andati per visitare la tomba di Gregory Corso, poeta Beat che trascorse gli ultimi anni della sua vita declamando poesie a Piazza Campo de’ Fiori. I due conversano sulla poesia, sui tempi moderni e si chiedono se mai si ripeterà un evento come quello di Castelporziano dove nel 1979 i poeti di tutto il mondo si riunirono in una grande Woodstock della poesia. Decidono di provare ad organizzare un Grande Reading con i poeti underground, quelli che popolano le cantine notturne di San Lorenzo, ma anche poeti come Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani…

In serata un gran numero di poeti affollerà la terrazza dell’Excelsior per declamare poesie, dando vita a un Reading ispirato allo storico evento di Castelporziano nel ’79 che richiamò centinaia di poeti underground, e di cui si racconta nel film. Declameranno i loro versi i poeti Cony Rey, Silvia Bove, Eugenia Serafini, Giovanni Minio, Paolo Pagnoncelli, Gabriele Peritore, Marco Orlandi, Domenico Alvino, protagonisti de “Poeti”. Non solo: anche altri scrittori parteciperanno al Reading, come Melissa P e Francesca Ferrando. Ma chiunque potrà essere poeta per una notte. Tutti quelli che vorranno dare voce al poeta che è in loro potranno nel corso dell’evento chiedere spazio per la loro lettura.

I giornalisti cinematografici del Sngci hanno promosso in mattinata un incontro su Pietro Bianchi con l’ultimo saggio firmato da Tullio Kezich e con i primi 12 minuti del documentario in via di realizzazione, sulla figura e l’opera del critico. E’ stato quindi un doppio ricordo d’autore, l’incontro che il Sindacato ha dedicato con l’Eni, per presentare in anteprima il libro appena pubblicato, e l’Associazione Laminarie (che sta producendo il documentario) a Pietro Bianchi, il grande critico al quale è dedicato il Premio che i giornalisti cinematografici consegnano ogni anno al Lido in collaborazione con la Mostra (per il 2009 è andato a Citto Maselli).

Il libro: È la raccolta di un decennio significativo di recensioni cinematografiche, quelle che Bianchi scrisse tra il 1955 e il 1964 per Il Gatto Selvatico, la rivista dell’Eni diretta in quegli anni da Attilio Bertolucci. Sabato prossimo, 12 settembre sarà presentato dall’Eni ufficialmente al Festival delle letterature di Mantova. Il Sngci ne anticipa alla Mostra il “battesimo” per il mondo del cinema.

Ma ieri è stata la giornata del presidente venezuelano Hugo Chavez che si è catapultato al Lido dietro invito del regista Oliver Stone che gli ha dedicato il documentario (fuori concorso) “South of the Border”. Il capo di Stato, in visita non ufficiale, ha risposto cantando l’inno nazionale a un giornalista venezuelano che ne intonava i primi versi, poi – a proposito del film – ha affermato che illustra “parte della verità sul rinascimento in atto in Sudamerica” e, infine, ha replicato “non sono un demonio come dicono, ma solo un essere umano e non favorisco il narcotraffico né il terrorismo come affermano negli Usa”. Però, ha concluso, “Obama mi sembra un uomo diposto ad unirsi per cambiare e salvare il mondo dal disastro totale che stiamo vivendo”. E, anche lui – pur ammirando la Loren e la Cardinale -, ha riconosciuto di essere stato innamorato della Lollo.

José de Arcangelo

domenica 6 settembre 2009

Festa per il Leone d'Oro a John Lasseter e alla Disney-Pixar, ma anche tanti film al Lido


Quinto giorno per la 66a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e giornata dedicata alla Disney Pixar, visto che il Leone d’oro alla carriera è stato consegnato da George Lucas – alle 16.30 in Sala Grande - al regista John Lasseter (e ai suoi colleghi), pioniere e fautore dei più grandi successi dello straordinario sodalizio dei due studios, tra classicità e rinnovamento, del cinema d’animazione. Infatti, sono stati proiettati alcuni dei loro capolavori come “Toy Story” e “Toy Story 2” nella nuova versione 3-D, “Alla ricerca di Nemo” e “Gli incredibili”. Festa per i bambini con la presenza dei loro eroi ‘in carne e ossa’, si fa per dire visto che sono sempre delle ‘controfigure’, e per i gadget, come è tradizione in casa Disney.

Tra i film in programma oggi, due in concorso, “White Material” di Claire Denis e l’atteso, nuovo documentario, Capitalism: A Love Story” di Michael Moore che ricostruisce la storia dell’economia americana, attraverso la recente crisi e il, discusso, salvataggio delle banche da parte del governo. Nella sezione Orizzonti, il brasiliano “Insolaçao” di Felipe Hirsch e Daniela Thomas, il vietnamita “Choi voi” di Thac Chuyen Bui, e il documentario svizzero “Hugo en Afrique” di Stefano Knuchel. Nella stessa sezione, ieri, è stato presentato, tra gli eventi, il documentario di Pappi Corsicato “Armando Testa – Povero, ma moderno”.

