sabato 10 settembre 2011

Con il "Faust" di Aleksandr Sokurov al Festival di Venezia trionfa il cinema d'autore Doc. Coppa Volpi per Michael Fassbender e la cinese Deanie Yip

A Venezia trionfa il cinema d’autore, eterogeneo, e con qualche palese ‘dimenticanza’, anche se le previsioni degli ultimi giorni davano per vincitore del Leone d’Oro per il miglior film a chi l’ha poi avuto,
la personale trasposizione del “Faust” firmata Aleksandr Sokurov (Russia). Il Leone d’Argento per la migliore regia è andato all’autore del ‘film sorpresa’ di quest’anno, al cinese Shangjun Cai per “Ren Shan Ren Hai - People Mountain People Sea” (Cina - HK). Il Premio Speciale della Giuria all’italiano più applaudito di questa edizione “Terraferma” di Emanuele Crialese, mentre le Coppe Volpi per la migliore interpretazione maschile all’attore in ascesa Michael Fassbender nel film “Shame” di Steve McQueen (GB), ma interprete anche di “A Dangerous Method” di David Cronenberg; e quella per la migliore interpretazione femminile all’intensa e veterana diva del cinema di Hong Kong Deanie Yip per “Tao jie - A Simple Life” di Ann Hui (Cina - HK).
Il Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente a Shôta Sometani e Fumi Nikaidô nel film “Himizu” di Sion Sono (Giappone). Infine, Osella per la miglior fotografia a Robbie Ryan per “Wuthering Heights - Cime tempestose” di Andrea Arnold (GB); e Osella per la migliore sceneggiatura ai greci Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou per il film “Alpis” (Alps) dello stesso Lanthimos.
Per la sezione Orizzonti (riservato ai lungometraggi) premiato “Kotoko” di Shinya Tsukamoto (Giappone); Premio Speciale della Giuria (sempre per i lungometraggi) a “Whores’ Glory” di Michael Glawogger (Austria, Germania); Premio Orizzonti Mediometraggio: “Accidentes Gloriosos” di Mauro Andrizzi, Marcus Lindeen (Svezia, Danimarca, Germania). Premio Orizzonti Cortometraggio: “In attesa dell'avvento” di Felice D'Agostino, Arturo Lavorato (Italia). Menzioni Speciali: “O Le Tulafale - The Orator” di Tusi Tamasese (Nuova Zelanda - Samoa); “All The Lines Flow Out” di Charles Lim - Yi Yong (Singapore).
Il Premio Controcampo Italiano (per i lungometraggi narrativi) alla bella sorpresa “Scialla!” di Francesco Bruni; Premio Controcampo (per i cortometraggi) “A Chjàna” di Jonas Carpignano; Premio Controcampo Doc (per i documentari) “Pugni chiusi” di Fiorella Infascelli. Menzioni Speciali: al documentario “Black Block” di Carlo Augusto Bachschmidt; a Francesco Di Giacomo per la fotografia di “Pugni chiusi”
Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” a “Là-bas” di Guido Lombardi (Italia) presentato dalla Settimana della Critica, nonché un premio di 100.000 dollari, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore. Cinecittà Luce distribuirà nelle sale il film.
“Siamo felicissimi - ha dichiarato l'Amministratore Delegato, Luciano Sovena - del premio che ha visto un'opera prima italiana qualificarsi come la migliore tra le altre provenienti da tutto il mondo. Distribuire un film come questo risponde pienamente alla nostra mission e si inserisce brillantemente nell'insieme del lavoro che Cinecittà Luce ha svolto anche durante il festival di Venezia”.
Premio CinemAvvenire per il Miglior Film in Concorso Venezia 68 al film “Shame” di Steve McQueen, con la seguente motivazione: Un'opera forte, viscerale, mai scontata. Attraverso un grande controllo stilistico, unito all'ottima performance dei protagonisti, il film trascina lo spettatore in un mondo di solitudine e dolore svelando la prigione di una sessualità esibita fino allo straniamento. Premio CinemAvvenire "Il Cerchio non è Rotondo-Cinema per la Pace e la Ricchezza della Diversità" al film “O le tulafale - The Orator” di Tamasese, con la seguente motivazione: Per essere riuscito a raccontare una storia toccante e originale in grado di parlarci di diversità, di integrazione e della conquista della parola come mezzo di riscatto morale e sociale.
La giuria del Mouse d’Oro, il premio della critica online, ha aggiudica due riconoscimenti: il Mouse d’Oro al miglior film del concorso ufficiale e il Mouse d’Argento all’opera presentata al di fuori del concorso ufficiale.
Il comitato direttivo del premio Mouse d’Oro, dopo aver ricevuto e contato il giudizio di oltre 100 giurati, ha decretato come migliori film della 68a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia:
- Mouse d’Oro a “Killer Joe” di William Friedkin
- Mouse d’Argento a “Kotoko” di Shinya Tsukamoto
Quindi, un autore come Roman Polanski che ha firmato splendidamente la versione cinematografica (a tutti gli effetti) della pièce di Yasmina Reza in “Carnage” non ha avuto nessun riconoscimento ufficiale, ma speriamo sarà il pubblico a premiarlo perché affronta un tema sempre attuale e scottante come la violenza (che è in noi), attraverso il non troppo metaforico e, apparentemente, pacifico incontro tra due famiglie che si trovano a confronto sull’argomento ‘vittime e carnefici’ (il figlio di una ha pestato brutalmente con un bastone il figlio dell’altra), e finisce per scatenare un gioco al massacro dove verranno fuori rabbia repressa e antichi rancori, falso impegno e presunta (into) tolleranza, battute velenose e critiche al vetriolo, maleducazione e razzismo. Quattro personaggi in un interno, come cavie in gabbia (la scena, interno dell’appartamento), riusciranno a tirare fuori il peggio di loro (e di noi). E se l’ambiente è claustrofobico, Polanski riesce a trasformarlo in scena aperta, vero cinema aperto all’universo. Certo, sono stati dimenticati anche altre opere e registi come William Friedkin o il Clooney di “Le idi di marzo”, non solo. Però Mueller ha dichiarato che Polanski merita il Leone d’oro alla carriera, un altro premio sarebbe assurdo. Lo prendiamo in parola.
Ma nell’ultima giornata i riflettori del Lido erano puntati fin dalla mattinata anche sul tema dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo, e alla denuncia della loro oppressione, con “This is Not a Film” di Jafar Panahi e Mojtaba Mirtahmasb, straordinario documento sulla condizione di Panahi, regista di fama internazionale costretto da una sentenza agli arresti domiciliari e all’inibizione dal suo stesso mestiere. Una testimonianza resa ancor più grave dalla notizia del fermo imposto al co-autore Mirtahmasb, bloccato dalle autorità iraniane mentre stava per imbarcarsi per l’Europa, per presentare la pellicola, proprio a Venezia. Alla proiezione del film è seguita una tavola rotonda sul tema Cinema e Diritti Umani, patrocinata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e presentata da Cinecittà Luce, Rai Cinema, Amnesty International e l’associazione Articolo 21, presso lo spazio Cinecittà Luce dell’Hotel Excelsior, al Lido.
Nel corso degli ultimi tre giorni è stato presentato anche il documentario di Barbara Cupisti, “Io sono - Storie di schiavitù”, ed Evento della sezione Controcampo Italiano. Il documentario, prodotto da Faro Film in collaborazione con Rai Cinema, con il patrocinio di Amnesty International sezione italiana, focalizza l’attenzione sui vari aspetti della tratta degli esseri umani, che “in Italia è la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, seconda solo ad armi e droga” secondo quanto riporta la Relazione 2009 del COPASIR (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica). Sono ragazzi, uomini, donne, transessuali i protagonisti del film della Cupisti. Arrivano in Italia spinti dalla fame, dalla miseria, dalle guerre e dal desiderio di migliorare il proprio futuro, e per il viaggio sono obbligati a pagare cifre sproporzionate alle organizzazioni illegali e criminali. Una volta arrivati in Italia si trovano a lavorare “a nero”, sottopagati o addirittura costretti a prostituirsi per restituire l’ammontare del loro debito.
José de Arcangelo

venerdì 9 settembre 2011

Dal Texas a Hong Kong e all'Egitto irrompe la inquietante e cruda realtà alla 68a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