L’autore, a proposito del suo mediometraggio, afferma: “Gran parte del lavoro di Armando Testa, è un cardine della mia memoria visiva. Grazie al materiale d’archivio ho potuto riscoprire ed approfondire la produzione di un genio, vero precursore della Pop Art. Il suo stile che fondeva e rielaborava arte, moda, cinema e design, era quello che solo molti anni dopo è stato etichettato come ‘Postmodern’. Ho cercato di raccontare il suo mondo, dialogando con le sue mitiche invenzioni utilizzando la ripresa ‘passo uno’, tecnica che Testa utilizzò per primo in spot pubblicitari. Testa si definiva ‘povero ma moderno’, coniugando due concetti apparentemente antitetici. Nella sua poetica questi due elementi, povertà e modernità, si fondono grazie ad una creatività e uno stile di vita pervasi di ironia e fantasia, proiettati verso il futuro”.

Proiettato anche “La Boheme” di Werner Herzog, ovvero l’opera pucciniana ambientata tra i Mursi, una popolazione del sud-ovest dell’Etiopia, che acquista così una nuova forza enigmatica. Oggi invece, sempre per gli eventi, “The Death of Pentheus” di Philip Has, versione cinematografica di un’installazione artistica esposta per la prima volta al Kimbell Museum.

Ispiratasi a un’antica coppa greca, i cui dipinti celebrano il dio Dioniso, la pellicola ha un formato tondo. All’inizio, si vedono gli uomini e poi il dio e i suoi satiri mentre raccolgono l’uva. I vasai danno forma e cuociono le coppe, e l’artista Douris dipinge scene della storia di Penteo, che si oppone al culto dionisiaco. Dioniso invita Penteo a guardare le menadi di Tebe, nascosto dalla cima di un albero. Le menadi lo scorgono e, in preda a una cieca frenesia estatica, gli lacerano le membra una a una, credendolo un animale. Persino Agave, madre di Penteo, non lo riconosce. Il padre di Agave, a palazzo, le rivela a chi appartiene la testa riportata dai boschi.

Ma, negli ultimi due giorni, sono passati altri due film italiani, accolti calorosamente da pubblico e critica, nella sezione Controcampo italiano: “Dieci inverni” di Valerio Mieli con Isabella Ragonese, lanciata da Virzì in “Tutta la vita davanti”, e Michele Riondino. Ambientato nel 1999, è la cronaca di un incontro e della nascita di un rapporto tra due giovani, lungo dieci anni. In “Cosmonauta” di Susanna Nicchiarelli, facciamo un tuffo negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, per un dramma familiare delicato e toccante, o meglio la storia di una donna dall’infanzia alla maturità, sullo sfondo dei viaggi spaziali e dell’impegno politico, non a caso la regista firma anche il cortometraggio “Sputnik”.

Oggi, invece, è toccato al documentario “Negli occhi” di Francesco Del Grosso e Daniele Anzellotti, ritratto del grande attore – fra teatro e cinema - Vittorio Mezzogiorno. Il racconto – intenso e sentito - attraverso la voce della figlia Giovanna e di chi l’ha conosciuto. Ma anche aneddoti, fotografie, immagini di repertorio, filmati e le musiche di Pino Daniele.

Nella Settimana Internazionale della Critica è stato passato l’altra sera il russo “Come gli scampi” di Ilya Demichev, tra dramma e commedia grottesca – e il dichiarato riferimento a Gogol, di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita -, il racconto di un intenso rapporto tra un cinquantenne funzionario sposato e la giovanissima impiegata di una libreria di Mosca. Fra sentimenti e sorrisi, fra crisi e armonia una riuscita storia quotidiana, ricca di sfumature e di sana ironia, che pian piano diventa sempre più toccante e universale. Ieri è stata la volta di “Domaine” (Dominio) di Patrick Chiha, mentre oggi è passato l’italiano “Good Morning Aman” di Claudio Noce.

“Una Roma multietnica fa da sfondo a una storia che scava nelle vite di un giovane somalo – si legge nella presentazione -, che sogna di vendere auto mentre è relegato alle pulizie della concessionaria, e di un ex pugile segnato dal dolore più che dai pugni presi sul ring. Il loro incontro appare inevitabile. E’ l’incontro di due anime in pena, una tesa a dare un senso alla propria esistenza, l’altra a chiudere i conti con il passato per poter riprendere a vivere. Entrambi dunque viaggiano nella stessa direzione, in cerca di un evento dirompente in grado di scuotere un presente ripetitivo e senza sbocchi. Ma la loro amicizia non è priva di sofferenza, si dipana infatti attraverso una serie di scontri verbali e fisici che rendono impossibile distinguere la personalità dominante da quella dominata. Intorno a loro figure di un universo non meno dolente: la famiglia di Aman, la ragazza vittima del fidanzato violento, la ex moglie di Teodoro, gli amici della palestra pugilistica. Roma è definitivamente una città aperta dove tutti sono stranieri accomunati dalla speranza di un futuro migliore. Lo sguardo di Noce è lucido e impietoso eppure al contempo partecipe e avvolgente, sorretto da uno stile sorprendentemente maturo al punto da permettersi di citare apertamente Pasolini senza rischiare la maniera”.

José de Arcangelo

venerdì 4 settembre 2009

Al Festival di Venezia l'Italia attraverso l'obiettivo del documentario


Terzo giorno di proiezioni alla 66a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e apertura della sezione Controcampo italiano con “Dieci inverni” di Valerio Mieli. Ben tre i film in concorso presentati: “Lourdes” dell’austriaca Jessica Hausner, “Bad Lieutenant” (Il cattivo tenente) di Werner Herzog – arrivati ieri sera i protagonisti Nicolas Cage e l’affascinante Eva Mendez - e “Lei wangzi” di Yonfan. Fuori concorso, “Valalla Rising” di Nicolas Winding Refn ed “Ehky ya Schahrazad” di Yousry Nasrallah. Nella sezione Orizzonti, “Viajo porque preciso” (t.l. Viaggio perché ne ho bisogno) di Marcelo Gomes e Karim Aïnouz, “Dowaha” di Raja Amari, “Francesca” di Bobby Paunescu, di cui ne abbiamo parlato ieri, e “Il colore delle parole” di Marco Simon Puccioni.

A proposito di “Videocracy - Basta apparire” (da oggi nelle sale distribuito da Fandango), non solo ha scatenato la polemica (della maggioranza al governo) e il divieto per il trailer in tivù (leggi Rai e Mediaset), ma ha affollato le sale dov’è stato proiettato al Lido.

Ecco le parole del regista: "In una videocrazia la chiave del potere è l’immagine. In Italia soltanto un uomo ha dominato le immagini per più di tre decenni. Prima magnate della tivù poi Presidente, Silvio Berlusconi ha creato un binomio perfetto caratterizzato da politica e intrattenimento televisivo, influenzando come nessun altro il contenuto della tv commerciale in Italia. I suoi canali televisivi, noti per l’eccessiva esposizione di ragazze seminude, sono considerati da molti uno specchio dei suoi gusti e della sua personalità".

“Comunque la si pensi – ha dichiarato il direttore della Settimana Internazionale della Critica Francesco Di Pace - è un film che andava mostrato perché denuncia il potere che la tv ha sulla nostra società e sulla nostra cultura, quello che produce nella gente e come ne condiziona i comportamenti”.

Ma oltre al lucido e sorprendente, ma vero, documentario del regista italo-svedese, è stato presentato - nelle Giornate degli autori - “L’amore e basta” di Stefano Consiglio (anch’esso nelle sale da oggi, prodotto e distribuito da Lucky Red) che affronta senza retorica né rimaneggiamenti un altro argomento scottante attraverso le storie d’amore di nove coppie gay e lesbiche, non solo italiane, anzi europee.

Introdotto da Luca Zingaretti – che recita un testo di Aldo Nove – e intervallato da brevissimi film d’animazione di Ursula Ferrara, l’opera di Consiglio ci racconta le storie di Alessandro e Marco, due studenti universitari di Catania; delle quarantenni Nathalie e Valérie (e la loro figlioletta Sasha) che vivono a Versailles; di Catherine e Christine, due sessantenni parigine che stanno insieme da vent’anni; di Lillo e Claudio che, da diciassette anni, convivono a Sutri, un paesino vicino Roma; dei quarantacinquenni berlinesi Thomas e Johan; di Emiliana e Lorenza che stanno felicemente insieme nella loro bella casetta nella Bassa Padana; di Gino e Massimo che portano avanti un sodalizio amoroso e professionale da ben trent’anni nel loro negozio/laboratorio di oggetti in pelle nel cuore di un quartiere popolare di Palermo; di Gael e William che, invece, vivono e lavorano insieme nel loro ristorante del 14° arrondissement di Parigi; delle coniugi spagnole Maria e Marisol (legalmente unite in matrimonio non appena è stato possibile) che vivono in campagna a Vic, vicino Barcellona, con la loro prole formata da un maschietto di circa otto anni e due gemelline di sei.