Penultimo giorno e ultimi due film in concorso alla 68a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. “Texas Killing Fields” di Ami Canaan Mann, figlia del celebre produttore-regista Michael, alla prima opera importante dopo il debutto nel 2000 con “Morning” e diverse regie televisive. Nel film, ispirato ad una storia vera, Sam Worthington (da “Avatar” a "Il debito"), Jessica Chastain (vista in "Wilde Salomé" di Pacino), Chloe Moretz e Jeffrey Dean Morgan. La seconda opera in gara è “Life without Principle” di Johnny To, ritorno al Lido a quattro anni da “Mad Detective” (2007). Due anche i lavori fuori concorso: il francese “La Clé des champs” di Claude Nuridsany e Marie Pérennou e l'egiziano “Tahrir 2011” di Tamer Ezzat, Ahmad Abdalla, Ayten Amin e Amr Salama. Texas City. L’ispettore della Omicidi Mike Sounder, un texano piantagrane, e il suo collega Brian Heigh, originario di New York, sono chiamati in aiuto dall’ex moglie di Mike, l’ispettore Pam Stall, per risolvere il caso di una ragazzina la cui macchina abbandonata è stata trovata nei Killing Fields. Sono una spianata costiera paludosa (che tutti dicono essere infestata dai fantasmi) dove sono stati ritrovati i corpi di quasi sessanta vittime, per lo più giovani donne. Nel corso delle indagini emergono due gruppi di indiziati, ma si aggiungono altre vittime. Quando ad essere rapita è Little Anne, una ragazzina di strada di cui Mike si sta prendendo cura, Brian e Pam sono costretti ad avventurarsi nel cuore dei Killing Fields nel tentativo di salvarla.
“Ai margini della piccola cittadina chiamata Texas City – dice la regista -, situata trenta minuti a sud di Houston, sono stati trovati i corpi di quasi sessanta vittime di omicidio. Alcuni di donne, altri di ragazze, prostitute, scolarette. Tutte vittime di assassini diversi. Tra la gran quantità di documentazione che corredava la straordinaria sceneggiatura di Don Ferrarone ho trovato una mappa allegata all’articolo di un quotidiano locale. Mostrava i volti delle vittime vicino a dove erano stati trovati i loro corpi. Capelli lisci stile anni ’70, frangette anni ’80, striati alla anni ’90. Decenni di ragazzine che si fanno il trucco e i capelli la mattina del loro ultimo giorno di vita, ignare che l’immagine che vedono allo specchio finirà anni dopo su una mappa delle vittime nelle mie mani. Molte sono foto di scuola. Gli occhi puntati dritti verso l’obiettivo, come si fa quando ci dicono di sorridere a scuola nel ‘giorno delle foto’. Su quella mappa, sembrano bei volti di fantasmi i cui occhi ti trapassano, alla ricerca di una voce. Ed è questa realtà, credo, che ha spinto me, il cast e la troupe a cercare di raccontare una storia difficile nel modo più elegante possibile. Come raccontare la loro storia? Come dare voce a coloro la cui voce è stata soffocata?”
L’opera dell’hongkonghese To narra le vicende parallele (che finiranno per incrociarsi) di una comune impiegata di banca che, promossa analista finanziaria, è costretta a vendere ai clienti titoli ad alto rischio; un gangster di mezza tacca spulcia gli indici dei futures nella speranza di guadagnare soldi facili per pagare la cauzione a un amico finito in prigione; un ligio ispettore di polizia, da sempre soddisfatto del suo tenore (medio) di vita, si ritrova disperatamente a corto di soldi quando la moglie versa la caparra per un appartamento di lusso che non può permettersi e il padre morente gli chiede di prendersi cura di una sorellastra mai conosciuta. Tre persone ‘comuni’ che non hanno null’altro in ‘comune’ tranne un gran bisogno di denaro per affrontare le rispettive ristrettezze e una crisi mondiale mai vista – finché un giorno spunta una borsa con 5 milioni di dollari rubati, precipitando i tre in una situazione intricata che li costringe a interrogarsi angosciosamente su ciò che è giusto o sbagliato e su tutte le sfumature intermedie nella scala della moralità.
Un argomento non nuovo (i soldi fanno girare il mondo) rivisitato da To in un riuscito mix di generi (dalla commedia al dramma d’autore), tralasciando l’azione e sotto un’apparente patina di cinema tradizionale che però nasconde un cuore tormentato dall’inquietante attualità.
“Viviamo in un mondo turbolento – afferma l’autore. Per sopravvivere, la gente non può fare altro che stare al gioco. Per quanto ci si sforzi di seguire le regole, prima o poi si finisce per perdere una parte di se stessi”.
“La clé des champs” è, invece, ambientato in uno stagno deserto. Due ragazzini soli si lasciano stregare da quel luogo selvaggio che a poco a poco li avvicina l’uno all’altro, dando loro la forza di affrontare la vita. Visto attraverso i loro occhi e la loro fantasia, lo stagno diventa un regno segreto, meraviglioso e terrificante al tempo stesso, infestato di creature nate dai sogni o dagli incubi. I bambini vivono un’iniziazione, breve ma intensa, dalla quale usciranno trasformati.
Secondo gli autori “E’ una vera e propria fiaba. Lo stagno – questo luogo che i protagonisti hanno scelto come paradiso incontaminato, rifugio remoto dal mondo degli adulti – diventa uno specchio magico tramite il quale scoprono esseri misteriosi che li restituiranno alle loro vite di partenza. Attraverso gli occhi dei bambini, lo stagno si trasforma in un oceano abitato da creature straordinarie… creature che insegneranno loro la leggenda della vita, una vita nuova che dovranno capire e addomesticare. Grazie all’amore per quel regno, i due protagonisti usciranno dalla solitudine, scoprendo a poco a poco l’amicizia”.
L’egiziano “La fine”, narra quella mattina del 25 gennaio 2011 in cui gli egiziani non potevano immaginare che quel giorno di festa nazionale si sarebbe tramutato in una rivoluzione per l’abbattimento del regime. Grazie ai social media, la nuova generazione araba ed egiziana aveva potuto assistere alle atrocità commesse dal regime del presidente Hosny Mubarak negli ultimi trent’anni. Per 18 giorni il mondo ha visto il popolo egiziano scendere in strada per porre fine all’ingiustizia, alla povertà e alla corruzione. A questa nuova generazione appartengono anche tre registi che hanno voluto raccontare la storia da un punto di vista cinematografico unico. Tamer Ezzat, con la collaborazione di Ahmed Abdalla, mette in primo piano il coraggio di diversi personaggi, le cui azioni hanno spinto alla rivoluzione la gente attorno a loro. Ayten Amin racconta il suo viaggio personale tra la polizia e le forze dell’ordine, che mai aveva affrontato prima della rivoluzione. Emergono così corruzione e ingiustizia del corpo di polizia soggetto al regime. Amr Salama scava proprio nella mente e nell’anima dell’ex presidente Mubarak, intervistando importanti personalità e politici che sono stati alleati o oppositori del regime. Questa è la storia della rivoluzione vista attraverso i loro occhi in tre capitoli diversi, dal titolo: Il Buono, Il Cattivo e Il Politico.
Il Cairo, 21 marzo 2011, Ezzat dice: “La trasformazione degli egiziani mi ha colpito moltissimo. Soltanto qualche giorno prima del 25 gennaio erano un popolo apatico e sottomesso, ma nel giro di poche ore si sono uniti per il bene comune, diventando dei veri guerrieri“.
E Amin ribatte: “Nel cuore di Piazza Tahrir sorgerà un monumento in ricordo delle vittime e dei martiri della rivoluzione egiziana. Mi piacerebbe sapere se recherà l’iscrizione ’Questi martiri sono stati uccisi dai proiettili dei poliziotti egiziani’“.
Salama conclude: “E’ stato un viaggio attraverso la mente di un dittatore, che ha sollevato domande e risposte su cosa lo abbia reso tale e come possiamo salvaguardarci dal crearne un altro“.
Ma l’evento della giornata è stato l'assegnazione del Leone d'oro alla carriera a Marco Bellocchio. Il premio è stato consegnato durante un evento speciale preceduto dalla proiezione del documentario-omaggio “Marco Bellocchio, Venezia 2011” di Pietro Marcello e seguito dalla nuovissima versione di “Nel nome del padre”, più breve (di un quarto d’ora), quindi più ‘asciutta’ ma se vogliamo ancora più coinvolgente e sempre potente e attuale, anche dal punto di vista cinematografico.
“Quando lo concepii c’era già la crisi del '68 – afferma l’autore - e questo spostare il tempo nel passato è stata un’operazione da me voluta. L'ho scelto pure per questo, perché sentivo che potesse essere ancora rielaborato, c’erano elementi ideologicamente soffocanti (e quindi ormai datati ndr.) e ho sempre creduto che le immagini potessero essere più libere, accompagnate da un ritmo più coinvolgente. Abbiamo fatto molti tagli, piccoli e non, anche se il senso del film, la sua provocazione, la disperata ribellione, è rimasto inalterato. Solo che ora è più bello”.
“Ringrazio il Festival, la Biennale, il suo Presidente, il Direttore e amico Marco Mueller – ha proseguito durante la premiazione -, e naturalmente Bernardo Bertolucci che ha accettato di consegnarmi questo Leone alla Carriera. La mia carriera sono i film che ho fatto finora. Film diversi a seconda delle esperienze umane molto diverse che ho vissuto in 50 anni, appunto, di carriera”.
Ricorrente la domanda da parte della stampa: “Ma la tua rabbia (quella dell’opera prima capolavoro ‘I pugni in tasca’, dei mitici Sessanta…) dov’è finita?”
“L’intenzione è – sempre – di fissarmi, pietrificarmi in quel passato – afferma il maestro. Ho risposto una volta di sentirmi un ribelle (o un rivoluzionario?) moderato, definizione che piacque e conquistò il titolo. Il significato di quel rivoluzionario – o ribelle – moderato, al di là della contraddizione palese che appunto un rivoluzionario non può essere moderato, è forse di un ribelle che ha rinunciato alla violenza…
Da allora, i mitici anni ’60, le mie immagini sono cambiate, perché la mia vita è cambiata. Non sono più l’assassino o il suicida, protagonisti delle mie storie. Né il pazzo il portatore della verità. Sono indubbiamente cambiato (la possibilità di cambiare, di trasformarsi, per certa cultura è inconcepibile e quindi affermarlo è già una provocazione): le immagini stanno lì a dimostrarlo”.
“Ciò che non è cambiato – aggiunge - è una naturale inclinazione a stare dalla parte di chi è oppresso, di chi è vittima di qualsiasi violenza, a qualunque classe appartenga, la violenza dei padri – come delle madri – e la loro complicità, ma non di chi accetta passivamente la propria sconfitta e predica la rassegnazione (‘così va il mondo e andrà sempre così…’)”.
“Credo che la libertà sia la cosa più preziosa per un artista – conferma -, non parlo delle libertà civili che sono garantite in questo paese, dalle leggi che vanno rispettate, ma quella libertà di immaginazione che mi obbliga a rifiutare il ‘devo’ (o il ‘non posso’), lo scrupolo morale che è mortale per l’artista, paralizza la fantasia, il devo o non devo per non tradire l’idea (‘i compagni’, si diceva una volta), per non essere giudicato come un reazionario, un venduto, o un pazzo… è necessaria a un artista questa libertà, per esempio, di immaginare Aldo Moro che passeggia libero all’alba in una via di Roma… (in ‘Buongiorno, Notte’ ndr.) massimo falso storico che la sinistra più che la destra mi ha puntualmente rimproverato…”
“Si può lavorare oggi con poco – ha concluso -, ed è una gran fortuna, ma senza quella libertà i giovani imiteranno sempre le grandi commedie, o i drammi – o le farse – dei padri. Perciò questo premio alla carriera non è una celebrazione, o un risarcimento per non so che cosa, né una riconciliazione istituzionale, ma semplicemente il riconoscimento di una coerenza che in tutti questi anni ho cercato sempre di difendere, di una libertà che va sempre riconquistata”.
Anche nella giornata di oggi al Lido è stato assegnato il Premio Pietro Bianchi 2011 alla sempre affascinante Virna Lisi, biondissima e bellissima diva anche a Hollywood negli anni Sessanta. Un’attrice e una donna che ancora oggi non ha rinunciato al suo lavoro né all’età.
José de Arcangelo

giovedì 8 settembre 2011

"L'ultimo terrestre" italiano in concorso alla 68a. Mostra di Venezia tra l'americano William Friedkin e il russo Aleksandr Sokurov