Il regista ricorda come è nata l’idea. “Stavo ultimando – dice – il mio documentario sui bambini ‘Il futuro – Comizi infantili’, e tutt’ad un tratto mi sono risuonate nella mente le parole di una bambina e di un bambino di 12 anni che, interrogati sul tema dell’omosessualità, mi avevano dato una risposta tanto semplice quanto inequivocabile. Lei: ‘Se loro si vogliono bene… è certo che quello che vogliono fare lo fanno. Cioè se si vogliono bene si fa di tutto per uno che si vuole bene’. E lui: ‘Ci sono certi che sono di sesso diverso che non si amano tanto come certi che sono di sesso uguale… Un uomo che ama un altro uomo può amarlo più di una donna che ama un altro uomo”.

Un documentario che parla soprattutto di amore (come da titolo) e di coppia, ma illuminante soprattutto perché usa, appunto, quella spontaneità e quella freschezza tipiche dei bambini. Però anche un film per chi ancora non capisce, o non vuol capire, che la vita privata degli altri non dovrebbe interessarlo, così come non comprende che negando agli altri i diritti che appartengono a tutti non si fa altro che fomentare la violenza e il razzismo, e si condanna ancora una volta i bambini a restare orfani o vittime dei maltrattamenti e degli abusi, di solito commessi dai cosiddetti eterosessuali. Infatti, non è una novità, anzi è accertato che la pedofilia non c’entra niente con l’omosessualità.

E il film colpisce perché sono i diretti interessati a parlarne, senza nessun intervento del regista, tranne quello di cogliere il succo della questione, attraverso un montaggio efficace e una durata che non arriva all’ora e mezza. Da vero ascoltatore/spettatore.

La 66a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ha ricordato in mattinata lo scrittore, commediografo, produttore e critico cinematografico Tullio Kezich, recentemente scomparso, con la proiezione del film “Il terrorista” (1963,), opera prima di Gianfranco De Bosio. Il film, girato proprio a Venezia e presentato alla 24a. Mostra, è tra i primi film prodotti da Kezich con la 22 dicembre, la casa di cui fu direttore artistico, da lui fondata il 22 dicembre 1961 insieme a Ermanno Olmi, dopo aver collaborato alla sua opera prima “Il posto”.

Attiva fino al 1965, la 22 dicembre ha prodotto anche le opere prime di Eriprando Visconti, “Una storia milanese” (1962, presentata alla 23a. Mostra) e di Lina Wertmüller “I basilischi” (1963), oltre a “I fidanzati” di Olmi (1963), “La rimpatriata” di Damiano Damiani e “L'età del ferro” di Roberto Rossellini, suo primo film televisivo.

José de Arcangelo

sabato 1 agosto 2009

I bambini calciatori di Salvatores e lo studente settantenne di Girault al Fiuggi Family Fest


FIUGGI, 1 – Ultima giornata del Fiuggi Family Festival. Ma ieri la manifestazione ha aperto le attività con l’incontro “Aggiungere qualità agli anni” con gli interventi di Ettore Bernabei, presidente onorario Lux Vide (assente giustificato perché ha mandato la sua relazione); Ennio Di Filippo, vicepresidente dell’Associazione Alberto Sordi, e Rita Pelaia, responsabile area Relazioni regionali di Farmindustria.

Per i film in concorso sono stati presentati il già annunciato “Intercampus”, documentario di Gabriele Salvatores, Guido Lazzaroni e Fabio Scamoni, realizzato in giro per il mondo, cioè nei paesi in cui è stato realizzato il progetto calcistico di solidarietà ed aiuto all’infanzia dell’Inter. E, nel pomeriggio, il messicano “El estudiante – Lo studente”, opera prima di Roberto Girault, già montatore e tecnico del suono. Un dramma sulla scia della commedia sentimentale sull’incontro tra due generazioni, che prende spunto da Calderon de la Barca (“La vita è sogno”) e lo affronta grazie alla mediazione di un grande autore della letteratura spagnola ed europea, Miguel de Cervantes (Saavedra), il cui celeberrimo eroe Don Chisciotte si rivela maestro di vita per giovani e vecchi. Ma è anche un’occasione per aprire gli occhi alla poesia e alla vita, da guardare non come un oggetto da consumare, ma come una sorpresa quotidiana da rispettare e un’occasione per riflettere.

Anche se alla fine, il film di Girault vira pericolosamente verso il mélo (la morte della moglie, il ‘messaggio’ antiabortista), il film offre un quadro ora commovente ora divertente di questo scontro-incontro generazionale. Infatti, narra la storia del settantenne Eduardo che, dopo essere andato in pensione e incoraggiato dall’amata moglie, decide di seguire i suoi sogni e si iscrive all’università, dove incontra una nuova generazione di studenti alle prese con i (soliti) problemi della loro età: l’amore, le aspirazioni, ma anche la droga e le disillusioni. Eduardo, appassionato lettore del Don Chisciotte, approfittando della messa in scena del testo, riuscirà a conquistarli e dar loro consigli che la sua esperienza e le sue letture gli suggeriscono. E quando la tragedia colpirà l’anziano, saranno i giovani a ricambiarlo.

Nella sezione Documentari internazionali è stato proiettato “Heart of Jenin” di Leon Geller e Marcus Vetter. Un documentario che diventa viaggio attraverso Israele, un paese che viene esplorato non solo attraverso le famiglie dei bambini che hanno ricevuto gli organi di Ahmed Khatib, un ragazzino palestinese colpito per errore dal fuoco di un soldato israeliano, ma anche nel tentativo di ricostruire gli eventi tragici che ebbero luogo a Jenin nel 2005. Non solo, soprattutto per constatare che una pace è possibile, ma solo se dipende dalla gente comune, perché né le famiglie arabe né quelle ebree vogliono la violenza.

Il signor Khatib ha perso suo figlio Ahmed che aveva 12 anni, ucciso perché giocava con una pistola giocattolo scambiata per una vera. Questo padre decide di donare gli organi di suo figlio a dei bambini israeliani come gesto di pace. Oggi porta avanti anche un centro costruito e sostenuto da una città italiana dedicato ai bambini palestinesi orfani e/o bisognosi.

Nel pomeriggio, un altro interessante documentario “Puisque nous sommes nés” (Visto che siamo nati) di Jean-Pierre Duret e Andréa Santana, passato al festival di Venezia 2008 nella sezione “Orizzonti”. Girato interamente nel nordest del Brasile, il film segue due ragazzini – Cocada e Nero, rispettivamente di 14 e 13 anni - che fanno di tutto (anche lavorare gratis) pur di sopravvivere ed aiutare le loro famiglie, e il cui loro grande sogno è diventare camionisti per lasciare la regione (la più povera del paese sudamericano) e guadagnarsi finalmente da vivere dignitosamente. Ma non è per niente facile, tanto che ad un certo punto, uno dei ragazzi medita il suicidio.

Fuori programma, un documentario – stavolta italiano – “Dallo zolfo al carbone” di Luca Vullo che ricostruisce la storia di centinaia di emigrati italiani in Belgio, andati a lavorare in miniera nel dopoguerra. Un accordo siglato da entrambi i governi che però erano i veri beneficiari: il Belgio trovava mano d’opera a basso costo e per un lavoro che i belgi non volevano fare; l’Italia risolveva il problema della disoccupazione – soprattutto nel Meridione – e riceveva in cambio energia sottocosto. Gli emigrati lavoravano duramente per mantenere le loro famiglie lontane e vivevano in baraccopoli fuori dalla città, diventando quasi ‘invisibili’ per gli stessi belgi. I sopravvissuti raccontano con grande lucidità la loro (ingiusta) odissea.

In serata, al PalaFamily, il celeberrimo “Don Camillo” di Julien Duvivier con Fernandel e Gino Cervi, che ha aperto l’Omaggio a Giovannino Guareschi. La celebrazione continuerà oggi con la proiezione di “La rabbia”, realizzato da Guareschi con Pier Paolo Pasolini nel 1963. Introducono il regista Alessandro D’Alatri e Marco Ferrazzoli, autore di “Non solo don Camillo - L’intellettuale civile Giovannino Guareschi”. Proiezione anche per il riconosciuto (Premio per la vita) “Per non dimenticarti” di Maria Antonia Avati, alla presenza del padre Pupi. A seguire la proposta di “Dancing Paradise”, realizzato nel 1982 per la televisione (Rai), proprio da Pupi Avati. Sarà presente anche l’attore feticcio del regista, Carlo Delle Piane che presenterà un suo video in veste di cantante per un iniziativa a favore dei bambini del terzo mondo, non solo. Oggi si chiude anche il concorso con “Lauptajij” (Little Robbers – Piccoli ladri) di Armands Zvirbulis (Lituania/Austria), mentre, in serata, dopo la premiazione, si concluderà il festival con la proiezione del film vincitore.

José de Arcangelo

venerdì 31 luglio 2009

Al Fiuggi Family Fest, un'esplosione di risate con "L'era glaciale 3": gag, battute e nuovi personaggi


FIUGGI, 31 – Giornata eccezionale al Fiuggi Family Festival, soprattutto per l’affollatissima anteprima di “L’era glaciale 3 – L’alba dei dinosauri” di Carlos Saldanha (e Mike Thurmeir). Un lungometraggio d’animazione, della 20th Century Fox, Blue Sky Studios e Fox Animation, che non ha deluso, anzi. Un’esplosione di risate, una marea di battute e citazioni – riservate soprattutto agli adulti – e nuovi personaggi come il furetto preistorico-mercenario (ma buono, coraggioso e generoso) Buck e, ovviamente, i dinosauri. Perché Manny il mammut e la sua compagna Ellie (incinta del primo cucciolo), la tigre Diego e Sid il bradipo vengono catapultati nel “mondo perduto” dei dinosauri, rimasti isolati dal ghiaccio sottoterra. Tutto a causa di Sid che ha rubato tre uova di dinosauro. Ma la mamma dei ‘piccoli’ è naturalmente molto arrabbiata e li porta via di forza insieme al bradipo. I suoi amici dovranno andare a salvarlo e…