Conto alla rovescia per il festival e al nono giorno sono stati presentati altri tre film in concorso: il terzo italiano in gara, “L'ultimo terrestre” di Gian Alfonso Pacinotti, “Killer Joe” di William Friedkin e “Faust” di Aleksander Sokurov. Alle ore 16.30 la Cerimonia di premiazione della sezione Controcampo Italiano che ha visto trionfare “Scialla!” di Francesco Bruni e il documentario “Pugni chiusi” di Fiorella Infascelli. Nella sezione Orizzonti presentate due interessanti opere orientali, il tailandese “Tae Peang Phu Deaw (P-047)” di Kongdej Jaturanrasmee e il giapponese “Kotoko” di Shinya Tsukamoto.
Accolto bene il debutto del fumettista pisano Gipi, perché se la sua opera prima – giovane e divertente - non è perfetta
(ma quale lo è), non è caduto nel tranello della ricerca visiva ad ogni costo ed effetto, nonostante l’ispirazione alla graphic novel di Giacomo Monti “Nessuno mi farà male”. Quindi, senza presunzione Pacinotti ha messo grande attenzione al ritratto del protagonista, ai personaggi di contorno, alle situazioni, e soprattutto alla narrazione e al linguaggio cinematografico che se, a tratti, coincidi non è certo lo stesso delle pagine illustrate (statiche).
La storia si svolge durante l’ultima settimana prima dell’arrivo di una civiltà extraterrestre sulla Terra. Un arrivo annunciato dai governi. Una notizia in seconda serata, che non ha entusiasmato nessuno, soprattutto in Italia. Infatti, gli alieni trovano un paese stanco e disilluso, in una crisi economica conclamata e gravissima. Le reazioni delle persone alla venuta degli extraterrestri vanno da quella razzista a strampalate interpretazioni mistico-religiose. Ma il film non racconta la vicenda di un popolo; segue invece la vita di Luca Bertacci (bravo l’esordiente Gabriele Spinelli, amico e collaboratore del regista), un uomo con enormi problemi di relazione, un uomo che, abbandonato dalla madre quando era piccolo, è cresciuto nell’odio per le donne. Nella diffidenza e, soprattutto, nell’incapacità di provare sentimenti. Ma l’arrivo degli extraterrestri cambierà tutto. Difficile, alla fine, non pensare che questi alieni con il loro arrivo tanto simile a un “giudizio universale“ siano venuti sulla Terra solo per lui. Come un regalo.
“Ho sempre pensato che per raccontare la realtà in modo fedele la si dovesse tradire profondamente – afferma ‘Gipi’. Sono pure convinto che sia quasi inutile tentare di descrivere la contemporaneità raccontando la contemporaneità, visto che i tempi di mutazione sono talmente rapidi che qualunque ‘oggi’ diviene ‘ieri’ nel tempo necessario a scriverne la parola. Per ovviare a questa trappola la nostra storia è ambientata nel futuro. Solo qualche anno in avanti. Diciamo tre. Non di più. Un’Italia dopo l’Italia, insomma, che ci permetta di giocare a immaginare la deriva estrema che una condizione sociale potrebbe raggiungere. Questo è l’intento”.
Ecco la storia nerissima del noir contemporaneo firmato da Friedkin, un thriller dell’anima - pervaso da feroce e corrosiva ironia - in un mondo dove genitori e figli non possono che essere nemici. Quando scopre che la madre ha rubato la sua scorta di droga, Chris (Emily Hirsch, di “Into the Wild”), spacciatore di 22 anni, deve racimolare seimila dollari in fretta, o sarà un uomo morto. Disperato, va a trovare suo padre Ansel e gli espone il suo piano: eliminare la madre, odiata da tutti, e riscuotere l’assicurazione sulla vita che coprirebbe il suo debito e li farebbe entrambi ricchi. Il problema è che la madre di Chris è fin troppo viva. Allora entra in scena il poliziotto “Killer” Joe Cooper (Matthew McConaughey), un assassino prezzolato con maniere da gentiluomo del Sud, disponibile a risolvere la faccenda, ma solo dietro pagamento anticipato di una somma che padre e figlio non hanno. Sul punto di piantarli in asso, Joe nota Dottie (Juno Temple), l’innocente sorellina di Chris, e fa un’offerta al ragazzo: terrà con sé Dottie come caparra sessuale finché non avranno ottenuto e pagato il compenso. Seppur riluttante, Chris antepone il debito alla sorella, e acconsente alla richiesta; ma col passare dei giorni, osservando Joe insieme a Dottie, si pente e chiede al killer di annullare tutto, ma è troppo tardi: il lavoro è già fatto. Convinto di essere in dirittura d’arrivo, partecipa trepidante a una seduta dall’avvocato, ma scopre che il beneficiario unico della polizza non è Dottie, ma il compagno della madre e capisce di essere stato fregato. Quando Joe viene a riscuotere e scopre che i soldi non ci sono, usa la sua abilità di investigatore per arrivare fino in fondo, e tutti pagano il prezzo dovuto.
“E’ un po’ come la storia di Cenerentola – dichiara Friedkin -, ma il Principe azzurro è un killer a pagamento, ed è anche sceriffo del dipartimento di polizia di Dallas. Anche se il titolo e l’intreccio fanno pensare a risvolti sinistri, trovo che il film sia molto divertente”.
“C'è poco da dire, vedo il mondo esattamente come lo vede lui – aggiunge l’autore de “L’esorcista” a proposito del rapporto con Tracy Letts, sceneggiatore e drammaturgo premio Pulitzer per la pièce da cui il film è tratto - e non in termini critici, ma nel senso che ritroviamo le stesse cose nella natura umana, cose che troviamo molto divertenti e che vengono raccontate con un certo umorismo nero. Ma è un umorismo che è già nel testo originale, ammetto che non si tratta di una comicità alla Benigni o alla fratelli Marx. Si ride come quando si ascolta un politico americano che fa un discorso. Sappiamo tutti che i politici non comunicano con la verità. I personaggi del film non sono per forza onesti con il mondo, ma noi vediamo veramente come sono fatti”.
Il Faust del russo Sokurov non è un adattamento tradizionale della tragedia di Goethe, ma una (ri) lettura di ciò che rimane tra le righe. Che colore ha un mondo che produce idee colossali? Che odore ha? C’è un’aria pesante nel mondo di Faust: progetti sconvolgenti nascono nello spazio angusto dove si affaccenda. È un pensatore, un veicolo di idee, un trasmettitore di parole, un cospiratore, un sognatore. Un uomo anonimo guidato da istinti semplici: fame, avidità, lussuria. Una creatura infelice, perseguitata che lancia una sfida al ‘Faust’ di Goethe. Perché rimanere nel presente se si può andare oltre? Spingersi sempre più in là, senza notare che il tempo si è fermato. E passeremo anche noi.
“Faust è l’ultima parte di una tetralogia cinematografica sulla natura del potere – confessa il regista -. I personaggi principali dei primi tre film erano tutti figure storiche reali: Adolf Hitler (‘Moloch’, 1999), Vladimir Lenin (‘Toro’, 2000) e l’Imperatore Hirohito (‘Il Sole’, 2005). L’immagine simbolica di Faust completa questa serie di grandi giocatori d’azzardo che hanno perso le più importanti scommesse della loro vita. Faust sembra non appartenere a questa galleria di ritratti, un personaggio letterario quasi da museo incorniciato in una trama semplice. Che cos’ha in comune con queste figure reali che sono ascese all’apice del potere? Un amore per parole cui è facile credere e una patologica infelicità nella vita quotidiana. Il Male è riproducibile, e Goethe ne ha formulato l’essenza: ‘Gli infelici sono pericolosi’”.
Il tailandese “Tae Peang Phu Deaw” narra di Lek, un fabbro solitario che non ha mai avuto una fidanzata. Kong è un aspirante scrittore che vive con la madre. I due sconosciuti lavorano fianco a fianco in un centro commerciale: uno fa copie di chiavi; l'altro vende riviste rosa. Insieme, i due architettano un piano che combina i rispettivi talenti. Durante il giorno, si intrufolano in appartamenti vuoti, mentre i proprietari sono al lavoro. Non rubano nulla, prendono solo in prestito. Prendono in prestito le vite, gli amori, le cose che appartengono a degli sconosciuti. Un giorno, si ritrovano a prendere più di quanto avessero chiesto. Tutti hanno dei segreti e taluni non possono essere svelati. In seguito a ciò, Lek si risveglia in ospedale. Con suo grande sgomento, tutti lì lo chiamano Kong. Si rimette dalle ferite e ogni pomeriggio sale sul tetto dell'edificio per fumare. Lassù incontra Oy, una giovane ricoverata che adora sniffare contenitori vuoti – bottiglie, barattoli, lattine, qualunque cosa che la riconduca al passato. I due stringono un'insolita amicizia. Ma dov'è finito il suo amico?
“Se l'immaginazione può diventare memoria – si chiede il regista - e la fantasia può diventare verità... Se i fatti possono diventare finzione... se delle vite possono essere prese in prestito e copiate come pagine di un libro... allora che cosa rimane di chi siamo veramente?” Probabilmente, un suggestivo mix come nel film, un puzzle di tante fatti e situazioni vissute e/o rubate.
“Kotoko” è invece la storia di una madre che soffre di visione doppia. Vede le persone divise in due… una negativa e una positiva. Questo disturbo le provoca un forte senso di disagio e prendersi cura del piccolo diventa un compito estenuante che la porterà all’esaurimento nervoso. Quando la situazione le sfugge di mano, è accusata di abusi sul bambino che di conseguenza le viene tolto. Mentre canta, però, non vede doppio. Quello è l’unico momento in cui il mondo torna a essere uno e la sua mente trova la pace. Conosce un uomo, incantato dalla sua voce, ma la storia tra i due finisce presto, e nel frattempo ottiene di nuovo la custodia del bambino, ma le sue “visioni doppie“ diventano più intense…
“Cocco è una cantautrice per la quale provo immenso rispetto – confessa il regista. Canta con una passione che scaturisce direttamente dall’anima: intensa e allo stesso tempo molto dolce. La sua voce mi commuove profondamente e totalmente. È da un po’ di tempo che speravo di fare un film con lei. Il sogno si è avverato poco dopo la morte di mia madre, che avevo accudito per 7 anni. Proprio in quel periodo Cocco mi ha dato l’opportunità di lavorare insieme a lei al mio nuovo film! Prima di iniziare le riprese, ho fatto qualche ricerca sul suo repertorio. Attraverso le sue canzoni, gli scritti e le nostre conversazioni, sono entrato direttamente nel suo mondo interiore. In questo modo ho elaborato il tema che volevo approfondire e rappresentare con il mio film… un mondo sempre meno sicuro per via di una violenza dilagante che può arrivare a portarci via all’improvviso e tragicamente la vita di una persona cara. Qualunque madre si preoccuperebbe, diventando perfino paranoica, nel crescere i propri figli in un mondo così. La maternità è il tema che ho voluto ritrarre nel mio nuovo film. Tutte le madri del mondo sono state bambine. Kotoko, che Cocco interpreta brillantemente, non è una donna diversa dalle altre. Potrebbe essere tua madre o magari anche tu stessa. Vivere nel mondo di oggi non è facile. È una lunga serie di sfide che richiede battaglie e sforzi infiniti per navigare lungo il fiume della vita con successo. Le canzoni di Cocco me lo ricordano di continuo”.
Nel Controcampo Italiano presentato “Piazza Garibaldi” di David Ferrario che è un toponimo che si incontra in qualsiasi città italiana (ma anche in Sudamerica). E’ la metafora della nazione e della sua storia. Come nel fortunato e premiato ‘La strada di Levi’, Ferrario si mette in viaggio: stavolta sulle orme della spedizione dei Mille. L’obiettivo: verificare il rapporto tra passato e presente, partendo da Bergamo, una volta ‘Città dei Mille’ e oggi roccaforte padana, per arrivare fino a Teano. Il viaggio è pieno di sorprese, incontri, riflessioni: un grande road movie attraverso la storia e la geografia del paese, cercando di rispondere a una domanda assillante: perché noi italiani non riusciamo più a immaginarci un futuro?
“La scadenza del 2011 era inevitabile - afferma l’autore. Il centocinquantenario dell’Unità d’Italia mette in corto circuito, per quelli della mia generazione, un principio e una (provvisoria) fine: 50 anni fa, al tempo del Centenario, eravamo bambini proiettati verso un futuro pieno di promesse; oggi siamo uomini fatti, in un mondo pieno di dubbi e di domande. Quale modo migliore per rispondere a queste domande che quello di mettersi in viaggio alla ricerca della nostra identità di italiani? Un viaggio non arbitrario, ma storico e simbolico: quello della spedizione dei Mille, il mito da cui tutto è partito. Per provare a capire come il senso di quella parola che tanto odiavamo – ‘patria’ – è cambiato; e perché”.
Deludente “Tutta colpa della musica” di Ricky Tognazzi – sceneggiato con la moglie Simona Izzo e Leonardo Marini -, a riconferma che il regista si trova meglio alle prese con storie drammatiche, anche legate all’attualità. E’ la storia di un “secondo amore“. Il cinquantenne Giuseppe (Marco Messeri) è sposato, ha una figlia, ma non si può certo dire felice. Grazia (Monica Scattini), la moglie, presa dal suo radicalismo religioso (è una fervente testimone di Geova), da anni ha con lui un rapporto di fredda indifferenza e anche Chiara (la cantante Arisa al debutto sullo schermo), la figlia, che ha seguito la madre nella sua infatuazione religiosa, non si può dire che abbia poi questo gran dialogo con lui. Napoleone (Tognazzi stesso), bonario Peter Pan sposato con Patrizia (Elena Sofia Ricci), l’amico di tutta una vita, lo convince a darsi una scrollata e a provare a “vivere“, cioè ad andare con lui a cantare nel coro della città, una sala in una chiesa sconsacrata, dove i “ragazzi“ della loro generazione possono ancora divertirsi liberamente e provare a “rimorchiare“. Giuseppe si fa travolgere dalla nuova vita e si innamora di Elisa (Stefania Sandrelli), una bellissima donna di mezza età conosciuta al coro. Elisa, pur non volendo staccarsi dalla propria famiglia, non potrà fare a meno di vivere con Giuseppe una vera e propria storia d’amore…
“Siamo al fatale adagio degli amori senili – dichiara Tognazzi -, o magari no, facciamo ‘mezza età inoltrata’, s’il vous plaît. Però, anche a voler giocare d’astuzia col rapporto fra le parole e le cose, la sostanza resta quella: le chiome incanutiscono o nel peggiore dei casi si volatilizzano, la pelle – forse stanca degli anni di splendore – comincia a rilassarsi e perdere il suo tono, i muscoli acquistano consistenze da latticino, le pance dilagano, le ossa si decalcificano (ma come si permettono?)… e tutto in barba a ogni infaticabile e coraggioso sforzo di tenere in piedi la baracca. Il corpo, diventando un beffardo e maligno aguzzino, suggerisce che è meglio fermarsi un po’ e mettersi alla finestra a guardare. Ma fosse solo questo… Il fatto è che qui si consuma la più assurda e maledetta delle schizofrenie: il corpo va per la sua strada, e invece il cuore…”
E domani è già il penultimo giorno e arrivano altri premi collaterali e i primi addii.
José de Arcangelo

mercoledì 7 settembre 2011

Ferrara, Comencini e l'israeliano Kolirin nel concorso veneziano. Ma sconvolge 'l'Italia mai vista' del documentario "Black Block" di C.A.Bachschmidt