Un cartone animato che funziona sempre di più, mentre lo scoiattolo preistorico Scrat che trova l’amore in una sofisticata simile, ovviamente di nome Scrattina, continuerà a lottare (anche con lei) per l’agognata ghianda ed, entrambi, firanno nel mondo sotterraneo.

Ma anche i film in concorso sono stati ieri al di sopra delle aspettative. Dalla commedia “celeste” spagnola “Angeles S.A.- Angeli Spa” di Eduard Bosch al dramma psicologico di attualità “Versailles” di Pierre Schoeller con il rimpianto Guillaume Depardieu, alla sua ultima interpretazione. Il primo è la tradizionale commedia fantastica i cui riferimenti sono i classici iberici degli anni Sessanta-Settanta ma anche quelli hollywoodiani, con in testa "Il Paradiso può attendere". E la protagonista è una giovanissima cantante Maria Isabel che debutta sul grande schermo come attrice. Una caratteristica del cinema spagnolo di quelli anni che impose bambini canterini come Marisol e Joselito nella commedia e la famosissima Sarita Montiel nel mélo-musical, una star costretta all’esilio artistico dalla Spagna franchista perché in odor di comunismo, prima in Messico, Argentina e, infine, persino a Hollywood (“Vera Cruz”).

Carlos ha una bella, tipica, famiglia: la moglie Julia, i figli Maria Isabel e Dani, a cui vuole bene ma da cui è sempre molto lontano a causa del suo lavoro. Quando Carlos muore in un incidente aereo in cielo scopre che sua figlia non ha un angelo custode e ottiene dal capo degli angeli, Simona, il permesso di poter tornare sulla Terra per svolgere questo ruolo. E dovrà risolvere molti problemi e accettare che la sua famiglia impari a sopravvivere senza di lui.

Quindi, una variazione riuscita della classica commedia fra Terra e Paradiso, un racconto sull’amore, la speranza e le seconde occasioni girato con la leggerezza del tocco e a suon di canzoni.

Molto realistico, interessante e toccante, invece, “Versailles” che narra la storia di Nina, disoccupata senza casa, che vive per le strade parigine con il figlio di 5 anni Enzo. Sbattuta da un ufficio all’altro dall’assistenza sociale, Nina finisce nei boschi di Versailles dove si imbatte in Damien, un giovane ferito dalla vita che vive in una baracca. Intuendone la fondamentale bontà d’animo, Nina compie il gesto azzardato di andarsene per tentare di ricostruire la sua vita lasciando il bimbo alla sua custodia. Il barbone (clochard di ultima generazione), prima riluttante, finisce poi per affezionarsi al piccolo, tanto che tempo dopo lo riconoscerà ufficialmente…

Ritratto del piccolo Enzo, centro emotivo e morale del film, mette in primo piano le difficile vite delle persone (oggi sempre di più) costrette ai margini della società. Però, la sofferenza e la solitudine, non sono la parola definitiva per i personaggi. Forse né Nina né Damien sapranno essere genitori fino in fondo, ma Enzo avrà sempre la fortuna di trovare adulti capaci di stargli vicino e aiutarlo a crescere, senza speculazioni né interessi. Nella pellicola viene fuori come le istituzioni siano inadeguate a risolvere i problemi dei cittadini, promettendo una situazione ‘normale’ e al tempo stesso ostacolandola, con assurdi decreti e leggi controsenso. Che dimenticano prima di tutto le ‘persone’ e i loro sentimenti. Citazione (nel funerale di un barbone) dei versi del poeta spagnolo Antonio Machado, messi in musica dal cantautore catalano Joan Manuel Serrat negli anni Settanta.

In mattinata si è avuto l’incontro “Tanti padri tanti amori” con il poeta Davide Rondoni, il professor Giuseppe Noia e alcuni padri con le loro vicende vissute.

José de Arcangelo

giovedì 30 luglio 2009

A Fiuggi, delude Winterbottom ma divertono i ragazzi Labou e Garfield



FIUGGI, 30 – Ha deluso un po’ tutti la tanto attesa anteprima (in concorso) del nuovo film di Michael Winterbottom “Genova”. Perché, forse per la prima volta, il regista britannico – autore, tra gli altri, di “Go Now” e “In This World – Cose di questo mondo” – parte da uno spunto non nuovo e lo sviluppa in maniera abbastanza convenzionale, tranne il montaggio parallelo – anch’esso ormai abusato - delle vicende del padre e delle figlie. In primo piano, più che sottofondo, ovviamente Genova che diventa scenario e co-protagonista di questo dramma psicologico sull’elaborazione del lutto e sul rapporto genitore-figlie.