Ottavo giorno alla 68a. Mostra veneziana con l’israeliano “Hahithalfut” (The Exchange) di Eran Kolirin, l’italiano “Quando la notte” di Cristina Comencini – che ha deluso le aspettative dei più, soprattutto della critica italiana e internazionale - e l’ultima fatica dell’americano Abel Ferrara “4:44 Last Day on Earth”, tutti in concorso. “Maternity Blues” di Fabrizio Cattani e il documentario “Black Block” di Carlo A. Bachschmidt in Controcampo Italiano. Mentre “Eva” di Kike Maillo e “Rabitto horaa” di Takashi Shimizu, sono passati fuori concorso.
Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato, a un’ora in cui la luce la illumina da un angol
o diverso e in cui il ronzio del frigorifero è l’unico suono che si riesca a sentire.
Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato e per un istante gli sembra di essere entrato nella casa di uno sconosciuto, vuota e silenziosa in una desolata ora pomeridiana.
Un uomo torna a casa e all’improvviso si accorge di cose favolose e dimenticate. Particelle di polvere che vorticano nell’aria in un bianco raggio di luce. Una vecchia etichetta del prezzo incollata sotto il tavolo.
Un uomo torna a casa come un turista e oserva per la prima volta gli oggetti di cui si compone la sua vita. Il parcheggio, le scale, le cassette della posta piene di lettere. Un uomo torna a casa ed entra nella propria vita in un momento in cui non si è mai trovato, osservandola con gli occhi del bambino che era. E ancora una volta la trova colma di mistero e di magici nascondigli. I corridoi, i viottoli, le sale delle caldaie. Un uomo si trova ad assistere alla propria vita dall’esterno. Ma questa vita è davvero la sua?
Un dramma metaforico e volutamente grottesco che parte dal classico “se” per analizzare l’esistenza di un uomo in particolare, ma che potrebbe essere quella di noi tutti. Infatti parla di quelle cose e di quelli oggetti che crediamo di vedere ogni giorno ma che sono entrati nella nostra vita e memorizzate dal nostro cervello ma che in realtà non vediamo più perché abbiamo la sicurezza che si trovano sempre lì. Anche quando non ci siamo.
“Hahithalfut non è un film su molte cose quanto sulle cose stesse – afferma il regista -. I tavoli, le porte, le stanze, le sedie: tutti gli strani oggetti di cui si compone la nostra vita. ‘Strane’ non nel senso che stanno in agguato nell’ombra, o di una stranezza crepuscolare: strane di quella stranezza che è propria degli oggetti situati in piena luce. Il senso di mistero proprio della realtà delle cose, della realtà della vita”.
La Comencini, invece, ha tratto il film dal suo stesso romanzo, ma non è riuscita a farne un film coerente e coinvolgente fino alla fine, tra fatti e situazioni inverosimili e temi – come quello della maternità – non approfonditi come meritavano. Inoltre il viavai tra flashback e flashforward non è equilibrato al punto giusto.
Tra le montagne un uomo e una donna s’incontrano. Manfred (un Filippo Timi sottotono) è una guida alpina, chiuso e sprezzante, abbandonato (in passato dalla madre) da moglie e figli; Marina (Claudia Pandolfi) una giovane madre in vacanza col suo bambino. Una notte qualcosa succede nell’appartamento di lei e Manfred interviene, portando il bambino ferito in ospedale. Da quel momento l’uomo si metterà sulle tracce di una verità inconfessabile che Marina ha nascosto a tutti, anche al marito, mentre lei intuirà il segreto familiare all’origine dell’odio di Manfred verso tutte le donne. Con una rabbia e un desiderio mai provati prima, i due scopriranno la radice di un legame potente che non riusciranno a controllare né a vivere. Anni dopo quella vacanza, Marina, d’inverno, tornerà al rifugio alla ricerca di Manfred.
“C’è un’immagine in ‘Quando la notte’ in cui due funivie – dichiara l’autrice -, che provengono da direzioni opposte, per un attimo si incrociano in alto, sospese. Ecco, quell’immagine racchiude la storia tra Manfred e Marina: un uomo e una donna, che vengono da storie completamente diverse, si incontrano e si riconoscono per un istante come esseri umani. Il loro rapporto è un duello costante, frenato ed esaltato al tempo stesso dalla presenza di un bambino, in cui l’uomo si riconosce e a cui la donna cerca disperatamente di fare da madre senza riuscirci. Da quel nucleo primario, difficile da superare come la montagna grande e dura che li circonda, nasce un legame unico. Si desiderano come diversi, si conoscono fino in fondo per poco, ma si salvano la vita per sempre”.
Anche Ferrara parte da un “se” il mondo dovesse finire cosa faresti nell’ultimo giorno rimasto da vivere? In un grande appartamento in cima alla città abita una coppia. Si amano. Lei è pittrice, lui un attore di successo. E’ un pomeriggio come tanti – eccetto che non è affatto un pomeriggio come tanti, né per loro né per chiunque altro. Perché l’indomani, alle 4.44 di mattina, secondo più, secondo meno, il mondo finirà più velocemente di quanto il peggior catastrofista avrebbe potuto immaginare. Arriverà lo sfacelo finale, non senza preavvisi, ma senza vie d’uscita. Non ci saranno sopravvissuti. Come sempre, c’è chi accendendosi l’ultima sigaretta e stringendosi i paraocchi spererà in un qualche rinvio. Un miracolo. Non i nostri due amanti. Loro – come la maggioranza della popolazione della Terra – hanno accettato il loro destino; il mondo sta per finire. Punto.
E, infatti, se il film ricorda all’inizio “Last Day” del canadese Don McKellar, subito dopo diventa il ritratto di una coppia che ha deciso di passare le ultime ore nel modo più normale possibile, insieme e vicini. Un Ferrara – dopo la breve parentesi documentarista – tornato alla fiction intimista, forse moralista, sicuramente ecologista, riflessivo e spiritualista.
“Vorrei citare un brano tratto dal nostro film – dice infatti - in cui il Dalai Lama pronuncia un discorso sull’uomo e sulla natura nel suo modo inimitabile: ‘Noi esseri umani siamo quasi come il creatore o il controllore del mondo; per mezzo di tecnologia, per mezzo di scienza possiamo fare tutto, qualsiasi cosa... non comandiamo la natura. Penso che noi esseri umani crediamo di essere qualcosa al di sopra di natura. Penso che è sbagliato. Dopo tutto, siamo parte della natura, e cosi è molto chiaro, vedete, abbiamo la responsabilità di prenderci cura dell’ambiente, della natura perché alla fine siamo parte della natura e del suo equilibrio, e di conseguenza possiamo cambiarlo in modo drammatico…’ Ciò che ho imparato è parola per parola, frammentato, attraverso lingue diverse, più o meno sgrammaticato, più o meno fuori contesto, ecc.; quando il messaggero è puro, il messaggio la vince”.
L’italiano “Maternity Blues” è un dramma al femminile che ruota intorno alla maternità. Quattro donne diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio. All’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario, trascorrono il loro tempo espiando una condanna che è soprattutto interiore: il senso di colpa per un gesto che ha vanificato le loro esistenze. Dalla convivenza forzata, che a sua volta genera la sofferenza di leggere la propria colpa in quella dell’altra, germogliano amicizie, confessioni spezzate, un conforto mai pienamente consolatorio ma che fa apparire queste donne come colpevoli innocenti. Clara, combattuta nell’accettare il perdono del marito, che si è ricostruito una vita in Toscana, sconta gli effetti di un’esistenza basata su un’apparente normalità. Eloisa, passionale e diretta, persiste ogni volta nel polemizzare con le altre: un cinismo solo di facciata. Rina, ragazza-madre, ha affogato la figlia nella vasca da bagno in una sorta di eutanasia. Vincenza, nonostante la fede religiosa, sarà l’unica a compiere un atto definitivo contro se stessa. Ha ancora due figli, fuori, e per loro riempie pagine di lettere che non spedirà mai.
“Maternity Blues ha il nome dolce di una musica lontana – afferma Cattani -, invece è una sindrome assassina, una depressione post partum che porta una madre a uccidere il proprio figlio. Il testo teatrale ‘From Medea’ di Grazia Verasani, da cui è tratta la sceneggiatura, nasce non solo come riflessione sull’istinto materno ma anche come accusa contro una società che ha sempre bisogno di creare mostri e giudicare un malessere che non andrebbe liquidato con leggerezza. Nel film non c’è traccia di giudizio nei confronti delle protagoniste, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C’è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dall’ospedale psichiatrico giudiziario dove stanno scontando la loro pena e contemporaneamente cercando di ‘curarsi’ con il supporto di psichiatri”.
“Black Block” racconta una storia allucinante del nostro recente passato che ci fa pensare (come ai protagonisti) di essere catapultati in una delle terribili dittature militari sudamericane degli anni ’70’80, perché ogni libertà è stata negata e ogni diritto violato, senza senso né giustificazione possibile. Un documentario per non dimenticare, anzi per ricordare, e non sottovalutare mai il peso del politico (potere) sul sociale (il popolo universale). Attraverso Lena e Niels (Amburgo), Chabi (Zaragoza), Mina (Parigi), Dan (Londra), Michael (Nizza) e Muli (Berlino) la tragedia del G8, per restituire una testimonianza di chi ha vissuto in prima persona le violenze del blitz alla scuola Diaz e le torture alla Caserma di Bolzaneto a Genova nel 2001. Nel racconto corale dei protagonisti emerge la storia di Muli. Muli ripercorre i motivi per i quali ha deciso di impegnarsi nella politica, fino alla sua partecipazione alle giornate di Genova 2001, le violenze subite e la scelta di ritornare a Genova per testimoniare ai processi. E’ tornato affrontando il trauma subìto per trasformarlo in un’occasione con la quale trovare un riscatto morale. Attraverso la sua esperienza matura un nuovo percorso politico, riacquista la voglia di confrontarsi e lo stare insieme, e soprattutto riscopre un’altra Genova. “Dentro quella scuola non ce l’hanno fatta“. La sua vita è cambiata, ma i suoi ideali sono rimasti gli stessi di allora.
“Nel 2001 a Genova la politica ha di fatto delegato alle Forze dell’Ordine – dice Bachschmidt - il compito di fermare un movimento sociale che stava esplodendo in tutto il mondo. ‘Black Block’ nasce dall’intenzione di raccontare come la repressione abbia controllato le vite, i desideri e le passioni di coloro che hanno vissuto in prima persona la storia di questi ultimi dieci anni, dalla nascita del movimento (Seattle) alla sua massima partecipazione (Genova). Ho voluto ripercorrere la vita del movimento attraverso 7 interviste ad alcune parti lese costituitesi al processo, che hanno vissuto l’episodio più violento mai attuato dalla polizia italiana, il blitz al complesso scolastico Diaz”.
Il documentario, prodotto da Domenico Procacci, uscirà il 15 settembre in cofanetto (libro + dvd) per Fandango Libri.
Un riuscito e suggestivo mix di dramma introspettivo e fantascienza possibile nell’opera prima “Eva” del catalano Kike Maillo. Dove sentimenti e cibernetica si intrecciano per offrire a questo nostro mondo la possibilità di un futuro in cui uomini e macchine possano convivere senza necessariamente fondersi. Alex, rinomato ingegnere cibernetico, torna a Santa Irene per portare a termine una missione molto particolare per la Facoltà di Robotica: creare un robot bambino. Nei dieci anni in cui è stato lontano, il fratello David e Lana sono andati avanti con le loro vite. Il destino vuole che la routine di Alex venga movimentata dalla nipote Eva, una bambina molto speciale e carismatica. Fin dal primo incontro, tra Eva e Alex nasce un legame speciale. E insieme affronteranno un viaggio che li condurrà a una rivelazione finale.
“Tutto risale a quando ero piccolo – dichiara l’autore. Dovevo avere circa undici anni. Dopo un episodio di Dr. Who, popolato dai dalek, ho iniziato a fantasticare di girare un film ‘sul futuro’. Costruivo robot con le scatole da scarpe e delle uova, poi li facevo muovere con il filo da cucito. Naturalmente ciò accadeva molto prima che mi rendessi conto che i film devono raccontare delle storie, per lo più storie di esseri umani. E che raramente hanno successo quando si basano soltanto sulle convenzioni di un unico genere, come in questo caso la fantascienza. Eva è senza dubbio un film dal taglio malinconico, forse perché parla di un ritorno, o magari perché descrive un futuro che ricorda il passato (soprattutto gli anni ’70 ndr.), oppure ancora perché sono io che mi rifiuto, per ragioni nostalgiche, di lasciare la mano di quel ragazzino che sognava di girare film sui robot”.
Anche “Rabitto Horaa 3D” (Tormented) è la storia di un bambino, la cui famiglia si sta sgretolando. Intorno a lui la situazione peggiora quando il protagonista mostra un attaccamento crescente e una dipendenza quasi morbosa per un coniglietto di pezza che prende vita. E’ forse matto? E la sorella sarà viva o morta? E quel libro di fiabe raffigura davvero il padre che sta impazzendo o sono tutti vittime di allucinazioni? Ancora una volta il regista giapponese Shimizu si addentra – magistralmente - nei terrificanti anfratti della mente umana. E usa, forse, per la prima volta l’effetto stereoscopico come mezzo di espressione e non solo come ‘effetto’. Il film segna la sua prima collaborazione con il premiato direttore della fotografia Christopher Doyle, che ha già lavorato con molti altri celebri registi asiatici.
“Generalmente preferiamo ricordare solo i bei momenti trascorsi con le persone che amiamo. Ma che succederebbe se tutto d’un tratto quei meravigliosi ricordi si trasformassero in qualcosa di totalmente diverso? Il film racconta da una parte la storia dell’orrore che si materializza in uno strano coniglio, e dall’altra quella dei legami di famiglia che si incrinano man mano che le anime dei due fratelli si perdono nei loro oscuri mondi ‘personali’. Ne derivano alcune domande senza risposta: cosa lega il coniglio al loro terribile passato? Perché l’animale tenta continuamente di rapire il bambino? E infine, quando e come la sorella ha perso l’uso della voce? Il fatto di condividere lo stesso mondo non significa necessariamente che si debbano vedere e provare le stesse cose. Siamo sicuri che la persona seduta al nostro fianco sia davvero quella che crediamo? E siamo proprio sicuri che ci stia rivelando i suoi veri sentimenti?”
José de Arcangelo

martedì 6 settembre 2011

Storie cupe e disperate, fra amore e morte, in gara a Venezia 68. Il 'ritorno' di Ermanno Olmi fuori concorso con "Il villaggio di cartone"

Nel settimo giorno della 68a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sono stati presentati: “Wuthering Heights”, ovvero l’ennesima versione di “Cime Tempestose” firmata Andrea Arnold e “Himizu” di Sono Sion, in concorso. Il film sorpresa si è rivelato “Ren shan ren hai” di Cai Shangjun. Mentre la nuova fatica del maestro Ermanno Olmi “Il villaggio di cartone” e “The Moth Diaries” di Mary Harron, sono passati fuori concorso. “Qualche nuvola” di Saverio Di Biagio e “Pasta nera” di Alessandro Piva nel Controcampo Italiano. Ma proseguono anche le variegate e interessanti proiezioni della sezione Orizzonti.
Tratto dall’unico romanzo di Emily Brontë, “Wuthering Heights” è lo spettrale racconto di un amore appassionato e contrastato, rivalità tra fratelli e vendette. Un contadino dello Yorkshire in visita a Liverpool incontra per la strada Heathcliff, un ragazzo di colore (anziché lo ‘zingarello’ dell’originale) senzatetto. Decide di accoglierlo in famiglia, portandolo con sé tra le sperdute colline, dove il ragazzo instaura una relazione ossessiva con Catherine, la figlia del contadino. Mentre i ragazzi crescono, i familiari e i vicini rimangono invischiati negli spietati giochi di famiglia, alimentati da orgoglio e presunzione. Ovviamente la giovane regista rivisita un dramma d’epoca, che affronta comunque temi ancora attuali, come il razzismo e la dipendenza, ed eterni, come la gelosia, l’odio verso l’altro, l’amore e la famiglia. E’ ambientato nelle aspre campagne dello Yorkshire, che di questa storia crudele e appassionata sono lo sfondo ideale e al tempo stesso uno dei protagonisti. Però ambiente e atmosfere prendono il sopravvento sulla storia di un amore disperato ed estremo, togliendo forza al racconto.
“Il romanzo di Emily Brontë – dichiara la regista del duro e crudo “Fish Tank” - è pieno di violenza, morte e crudeltà. Conviverci durante gli ultimi diciotto mesi è stato duro. Le brughiere, gli uccelli, le falene, i cani e il cielo mi hanno aiutata molto. Ma è stato doloroso, e forse non mi riappacificherò mai con questa storia. Non so nemmeno se sia giusto che ciò succeda. Per nessuno di noi”.
Tratto dal cupo manga (alleggerito dallo stesso regista dopo lo tsunami - che fa da sfondo - e, quindi, offre uno spiraglio di speranza nel finale) di Minoru Furuyacco, ecco cosa racconta “Himizu”: l’unico desiderio del quattordicenne Yuichi Sumida è diventare un uomo comune. Senza nutrire sogni ambiziosi e sperando solo di vivere senza dare fastidio a nessuno, conduce un’esistenza tranquilla nel noleggio di barche della sua famiglia assieme alla madre, che lo trascura. La sua compagna di classe Keiko Chazawa ha invece l’unico desiderio di trascorrere la vita con una persona amata, ha una cotta tremenda per lui e trova la felicità nell’averlo conosciuto nonostante lui la consideri solo un fastidio. Il padre di Sumida torna a casa solo quando è ubriaco e ha bisogno di soldi, e ogni volta sottopone il figlio a violenze fisiche e verbali. Sua madre peggiora la situazione fuggendo con l’amante e lasciandolo da solo. Chazawa cerca disperatamente di risollevare l’umore di Sumida, che ormai sta rinunciando a vivere, e in qualche modo sembra che la situazione si rassereni... Ma una sera il padre ubriacone si ripresenta dal ragazzo, lo maledice per essere nato e come sempre si augura che muoia. Il figlio non riesce più a trattenere la rabbia e la tristezza e, d’impulso, lo uccide. Rendendosi conto di non avere più possibilità di diventare la persona che ha sempre desiderato essere, il giovane sviluppa l’ossessione di prendere misure contro i membri della società potenzialmente più malvagi di lui ed è gradualmente assorbito da un mondo di follia e disperazione. E Chazawa cerca di riportarlo al suo normale stato mentale...
“Sono onorato che il mio film sia stato selezionato alla Mostra di Venezia – confessa il regista. Prima dell’inizio della produzione si sono verificati il terremoto e gli incidenti alle centrali nucleari e ho dovuto cambiare la sceneggiatura che stavo scrivendo proprio in quel periodo. Mi sono sentito in dovere di riprodurre in qualche modo questa realtà nel film. Per me è stata un’esperienza molto intensa e dura dirigere un film e collegarlo al mondo reale che avevo sotto gli occhi in quel momento. Questa è la storia di un ragazzo e di una ragazza che si confrontano con la loro orrenda realtà”.
“Ren shan ren hai” narra la vicenda di Lao Tie che sente in cuor suo di dover trovare chi gli ha ucciso il fratello minore, nonostante i problemi che lo assillano. Dopo anni di lavoro in città è tornato senza un soldo alla sua sperduta comunità di montagna. Sebbene la polizia abbia accertato che l’assassino è l’ex carcerato Xiao Qiang del villaggio vicino, non è riuscita a evitarne la fuga. Lao Tie decide allora di dargli la caccia, intraprendendo un viaggio che darà sfogo alla sue rabbia e sofferenza interiori, a lungo represse.
“Il titolo è un’espressione cinese che significa ‘mare di gente’ – dice l’autore -; ricalcata rigidamente in italiano suonerebbe press’a poco come ‘gente monte gente mare’. Ed è proprio la rigidità del calco che rende l’espressione selvaggia, piena di vita, dotata di una forza invisibile. La forza di un mare di persone che cerca di sopravvivere. ‘Gente monte gente mare’: i rumori assordanti del mondo reale. In ‘Ren Shan Ren Hai’, un uomo ostinato ne sta braccando un altro. Quando l’obiettivo è ormai vicino, sospeso tra il prezzo della perdita e l’opportunità di guadagno, qual è la scelta giusta? In un’epoca di rapidi cambiamenti, come ritrovare la serenità d’animo e il vero io? Basta un incidente insignificante per cambiare la direzione e il destino di un evento più grande”.
Il nuovo film di Olmi affronta il tema della religione come condivisione e dialogo. Come un mucchio di stracci buttato là, sui gradini dell’altare, c’è il vecchio Prete (Michel Lonsdale), per tanti anni parroco in quella chiesa che ora non serve più e viene dismessa. Gli operai staccano dalle pareti i quadri dei santi e gli oggetti sacri più preziosi. Un lungo braccio meccanico stacca il grande Crocefisso a grandezza d’uomo appeso alla cuspide per calarlo a terra come uno sconfitto. E’ inutile opporsi: nulla potrà fermare il corso degli eventi che l’incalzare delle nuove realtà impone alla storia. Tuttavia, di fronte allo scempio della sua chiesa, il Prete avverte l’insorgere di una percezione nuova che lo sostiene. Gli pare che solo ora quei muri messi a nudo rivelino una sacralità che prima non appariva. Da questo momento di sconforto avrà inizio una resurrezione in spirito nuovo della missione sacerdotale. Non più la chiesa delle cerimonie liturgiche, degli altari dorati, bensì la Casa di Dio dove trovano rifugio e conforto i miseri e i derelitti. Saranno costoro i veri ornamenti del Tempio di Dio. E pure la vita del vecchio Prete troverà nuove vie della carità, della fratellanza e persino del coraggio di compiere quegli atti d’amore che chiedono anche il sacrificio estremo, quale alto significato della consacrazione sacerdotale. Ha inizio un tempo in cui il mondo ha bisogno di uomini nuovi e giusti per smascherare l’ambiguità delle parole con l’oggettività degli atti.
“La narrazione non evidenzierà solamente il più appariscente – afferma il maestro -, e talvolta scontato, Problema Razziale ma soprattutto il dialogo tra religioni che, quando si liberano dal gravame delle chiese come rigide istituzioni che separano, allora rendono non solo possibile l’incontrarsi e il riconoscersi ma suscitano anche condivise solidarietà”. Quindi ancora un Olmi ‘semplice’ e ottimista che non ha perso la fiducia nella ‘religiosità’ (vera) dell’uomo.
In “The Moth Diaries”, Rebecca, una ragazza tormentata dal suicidio del padre, ha appena iniziato il primo anno di liceo in un collegio d’élite, sperando di voltar pagina. La sua amicizia con la solare e innocente Lucy va in frantumi sul nascere all’arrivo di Ernessa, una misteriosa e affascinante ragazza europea. Mano a mano che Ernessa accentra su di sé le attenzioni di Lucy, il corpo di quest’ultima, giovane e sano al principio, si fa sempre più pallido, debole ed emaciato, come se qualcosa le succhiasse la vita stessa. Sfumata l’amicizia con Lucy, Rebecca si infatua di Mr. Davies, il bel professore d’inglese, che tiene un corso sulla letteratura del soprannaturale. Ossessionata da Carmilla, il racconto di vampiri di Le Fanu, si insospettisce sempre più delle stravaganze di Ernessa e della consunzione di Lucy, e quando la scuola è sconvolta da morti misteriose, si convince che Ernessa sia un vampiro. Rebecca si trova isolata: le compagne l’accusano di essere gelosa e Mr. Davies tradisce la sua fiducia. Quando la misteriosa malattia di Lucy minaccia di diventare mortale, Rebecca rimane sola a lottare contro Ernessa per la vita dell’amica.
Un dramma metaforico, non privo di fascino, sul difficile percorso dell’adolescenza, fatta di terribili misteri e mostruose scoperte, fra bellezza e orrore, fra amore e odio.
“Qualche nuvola” di Saverio Di Biagio, presentato nel Controcampo Italiano, è una storia ambientata a Roma, quella che fa pensare ai palazzi antichi e pieni d’incanto. Ma dove vive Diego, i turisti non ci passano nemmeno per sbaglio. Lui è nato in uno di quei quartieri popolari ai margini della città, lavora in un cantiere edile, ha scelto i mattoni, ha scelto Cinzia perché sono cresciuti insieme, sullo stesso pianerottolo. Per Cinzia la strada da scegliere è una sola da quando è bambina: fare figli, sposarsi, accudire la casa. Questo passo, che potrebbe essere un fatto privato, non lo è in borgata dove si condivide tutto, anche la vita degli altri. Ma si presenta un fuoriprogramma: Viola, la nipote del capo, ha bisogno di restaurare la casa e Diego, viste le circostanze, non si tira indietro. Viola appartiene a un altro mondo, vive nel centro storico tra locali e vernissage, e la sua vita sembra lontana dalla borgata e dal cantiere. Ma basta un bacio e tutta quella distanza tra Viola e Diego si dissolve in un solo istante.:.
Secondo il regista “è una commedia sentimentale. Un gioco di racconti e bugie sulla crisi delle unioni e sul valore che viene loro attribuito. Ho pensato di riprendere i miei personaggi con un tocco agile per dar valore ai loro semplici sogni. Mi è sembrato che la via giusta passasse per sequenze sottili su dialoghi apparentemente semplici ma che svelano sempre di più di quello che dicono. Lo stile di ripresa contempla pochi primi piani per raccontare le emozioni e lunghi piani sequenza per confondersi col tempo reale. Per mantenere la fluidità delle scene contro i veloci passaggi di sceneggiatura è stato necessario un attento lavoro con gli attori (ancora Michele Alhaique, Greta Scarano, Elio Germano, Primo Reggiani, Giorgio Colangeli, Aylin Prandi ndr.) che ha reso spontanee le reazioni”.
Il documentario “Pasta nera” racconta il dopoguerra nei primi anni. 1947-1952. La guerra è finita e l’Italia è devastata, ma l’entusiasmo per la nascente democrazia attraversa il paese. Nel clima di collaborazione tra le forze antifasciste per la ricostruzione, migliaia di famiglie di lavoratori del centro-nord aprono le loro case ai bambini provenienti dalle zone più colpite e di più antica miseria del Meridione. L’iniziativa in poco tempo diventa un movimento nazionale, proponendo una concezione della solidarietà e dell’assistenza che trova le sue radici nei valori della Resistenza, indicando soluzioni concrete ai problemi più urgenti, supplendo talvolta all’assenza delle istituzioni. Sono le donne le protagoniste indiscusse dell’enorme macchina organizzativa: attraverso l’Unione Donne Italiane e i comitati organizzati in ogni città, riescono tra mille difficoltà a portare quei bambini, laceri e denutriti, in un contesto di dignità e di riscatto. I protagonisti di questa storia, ormai nonni, ricordano con i loro occhi di bambini questa esperienza inedita creando un cortocircuito emozionale tra infanzia e anzianità. Attraverso i loro racconti, i rari documenti filmati dell’archivio Luce e gli archivi fotografici privati, ‘Pasta nera’ dà corpo alla memoria storica di uno dei migliori esempi di solidarietà tra Nord e Sud del nostro paese. Da non dimenticare, anzi da ricordare.
“Questa è una storia ricostruita attraverso i tanti ricordi di un viaggio fatto da bambini – confessa Piva -, ma in fondo è un’unica grande storia di solidarietà italiana. Il tempo del racconto è scandito dai protagonisti ripresi nelle loro case, nei luoghi dell’infanzia tra i loro oggetti, le poche foto custodite gelosamente.
E poi la Storia, quella della ricostruzione. Archivi, cinegiornali e filmati storici contestualizzano il paese in clima postbellico: le città sventrate, la forza indomabile delle donne, la condizione infantile nelle grandi città, e poi la fame. Quella sì che si ricorda. Così come il colore di quella pasta, nera, che dopo anni di guerra sembrava la cosa più buona del mondo”.
Alle 22.00 è stato presentato presso La Pagoda (fronte Hotel des Bains), il film “Dietro il buio”, diretto da Giorgio Pressburger, tratto dall’opera teatrale “Lei dunque capirà” di Claudio Magris e interpretato da Sarah Maestri (“Notte prima degli esami”, “Il bandito e il campione”, “Terra ribelle”) e Gabriele Geri. La proiezione del lungometraggio, presentato nell’ambito dell’8a. edizione delle Giornate degli Autori - Venice Days, è stata preceduta, dalla presentazione da parte del cast, della produzione e dello stesso Magris, scrittore triestino, uno dei più notevoli saggisti italiani e geniale studioso di letteratura mitteleuropea, docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Trieste, vincitore del Premio Strega con il libro Microcosmi nel 1998 e più volte candidato al Nobel per la Letteratura.
“Dietro il buio” può vantare già un premio, il Roma Videoclip - Il cinema incontra la musica, giunto alla IXa edizione, che sarà consegnato al compositore Alessandro Carparelli, domani, alle ore 17.30 presso lo Spazio Cinecittà Luce all’Hotel Excelsior.
Racconta il viaggio di una giovane donna, Euridice (Sarah Maestri), attraverso una labirintica “Casa di Riposo” dalla quale il marito la vuole far uscire per riportarla alla vita normale. Il viaggio della donna, attraverso sotterranei, uffici, sterrati, anditi, pantani, campi, è accompagnato dal presidente della casa di riposo, il quale viene visto solo come un’ombra. Si scoprirà invece, a poco a poco, che si tratta di un viaggio nell’al di là, nel tentativo di uscire, grazie ad un permesso speciale, dal mondo dei morti, per tornare a quello dei vivi, accanto all’amato marito, scrittore di successo, che, ancora innamorato di lei, arriva nella “Casa” per riportarla alla vita.
Il film, a basso costo, è prodotto da Mattia Vecchi, Valeria Baldan e Giovanni Ziberna per la società di produzione cinematografica Sine Sole Cinema in collaborazione con il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona. La sceneggiatura è firmata da Paolo Magris (figlio di Claudio Magris) e dallo stesso regista e drammaturgo ungherese naturalizzato italiano, Pressburger, già autore di Calderon (Globo d’Oro 1982) , nonché ideatore e direttore artistico (dal 1991 al 2003) del Mittelfest di Cividale del Friuli, festival di danza, musica e teatro di diciassette nazioni dell'Europa centrale e dei Balcani. La fotografia è firmata da Giovanni Ziberna, autore formatosi presso ipotesICinema di Ermanno Olmi, per il quale ha firmato il montaggio di “Tickets” e regista emergente. L'audio in presa diretta è affidato al pluripremiato Carlo Missidenti (Ciak D'oro, Nastro D'Argento e David di Donatello 2010 con il film “L'uomo che verrà” di Giorgio Diritti).
José de Arcangelo