Infatti, il capoluogo ligure rappresenta l’inizio di una nuova vita per il professore Joe (Colin Firth che purtroppo non è presente) e le sue giovani figlie, una famiglia che cerca di ricominciare dopo la tragica morte della madre in un tanto banale quanto tragico incidente automobilistico. E, mentre l’adolescente Kelly esplora con cuoriosità i misteri di questo nuovo mondo e i rapporti con i suoi coetanei; la piccola Mary inizia a vedere il fantasma della madre aggirarsi per case e vicoli. Proprio la città contribuirà non poco alla catarsi, a guidare loro in un doloroso viaggio per ritrovare l’affetto che li lega, l’equilibrio infranto e cominciare una nuova vita. Forse proprio a Genova, come fa pensare il finale aperto.

Quindi, un Winterbottom sottotono, senza impennate di genio né intense emozioni. Certo, siamo sempre oltre la media, ma di un autore come lui – che ha affrontato generi diversi quasi sempre con successo – ci si aspettava di meglio.

Tutto altro genere nell’altro film in concorso visto nel pomeriggio, “Labou” scritto e diretto da Greg Aronowitz (Usa). Una commedia per ragazzi che sposa il fantasy e lancia un messaggio ecologico, e lo fa senz’altra pretesa che divertire i bambini, evitando la violenza e usando effetti speciali digitali, ormai a portata di (quasi) tutti. Infatti, la pellicola di Aronowitz è stato premiata in patria come Best of the Fest al Chicago International Children’s Film Fest, e come miglior film agli omologhi festival di New York e Houston.

Tre giovanissimi amici intraprendono un’avventura alla ricerca del leggendario Capitano LeRouge, inabissato con la sua nave e il suo magnifico tesoro nella baia della Louisiana due secoli prima. Ma ciò che troveranno sarà un’avventura al di là di ogni più fervida immaginazione, e la magica creaturina (a metà fra una tartaruga e una scimmia, infatti i ragazzi la soprannomineranno Tartuscimmia) Labou, i cui fischi sono detti essere l’ispirazione originale del Jazz. E così nel film ci sono anche dei gustosi intermezzi jazz e dixieland.

Cartoon Network, invece, ha presentato in anteprima un episodio della serie d’animazione “Ben 10 Forza aliena”, un gradevole cartoon di fantascienza destinato soprattutto agli adolescenti. In serata Boomerang ha presentata in anteprima al PalaFamily, “Garfield in 3D”, ma è l’animazione tridimensionale (sulla scia di quella della Pixar) e non si tratta di un vero film da alcuni episodi messi insieme del nuovo “Garfield Show”. Un gattone sempre e comunque simpatico e sarcastico.

Nella sezione Documentari internazionali è passato “Beyond the Game” di Jos de Putter (Olanda). Un sguardo sul mondo dei campioni dei videogame, del tutto sconosciuto per gli adulti e per quelli che non se ne occupano. Il documentario segue Sky (cinese) e Grubby (olandese), l’attuale campione e il precedente, nel corso del duello finale ai World Championship Cybergames con lo stile di un western ipermoderno e con l’apporto di interviste alle persone a loro più vicine.

José de Arcangelo

mercoledì 29 luglio 2009

Una famiglia composta spesso da donne e bambini sullo schermo del Fiuggi Family Fest

FIUGGI, 29 – Ieri la giornata di proiezioni, la quarta della II edizione del Fiuggi Family Festival, si è aperta con il concorso per presentare il terzo film (di 4 su dodici) diretto da una donna: “Snijeg – Neve” della bosniaca Aida Begic, un dramma corale al femminile sulle conseguenze della guerra, anzi di un altro genocidio, dopo quello del Rwanda affrontato dalla documentarista americana Laura Waters Hinson in “As We Sorgive”.

“Neve” racconta – all’indomani della guerra in Bosnia – una settimana nella vita di una famiglia privata della gran parte dei suoi uomini, anzi dei maschi. Infatti, gli unici sopravvissuti sono il nonno e un bambino ancora traumatizzato dall’orribile massacro etnico. Le donne cercano di andare avanti con il poco che possiedono – marmellate, soprattutto di prugne, e conserve -, facendo i conti con le paure e le domande rimaste senza risposta. Ma un giorno si presenta in casa un uomo della zona, un serbo loro vecchia conoscenza, che vuole comprare la loro terra per conto terzi. Ma nulla potrà cambiare finché la verità non viene a galla.