A distanza di un anno dal lancio di Queerframe.tv, il primo portale italiano dedicato al cinema LGBT e grazie al successo mediatico, di pubblico e di consensi tra gli addetti al settore, Atlantide Entertainment lancia Indieframe.tv – domani, mercoledì 7 settembre alle ore 17.30 presso lo Spazio della Regione Veneto all’interno dell’ Hotel Excelsior al Lido di Venezia - primo portale italiano dedicato al cinema di qualità, che sarà presentato durante la 68a Mostra del Cinema di Venezia in collaborazione con la SIC - Settimana Internazionale della Critica e che presenterà una library di titoli che spaziano da L’angelo sterminatore di Luis Buñuel a Ichi the killer di Takashi Miike.
Indieframe.tv nasce con la prerogativa di diventare un importante punto di riferimento del numeroso pubblico di cinefili “affamati” di cinema indipendente italiano e internazionale, presentando una vasta offerta, con film in lingua originale e film doppiati, passando dai lungometraggi ai documentari, dai cortometraggi ai progetti ‘fuori-formato’ fino alla video-arte e toccando tutti i generi: dalla commedia al thriller, dall'horror al dramma sentimentale, dal musical all'animazione per ragazzi. Spazio quindi a registi-cult come il filippino Brillante Mendoza, di cui Indieframe.tv propone tre titoli: “Tirador”, storia di un gruppo di ragazzi dei bassifondi di Manila; “Kinatay” - Palma d'Oro per la Miglior Regia al Festival di Cannes 2009 – la discesa agli inferi di un giovane povero e l’ultimo lungometraggio, “Lola” – storia di un’anziana signora che si trova a fronteggiare la tragedia personale ed economica di un nipote ucciso in circostanze non chiarite. Da segnalare anche “De la guerre”, del regista francese Bertrand Bonello (“L’Apollonide”, “Il pornografo”), con un ricchissimo cast che va da Mathieu Amalric (“Lo scafandro e la farfalla” e regista del recente “Tournée”) ad Asia Argento, Guillaume Depardieu, Clotilde Hesme e Michel Piccoli. Nei giorni della presentazione veneziana, il catalogo online su www.indieframe.tv presenterà ben 21 titoli, di cui 10 in anteprima italiana, che sarà il punto di partenza per erogare un servizio VOD di tantissimi film nei mesi successivi. I titoli saranno disponibili in streaming e download e nell'area shop sarà possibile acquistare i dvd delle collane Indieframe e Queerframe.
“Indieframe è l'espressione di una nuova ricerca di contenuti e tecnologia, attraverso il grande cinema d'autore; attenta alla qualità delle opere ed ai desideri di un pubblico variegato e trasversale - sottolinea Luca Confortini, CEO di Atlantide Entertainment - Indieframe.tv propone titoli che hanno impresso un segno nella storia della cinematografia internazionale, pur lasciando ampio spazio al talento dei nuovi autori italiani e non, monitorati con cura dal nostro responsabile delle acquisizioni, Cosimo Santoro. La modalità dello streaming e del download rappresenta, per noi, la possibilità di sostenere film che hanno difficoltà a raggiungere la sala e nello stesso tempo un’opportunità per quelli che hanno concluso il percorso della filiera cinematografica."
Un progetto innovativo e cinefilo della Atlantide Entertainment, una delle società italiane di distribuzione che ha acquisito più titoli lo scorso anno (oltre 100), con film che hanno vinto premi nei festival di tutto il mondo e che presenta, grazie a Indieframe.tv e Queerframe.tv, due seguitissimi portali di Video on demand legale. Atlantide Entertainment, con il portale www.queerframe.tv, ha portato per prima in Italia il cinema sul web attraverso una piattaforma di streaming e download legale compatibile con tutti i sistemi operativi (Windows, Mac, Linus) e tutti i browser (Internet Explorer, Mozilla Firefox, Google Chrome, Opera) e fruibile su ogni tipo di dispositivo (TV, lettore DVD\Blu-Ray, PC, Mac, iPod, iPad...). Strumenti quali lo streaming dinamico e lo scaricamento di file hanno fatto delle piattaforme di Atlantide Entertainment una realtà pioneristica nelle nuove frontiere della fruizione cinematografica, aprendo le porte di un grande cinema a tutto il pubblico della rete, senza alcun tipo di restrizione e sempre nel pieno rispetto della legalità. I prodotti saranno acquistabili con tutte le modalità di pagamento sicuro dalla carta di credito, alle prepagate e al bonifico bancario.

Per informazioni:
Atlantide Entertainment srl
Via Barbaroux, 5 - 10122Torino
tel. +39 011 02 01 650 - fax +39 011 02 01 651
info@atlantideentertainment.com
www.atlantideentertainment.com
www.queerframe.tv
www.indieframe.tv

lunedì 5 settembre 2011

Tre film d'autore in concorso alla 68a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia: Thomas Alfredson, Todd Solondz e la cinese Ann Hui

Tre film in concorso oggi al Festival di Venezia. Ambientato negli anni ’70, “Tinker, Tailor, Soldier, Spy” è la storia di George Smiley, un ex agente del MI6 ormai in pensione, alle prese con la nuova vita fuori dai servizi segreti. Quando un agente caduto in disgrazia gli rivela la presenza di una ‘talpa’ (il titolo italiano del libro di Le Carré e del serial anni ‘80) nel cuore del Circus, Smiley è costretto a rientrare nel torbido mondo dello spionaggio. Incaricato di scoprire quale tra i suoi ex colleghi abbia deciso di tradire lui e il paese, Smiley restringe la ricerca a quattro possibili sospetti – tutti agenti ricercati, competenti e di successo – ma tra storie del passato, rivalità e amicizie non è affatto facile individuare la spia che sta intaccando il cuore del governo britannico.
Una trasposizione più realistica, opaca e riflessiva di ogni altra spy story che ben si adatta all’originale, rappresentando agenti dal volto umano, con pregi e difetti (quasi), vizi e virtù, tutti al servizio del loro paese. Grande cast: da un inedito Gary Oldman all’onnipresente Colin Firth, dal veterano John Hurt all’attore in ascesa Mark Strong.
“Quando ho conosciuto John le Carré, aveva già le idee molto chiare sulla versione cinematografica del suo ‘Tinker, Tailor, Soldier, Spy’ – dice il regista, lo svedese Thomas Alfredson di “Lasciami entrare” -: ‘Cerca di non copiare il libro pari pari né tantomeno la serie Tv, tanto esistono già. Non voglio interferire, ma puoi chiamarmi ogni volta che avrai qualche dubbio’. Credo di avergli obbedito alla lettera. Ovviamente è impensabile riproporre in un film tutti i dettagli di un libro di 349 pagine, ma se ne possono riprendere le fila, i temi e i momenti salienti, cercando di descrivere quello vi si legge. Abbiamo fatto un film che parla di lealtà e ideali – valori estremamente attuali, forse perché al giorno d’oggi sono così rari?”
Ispirato a fatti e persone reali, “Tao Shin”, della cinese Ann Shui, narra la commovente ma sobria storia di Chung Chun-Tao, detta Ah Tao, nata a Taishan, in Cina. Il padre adottivo muore durante l’occupazione giapponese e la madre la manda a lavorare. Appena adolescente, Ah Tao diventa una “amah“, una serva, per la famiglia Leung, condividendone la vita quotidiana. Col tempo alcuni membri della famiglia passano a miglior vita e altri emigrano. Trascorsi sessant’anni, Ah Tao è ora al servizio di Roger, l’unico della famiglia rimasto a Hong Kong, dove lavora come produttore cinematografico. Un giorno, tornando a casa, Roger trova la donna in preda a un ictus e la porta precipitosamente in ospedale. Una volta fuori pericolo, Ah Tao gli comunica di volersi ritirare in un ospizio. Qui conosce la sua nuova “famiglia“: l’energica ma premurosa direttrice Ms Choi e un campionario assortito di anziani ospiti. E Roger si rende conto di essere molto legato alla vecchia governante...
“Mi sento molto fortunata – confessa la regista di Hong Kong - ad aver realizzato un film con tutti gli elementi che amo di più: storia vera, approccio documentaristico, taglio lirico, umorismo, pathos e attori improvvisati accanto a divi celebri!” Tutto vero.
Nel terzo film in concorso, “Dark Horse” di Todd Solondz, un ragazzone sulla quarantina (il bravo Jordan Gelber, proveniente dal piccolo schermo), nerd con la sindrome di Peter Pan, si innamora di una coetanea con la stessa sindrome, ma abbandonare la sua cameretta di adolescente piena di gadget – e i genitori (straordinari Christopher Walken e Mia Farrow) si rivela più arduo del previsto. E la tragedia incombe.
Ottima partenza in commedia che perde colpi non appena si insinua il dramma, infatti l’autore stavolta non riesce a trovare il raro equilibrio fra (corrosiva) comicità e (disarmante) tragedia come nei suoi precedenti capolavori (soprattutto “Happiness”), più spietati e atroci quadri (corali) contemporanei.
“E' buffo perché per quanto possa essere considerata una commedia – dice Solondz -, il film non fa poi tanto ridere, o almeno io non riesco a ridere guardandolo. In realtà per me è una storia piena di dolore, durante le riprese mi ha pervaso una grande malinconia e anche quando lo guardo ora non lo faccio mai con leggerezza. Il protagonista è senz’altro un uomo problematico, incontra nella sua vita tante sfortune così gravi che alla fine le cose non possono che migliorare. Allora le cose cambiano totalmente e la dimensione onirica sullo schermo è una sorta di redenzione per lui, come se i suoi sogni alla fine diano significato alla sua esistenza. Ho provato grande tenerezza nei suoi confronti e nei confronti degli altri personaggi, mi ha commosso ed è questo che mi ha spinto a fare questo film”.
“Questa storia qua” – da mercoledì nelle sale - racconta, attraverso materiali di repertorio inediti, l’eccezionale percorso musicale e umano di Vasco Rossi. Venticinque milioni di dischi venduti in trent’anni di carriera, un successo che non tramonta, una storia unica quella di Vasco Rossi, che in questo documentario per la prima volta si racconta, consegnandoci un suo intimo ritratto. Filmati super 8, fotografie di famiglia, VHS amatoriali, vecchie registrazioni radiofoniche contribuiscono a tracciare un quadro nuovo e autentico del rocker emiliano. Vasco ci accompagna lungo le tappe del viaggio che da Zocca, provincia di Modena, lo ha portato sino al successo, e nel tratteggiare la sua storia personale, senza mai prendersi troppo sul serio; le sue parole ci restituiscono anche un’epoca e una generazione. Accanto a lui gli amici, gli affetti di una vita e i musicisti che lo seguono da sempre ci portano alla scoperta di quel luogo speciale fatto di ricordi, nostalgie, ribellione, libertà e talento dove nascono le sue canzoni. Ed è proprio sull’onda delle emozioni e dei ricordi che Vasco Rossi ha composto per il film un inedito dal titolo I soliti. “Noi siamo quelli delle illusioni, delle grandi passioni“ dice la canzone, “noi siamo quelli che vedete qui“.
“Questo film nasce dal desiderio di raccontare la storia di Vasco Rossi – concordano i registi Sibylle Righetti e Alessandro Paris -. Una storia che ha per protagonista un ragazzo nato in un piccolo paese dell’Appennino emiliano, una storia che diventa l’occasione per tracciare un affresco della provincia italiana di quegli anni e di un’intera generazione. Grazie allo straordinario materiale di repertorio messo a disposizione dallo stesso Vasco, dai suoi amici più cari e da tanti abitanti di Zocca, che ci hanno affidato con fiducia i loro ricordi, abbiamo cercato di ricostruire la vita e lo spirito di un paese, di un gruppo di amici e di un ragazzo. ‘Da lì i sogni sembravano poter volare lontano’ come ci ha detto lo stesso Vasco”.
“Cavalli” di Michele Rho narra, invece, una storia fine Ottocento: in un paesino degli Appennini, vivono Alessandro e Pietro (da adulti Vinicio Marchioni e Michele Alhaique), due fratelli diversi e legatissimi, soprattutto dopo la morte della madre che fa loro l’ultimo regalo: Sauro e Baio, due stupendi cavalli non ancora domati. Divenuto adulto, Alessandro sente crescere il desiderio di oltrepassare le montagne e andare lontano, mentre Pietro vuole diventare un allevatore e vivere con Veronica, la ragazza che ama.
Un’opera prima (Rho viene dal corto) visivamente affascinante, un po’ dal punto di vista della narrazione – che risente un po’ l’influenza della fiction televisiva, sul rapporto uomo-natura, e particolarmente con quelli splendidi animali, amici e compagni di avventure, quali sono i cavalli, appunto.
“Quando ho letto per la prima volta il racconto – dice il regista - ho provato una piacevole sensazione di déjà vu, come se nella mia testa questa storia esistesse già, come se l’avessi vissuta in prima persona. ‘Cavalli’ ha il sapore di quelle storie che ti raccontano da piccolo. Storie che ti rimangono dentro anni per poi essere raccontate di nuovo. Questo film parla di qualcosa di ancestrale e di animalesco: è la storia di un amore fraterno, forte, violento, viscerale e indispensabile. Parla di un amore per chi c’è e per chi non esiste più. E’ la storia di un’amicizia che non finirà mai. E’ la storia di una crescita. Del camminare insieme condividendo la stessa strada per poi dividersi”.
Il corto documentario “Prove per un naufragio della parola” di Elisabetta Sgarbi segue una nave che plana e decolla, si erge e si inabissa in un mare silenzioso, mette in scena un dialogo. Un dialogo dedicato all’amore, di un uomo e di una donna dei giorni nostri e di sempre, di una coppia che si ama o almeno tenta di farlo.
“Due naufraghi recitano un tentativo di dialogo – dice l’autrice. E risospinti, ogni volta e di nuovo, sempre al punto di partenza, ricominciano con rinnovata energia”.
Inoltre, nella giornata di oggi, è stato presentato all’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, l’importante accordo tra Telecom Italia e Cinecittà Luce finalizzato alla conservazione e digitalizzazione dell’immenso patrimonio audiovisivo dell’Archivio Storico Luce, e alla diffusione di grandi film, documentari e materiali d’archivio di Cinecittà Luce su Cubovision, la nuova piattaforma interattiva di Telecom Italia, nonché sulla WEB TV e IPTV di Telecom.
L’investimento iniziale di Telecom Italia – come ha spiegato Franco Bernabè, Presidente del gruppo di telecomunicazioni – sarà di 500.000 euro per i primi mesi, con una previsione su un periodo pluriennale, e tenendo conto dell’evoluzione dell’accordo, di tre milioni di euro a completamento della prima parte del progetto. Cinecittà Luce avrà tre canali dedicati sulla piattaforma Cubovision, che partirà subito con 50 titoli della library di cinema di Cinecittà Luce, destinati a rigenererarsi periodicamente. Film e documentari cui si affiancherà un canale dedicato ai materiali d’Archivio, offerti gratuitamente. Per Bernabè “si tratta di un’iniziativa culturale, che dà finalmente la possibilità di fruire di prodotti di nicchia, ovvero quelli che sul lungo periodo diventeranno dei blockbuster, come le opere dei giovani registi. Un’iniziativa culturale che sta economicamente in piedi da sola, perciò da applaudire”.
Roberto Cicutto, Presidente di Cinecittà Luce, ha spiegato come si tratti di “un matrimonio dal triplice interesse: culturale, economico e generale”, perché consente la conservazione della nostra memoria audiovisiva, creando sviluppo industriale, nel segno della diffusione alla collettività di importanti contenuti. Luciano Sovena, AD di Cinecittà Luce, ha ricordato la tradizione di quasi cento anni dello storico marchio, che “ci consegna una immensa library di film e documentari, oltre al prestigioso archivio storico. Grazie a questo accordo siamo in grado di portare nelle case di 18 milioni di italiani questa Storia. Si vedranno cose mai viste, che vanno viste.” Il Ministro Galan si è infine detto “felice di questo accordo, anche perché si lega a quello che era il nostro obiettivo: la salvezza di Cinecittà Luce, un ente che sarebbe stato una follia chiudere. Credo che Cinecittà abbia un futuro radioso, e voglio cogliere l’occasione per un plauso a chi in questi anni lo ha saputo gestire bene: Roberto Cicutto e Luciano Sovena”.
José de Arcangelo

domenica 4 settembre 2011

Il cinema italiano in primo piano con "Terraferma" di Emanuele Crialese in concorso al Festival di Venezia. Sorprendente "Shame" di Steve McQueen