Gran Premio della Settimana della Critica al festival di Cannes 2008, l’opera è un intenso e commovente dramma – forse un po’ lento per chi ma il ritmo frenetico del cinema contemporaneo - che diventa il quadro, a tratti poetico a tratti inquietante, della vita quotidiana di un piccolissimo villaggio-famiglia, dove i rapporti sono tesi e al tempo stesso resi fragili da lutti, da rancori, da sogni infranti, da verità non dette, appunto. Ma anche una riflessione di come dopo la strage si tenti ancora di cancellare una comunità, un’etnia tramite la speculazione, sradicando i sopravvissuti dalla propria terra.

Nel pomeriggio è toccato all’olandese “Frogs and Toads – Rane e Rospi” di Simone van Dusseldorp con Nino Morris den Brave e Witney Franker. Una tipica, ma non convenzionale, commedia avventurosa su, con e per ragazzi con interventi da musical e titoli d’animazione classica.

Racconta le vicende di un ragazzino che ha promesso al fratello – in ospedale per un piccolo intervento chirurgico alla gola – di prendere in un vasetto delle uova di rana che dovrebbero fargli tornare la voce. E così, il piccolo Max inizia una spericolata fuga dall’ospedale fino in campagna dove abita la nonna che ha tanti animali e si prende cura anche di quelli selvatici feriti o in difficoltà. Per strada si unisce a lui una coetanea di colore, dando il via ad un’avventura per loro sconosciuta, quasi magica. Perché (tutti) i piccoli cittadini non hanno mai visto certe cose e soprattutto gli animali ‘dal vivo’. Ma anche qui, per ragioni ben diverse, gli uomini sono assenti. Tranne il padre della ragazzina che arriverà alla fine.

Oggi per il concorso vengono presentati, la mattina in anteprima italiana, l’atteso film di Michael Winterbottom “Genova”, ambientato nel capoluogo ligure, e nel pomeriggio “Intercampus” di Gabriele Salvatores, Fabio Scamoni e Guido Lazzaroni che fa parte di un progetto più ampio, di cui è stato presentato l’anno scorso al festival di Locarno, “Petites Historias das Crianças” degli stessi Scamoni (anche produttore per RedHouse), Lazzaroni e Salvatores. Il calcio come progetto (InterCampus) per favorire lo sviluppo di bambini vittime della guerra e/o della povertà. E sono gli stessi bambini che raccontano e si raccontano con spontaneità disarmante, spesso commovente.

Il progetto dell’Inter è nato nel 1997 su un programma flessibile di intervento sociale e cooperazione in 17 nazioni nel mondo (dall’Iran al Brasile, dalla Romania alla Cina, dalla Bosnia al Cameroun e alla Colombia) utilizzando il gioco del calcio come strumento di promozione a beneficio di 9mila bambini bisognosi tra gli 8 e i 14 anni, sotto la guida di 200 operatori locali.

Nello stesso pomeriggio di ieri, nella sala Tv, è stato presentato da Boomerang, il canale satellitare dei grandi classici dell’animazione, un episodio di “Le avventure di Piggley Winks”, una serie dove i bimbi conosceranno il mondo attraverso le fantastiche storie di una fattoria, narrate da un nonno ai suoi nipoti porcellini. E il network presenterà stasera, in anteprima italiana, una nuovissima versione in 3D delle avventure del gatto più pigro e goloso del mondo dei cartoon: “Garfield”.

Per i Documentari internazionali abbiamo visto “Luanda, Factory of Music” di Kiluanje Liberdade e Inés Gonçalves (Angola). A Luanda giovani poeti creano musica con le loro parole. Il Dj Buda è uno di loro. Nel suo computer porta alla vita incredibili ritmi elettronici. A squarciagola questi ragazzi sparano parole nel microfono nello stile di Frank Sinatra, producendo una musica che non si è mai sentita, una musica attraverso cui ogni giovane racconta la sua storia. Il risultato di queste sessioni è una cacofonia polifonica che parla della vita in Angola, dei ragazzi stessi che vogliono potersi ascoltare, comunicare, ballare.

Ieri sera anche la terza anteprima italiana, al PalaFamily, con "Flash of Genius" di Marc Abraham con un sempre efficace Greg Kinnear, stavolta protagonista assoluto, nei panni dell'inventore dei tergicristalli ad intermittenza. Un dramma di impegno civile, una storia vera, se vogliamo un biopic su un inventore che osò di sfidare un colosso come la multinazionale Ford, che gli aveva 'rubato' l'invenzione e tentava di farlo tacere a suon di milioni di dollari. Un buon dramma che però non ha i 'lampi di genio' del personaggio. In uscita nelle sale dal 7 agosto.

José de Arcangelo