Oggi il primo film italiano in concorso alla Mostra di Venezia è “Terraferma” di Emanuele Crialese – accolto da un lunghissimo applauso alla proiezione stampa – e l’opera seconda dell’inglese Steve McQueen “Shame” nel quinto giorno di proiezioni al Lido. Alle ore 19.15 Al Pacino ha ricevuto il premio Jaeger LeCoultre; seguito dalla proiezione della sua nuova fatica (la terza, dopo “Riccardo III - Un uomo, un re” e “Chinese Coffee”) da regista “Wilde Salome” con Jessica Chastain, fuori concorso. Al Controcampo italian
o l’atteso “L'arrivo di Wang” degli imprevedibili Manetti Bros. e il documentar
io “Pivano Blues”, firmato dalla giornalista (di Raitre) Teresa Marchesi. Presentato anche “Alois Nebel” di Tomáš Lunák, sempre fuori concorso.
Ed ecco “Terraferma”, coinvolgente ed emozionante viaggio tra mito e realtà, passato e presente. Due donne, un’isolana e una straniera: l’una sconvolge la vita dell’altra. Eppure hanno uno stesso sogno, un futuro diverso per i loro figli, la loro terraferma. Terraferma è l’approdo a cui mira chi naviga, ma è anche un’isola saldamente ancorata a tradizioni ferme
nel tempo. E’ con l’immobilità di questo tempo che la famiglia Pucillo deve confrontarsi. Il nonno, Ernesto (Mimmo Cuticchio), ha 70 anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe rottamare il suo peschereccio. Suo nipote Filippo (Filippo Pucillo) ne ha 20, ha perso suo padre in mare ed è sospeso tra il tempo di suo nonno e il tempo di suo zio Nino (Beppe Fiorello), che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti. Sua madre Giulietta (sempre intensa Donatella Finocchiaro), giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest’isola li ha resi tutti stranieri e che non potrà mai esserci un futuro né per lei, né per suo figlio Filippo. Per vivere bisogna trovare il coraggio di andare via.
Un giorno il mare sospinge nelle loro vite altri viaggiatori, tra cui Sara (Timnit T.) e suo figlio. Ernesto li accoglie: è l’antica legge del mare. Ma la nuova legge dell’uomo non lo permette e la vita della famiglia Pucillo è destinata a essere sconvolta e a dover scegliere una nuova rotta.
“E’ un film sul cercare altrove un senso o un rimedio al proprio destino – dichiara Crialese. Sul riconoscersi umani perché stranieri, perché inadeguati a stare. Racconto una realtà che abbiamo davanti quotidianamente, ma senza intenti documentaristici, piuttosto trasformandola in una dimensione quasi di favola, avulsa dal tempo e da luoghi reali. Una favola che punta al cuore e alla pancia dello spettatore più che alla sua testa. Spero che sul piano razionale susciti comunque delle riflessioni. Io sono partito dall’idea di ‘straniero’: la condizione di straniero è costitutiva di ogni essere umano, di ogni luogo e tempo. A nessun uomo può essere negato il diritto di poter cercare altrove”.
Due donne alla ricerca di un futuro migliore si ritrovano in un mondo dove “tutti hanno paura di dare e paura di ricevere”. Fra paura dello sconosciuto e paura di un futuro incerto, tutti vorrebbero fuggire, ma dove? Nel frattempo il ventenne Filippo costruirà il suo romanzo di formazione, fra cruda realtà e (ri)trovata poesia di vita.
“La cronaca che leggevamo sui giornali in quel periodo – prosegue il regista - rappresentava per noi (con lo sceneggiatore Vittorio Moroni ndr.) un po' tutto quello che sapevamo di dover mettere nel nostro film, è stata una grande fonte di ispirazione, tutte le notizie che raccoglievamo al riguardo venivano messe in un bagaglio da usare per trasformare e raccontare una storia che andasse oltre i canoni televisivi e documentaristici. Ed è così che abbiamo scoperto che il nostro mare, il Mediterraneo, da culla di civiltà è diventato culla di inciviltà”.
E a proposito dei non protagonisti, l’altra donna e il giovane Picillo, l’autore afferma: “Nell’agosto 2009, mentre tornavo da Lampedusa a Roma, è uscita la notizia di un tragico sbarco nei pressi dell'isola, si trattava di un'imbarcazione rimasta alla deriva per tre settimane con 79 persone a bordo, di cui 73 morti e quattro sopravvissuti, tre uomini e Timnit. Il suo volto mi ha colpito al cuore quando ho aperto il giornale, sono rimasto come ipnotizzato, era il viso di una donna che aveva visto l'inferno. Ricordo altre persone che si avvicinavo alla sua barca per portare acqua e cibo, poi si allontanavano di nuovo. Per lei tutto era a portata di mano, ma era come se ci fosse una barriera invalicabile che non poteva essere oltrepassata”.
“Vergogna” di Steve McQueen narra una storia di ossessione, se vogliamo di una perversione. Brandon (Michael Fassbender, alla sua seconda prova col regista e al suo secondo film al Lido) è un uomo sulla trentina che vive a New York ed è incapace di gestire la propria vita sessuale. Quando la sorellina ribelle (Carey Mulligan) si stabilisce nel suo appartamento, l’uomo perde sempre più il controllo del proprio mondo. L’opera è un dramma gelido, un’analisi lucida, stringente e attuale della natura del bisogno, del nostro modo di vivere e delle esperienze che plasmano la nostra esistenza.
“Hunger (acclamato a Cannes ma rimasto inedito in Italia ndr.) narrava di un uomo privo di libertà – dice il regista - che usava il suo corpo come strumento politico e attraverso questo atto creava la propria libertà. ‘Shame’ prende in esame una persona che gode di tutte le libertà occidentali e tramite la sua apparente libertà sessuale crea la propria prigione. Mentre assistiamo, e ci desensibilizziamo, alla costante e continua sessualizzazione della società, come facciamo a orientarci in questo labirinto e a non farci corrompere dall’ambiente che ci circonda? Ciò che intendo esplorae è questa enormità che fingiamo di ignorare”.
E sull’altra protagonista, la città, l’autore aggiunge: “Sono stato ispirato da New York, ho girato a lungo la città insieme alla sceneggiatrice (Abi Morgan ndr.) e abbiamo concepito la storia lì. Volevamo l'acqua, il fiume Hudson, lo skyline anche nel film. E’ una città eccitante, contemporanea, che non dorme mai. Stando lì capisci che è il luogo dell'eccesso. New York è un vero e proprio personaggio del film e ne ha influenzato profondamente anche lo stile visivo”.
“Il sesso è una dipendenza come la droga e il gioco – conclude McQueen -. Questi comportamenti compulsivi mi hannor spinto a creare un personaggio che però non è legato a nessuna persona che conosco né che ho conosciuto in passato. Mi sono sentito libero di creare una storia senza nessun legame con la mia vita. Volevo riflettere sul fatto che tutta la libertà odierna talvolta si trasforma in una vera e propria prigione”.
L’opera terza (seconda ricerca di attore/autore teatrale) di Pacino “Wilde Salome” proietta il pubblico nella vita personale del grande attore come mai era successo prima – anzi meglio di prima -, offrendo un ritratto intimo e profondo della più grande icona del cinema alle prese con il ruolo più impegnativo mai interpretato: se stesso e il re Erode. Traboccante di verità e candore, il film conduce Pacino in giro per il mondo, da Londra a Parigi, Dublino, New York, Los Angeles, e dentro il suo camerino; niente appare off limits mentre Pacino esplora le complessità del dramma di Wilde, nonché i processi e le tribolazioni che hanno segnato la vita del grande scrittore e drammaturgo, offrendo al tempo stesso uno sguardo senza precedenti anche sulle proprie. Toccante e divertente viaggio fatto di passione, determinazione e, soprattutto, di ossessione. E ci sono le ‘testimonianze” di Tom Stoppard, Gore Vidal, Bono, Tony Khusner e Merlin Holland, nipote di Wilde.
“E’ l’esplorazione di una pièce teatrale – confessa Pacino, al Lido con la protagonista femminile Jessica Chastain - che mi ha impegnato per molto tempo. Ho spogliato l’opera di tutti i suoi costumi e scenari complessi, presentandola e analizzandola nella sua essenza. Jessica è sensazionale nel ruolo di Salomè e mi ha aiutato molto nella mia personale scoperta del mondo di Oscar Wilde. ‘Wilde Salome’ non è un film narrativo tradizionale, né un documentario. E’ sperimentale, è l’emancipazione di un’opera che continua a vivere. Come gli straordinari attori del film, anche voi dovrete fidarvi di me e delle mie scelte e seguirmi in questo viaggio”.
“Per 25 anni mi sono diviso tra palcoscenico e grande schermo – ha detto, sempre travolgente e torrenziale, al Lido -, ero dilaniato tra due tipi di recitazione. Poi ho iniziato a filmare le cose che mi piacevano, soprattutto la mia attività teatrale: il lavoro di regista l'ho cominciato così. E a questo punto mi sono veramente innamorato del cinema. Quando ho capito davvero la sua magia, per me è cambiato tutto. Ma come regista sono e resto un dilettante. Infatti ho 5/6 film già girati, ma preferisco tenerli nascosti... Magari in futuro potrei farne uno su 'Sei personaggi in cerca d'autore', una mia personale rilettura del mondo di Pirandello...”
“L’arrivo di Wang” dei Manetti Bros. narra, invece, di Gaia (Francesca Cuttica), un’interprete di cinese, viene chiamata per una traduzione urgentissima e segretissima. Si troverà di fronte Curti (Ennio Fastastichini), un agente privo di scrupoli, che deve interrogare un fantomatico signor Wang. Ma per la segretezza l’interrogatorio avviene al buio e Gaia non riesce a tradurre bene. Quando la luce viene accesa Gaia scoprirà perché l’identità di Mr. Wang veniva tenuta segreta. Davanti a lei si troverà un essere proveniente da un altro mondo. Un incontro che cambierà per sempre la sua vita e quella di tutto il pianeta.
“Racconta l’incontro fra tre persone – dicono gli autori. E’ una storia psicologica di tensione in cui tre personalità enormemente diverse si confrontano manifestando a poco a poco le proprie caratteristiche. Il concetto che ci interessava raccontare è se chi ci è accanto tutti i giorni può essere più diverso di chi viene da un altro pianeta. Attraverso gli occhi puri della giovane interprete non vogliamo dare risposte ma, di fronte a una realtà sempre più incerta, porre delle difficili domande. Pur rimanendo un film di genere, riflette su alcuni temi umani ed etici: quanto bisogna fidarsi del prossimo? Che cos’è un pregiudizio? Quale limite si può superare per difendersi da una possibile minaccia, o quanto si può rischiare di sbagliare per perseguire i propri ideali?”
Il documentario “Pivano Blues” di Teresa Marchesi rivisita l’opera di una straordinaria figura di spicco nella cultura del ’900 italiano, Fernanda Pivano, appunto, attraverso alcune delle più importanti voci della cultura popolare italiana e americana. Attenta soprattutto al pubblico giovanile, Nanda – come veniva affettuosamente chiamata - ha contribuito in modo determinante ad abbattere le barriere tra poesia “alta“ e “bassa“, contro le ghettizzazioni delle accademie, facendo rivivere nella coscienza di generazioni di ragazzi le pagine degli autori statunitensi che andava via via traducendo. Fino all’ultimo si è battuta per far sì che venisse riconosciuto lo “status“ di poeti ai grandi cantautori: Bob Dylan, Fabrizio De André, Vasco Rossi, Luciano Ligabue, Jovanotti, Vinicio Capossela, P.F.M. Perfino autori americani celebri come Patti Smith e Lou Reed, Jay Mc Inerney ed Erica Jong, registi come Abel Ferrara hanno attinto al suo patrimonio di ricordi e frequentazioni prestigiose: Hemingway, Warhol, Ginsberg, Kerouac, Corso, l’intera Beat Generation. “Pivano Blues - Sulla strada di Nanda” è in un certo senso un discorso sul valore capitale dei libri e della lettura, sul diritto inalienabile alla cultura che proprio in questo momento nuove generazioni di giovani stanno rivendicando. Questo filo rosso lega i brani di interviste inedite alla poetessa, realizzate dalla regista nel corso di due decenni e gli incontri con gli artisti che si sono formati, ragazzi, non solo grazie ai testi da lei tradotti ma anche alla sua instancabile militanza pacifista e libertaria.
“I sentimenti da cui è nato negli anni ’80 il mio affetto più che filiale per Fernanda Pivano – confessa la Marchesi - sono gli stessi che ho ritrovato negli occhi e nelle parole delle migliaia di ragazzi che puntualmente facevano ressa intorno a lei in tutte le sue apparizioni pubbliche: ammirazione e gratitudine. Siamo in tanti a esserle debitori di pagine e pagine di letture appassionate, di scoperte e speranze che sentivi di condividere non solo con i ‘suoi’ autori ma anche con lei”.
Infine, nella sezione Orizzonti, è approdato “The Invader” del belga Nicolas Provost, con Isaka Sawadogo e Stefania Rocca. La storia dell'affascinante Amadou, che, sbarcato sulle coste dell'Europa meridionale, arriva per caso a Bruxelles dove crede di rifarsi una vita. Un ruolo devastante nella sua nuova esistenza avrà la bella e sofisticata Agnès, che lo amerà per poi abbandonarlo senza motivo, inducendolo a lasciarsi andare ai suoi demoni.
E domani il Mundial sbarca al Lido. Hanno finalmente un nome i vincitori dei Mondiali di calcio del 1942, svelati a quasi sessant’anni di distanza dal documentario di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, “Il Mundial dimenticato”, in programma domani, 5 settembre, alle ore 22 nel corso delle Giornate degli Autori, presso la Pagoda del Des Bains (Lungomare Marconi 17).
Una coproduzione italo-argentina, realizzata con il sostegno del MIBAC e in collaborazione con Rai Cinema, Cinecittà Luce e Rai Trade (cura le vendite internazionali), che punta a far luce su uno dei misteri irrisolti delle cronache sportive internazionali. Nessuno sa infatti dire con esattezza chi vinse i campionati del mondo del ‘42. E nessuno ricorda più la formazione della nostra nazionale di allora, chiamata a difendere il titolo conquistato nel 1938. Ovviamente c’era la guerra a oscurare gli spensierati resoconti sportivi di quel tempo, ma a distanza di quasi sei decenni qualcuno ha deciso di fare luce sulle pagine dimenticate della nostra storia.
“Il Mundial dimenticato” è stato realizzato con un paziente lavoro di archivio (grazie anche a materiali inediti di Cinecittà Luce) e ricostruzioni storiche (con le autorevoli testimonianze di Gary Lineker, Roberto Baggio, Joao Havelange, Darwin Pastorin e Antonio Battilocchi, difensore della nazionale italiana anni Quaranta), che ha consentito di identificare il vincitore della Coppa del Mondo 1942 e scrivere il nome mancante nell’albo d’oro del calcio.
Ma l’evento avrà inizio al mattino, quando Gunther Celli e Kevin Gomes del "Footwork team", unico team italiano di professionisti nel soccer freestyle, animeranno, in costume d'epoca, le strade del Lido con performance di calcio acrobatico. Alle 18.00, prima della proiezione, avrà inizio la partita tra Nazionale Italiana Scrittori e Nazionale Italiana Cineasti, che si contenderanno la “Copa del Mundo de Futbol” messa in palio dalla Verdeoro di Daniele Mazzocca, produttore del film.
Due tempi da 20 minuti ciascuno, che verranno disputati sulla spiaggia del Des Bains, con l’arbitraggio di Gianni Ippoliti (arbitro federale) e la “fanta-cronaca” a bordo campo di Max Paiella. Partecipano agli eventi e agli incontri con la stampa, il “giornalista” Maurizio “Max” Belpietro, il produttore americano Tony Boccea (in collegamento dagli Usa), Antonio Battilocchi difensore della nazionale azzurra ai Mondiali del ’42, ora ultranovantenne, e ultimo testimone italiano del torneo dimenticato, oltre a numerosi personaggi del mondo dello spettacolo. Alle 20.00, esibizione di tango argentino con i ballerini dell’Associazione “Tango para siempre” di Mestre, che interpreteranno brani degli anni Quaranta. Per l'organizzazione della Copa Mundial de Futbol si ringrazia la 2Erre Organizzazioni Sport & Events e SA Stabilimenti Attività Balneari.
Sempre domani un interessante incontro. Un lungometraggio, “Dietro il buio” di Giorgio Pressburger, e un corto, “Prove per un naufragio della parola” di Elisabetta Sgarbi, basati sui testi di due scrittori: Claudio Magris e Edoardo Nesi, recente vincitore del Premio Strega. Un tema comune, il naufragio del dialogo amoroso e la sua necessaria ricerca, la fragile vittoria del suo rifarsi daccapo. Un tema che lascia sullo sfondo un’altro tema importante: il naufragio della parola, o anche di tutta la letteratura così come è stata pensata per secoli, e la sua incredibile e straordinaria, nonostante tutto, vitalità. Il film di Elisabetta Sgarbi, in concorso nella sezione Controcampo Italia, è un omaggio a Claudio Parmiggiani, a quel “Naufragio con spettatore”, la nave arenata su migliaia di libri - forse le rese di migliaia di editori - che però lascia aperto il problema: scarti del sistema industriale o solide basi che tengono in piedi il veliero?
I protagonisti discuteranno - alle ore 12.30 presso la Sala Tropicana dello Spazio Cinecittà Luce dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia -, coordinati da Alberto Pezzotta, di “Discorso amoroso tra cinema e letteratura”, in occasione della proiezione del film della Sgarbi, interpretato da Fabrizio Gifuni e da Sonia Bergamasco, su sceneggiatura di Edoardo Nesi e di “Dietro il buio” di Pressburger, con Sarah Maestri e Gabriele Geri, selezionato nelle Giornate degli Autori / Spazio aperto, su sceneggiatura di Paolo Magris e Pressburger e tratto da “Lei dunque capirà” di Claudio Magris. Il film sarà proiettato martedì 6 settembre alle ore 22.00 presso La Pagoda (fronte Hotel des Bains - Lungomare Marconi 17), preceduto dalla presentazione da parte del cast, produzione e dallo stesso Claudio Magris alle ore 21.45.
José de Arcangelo