venerdì 15 agosto 2008

Locarno. L'Italia in concorso con "Mar Nero", storia d'immigrazione e amicizia

LOCARNO, 14 – Conto alla rovescia per il Festival del Film del Locarno che chiuderà i battenti sabato con la premiazione. Anche oggi al centro dell’interesse il cinema italiano, non solo per l’incontro di Nanni Moretti con il pubblico - nonostante la pioggia torrenziale che circondava la tenda dell'affollato Forum -, dove l’autore – amato-odiato anche qui – ha parlato ovviamente dell’Italia, di Berlusconi (“E’ inaccettabile che in una democrazia ci sia una persona che ha il monopolio delle tivù e si candidi cinque volte in tre lustri”), del centrosinistra (“è stato al governo cinque anni e non ha fatto una legge sul conflitto di interessi”), dei suoi film e del suo stile di lavoro, dell’attività di produttore, distributore ed esercente. Ma anche perché è stato presentato l’unico film italiano del concorso internazionale: “Mar nero” opera prima di Federico Bondi con una grande Ilaria Occhini e la giovane attrice rumena Dorothéea Petre.

Il delicato quadro di un’amicizia tra donne, di un rapporto che diventa pian piano quello tra madre-figlia sullo sfondo di una delle tante storie di emigrazione-immigrazione (forzata) come erano – senza dimenticarlo – quella di migliaia di italiani, dalla fine dell'Ottocento fino fino agli anni Sessanta (e oltre) del Novecento.

Se “tutto il mondo è paese” basterebbe solo capirci qualcosa e capirsi (a vicenda) perché il problema diventasse meno grave e contraddittorio, oppure meno ambiguo di come lo fanno diventare spesso i governi che mal lo affrontano. Quando decidono di farlo.

“Mar Nero è legato ad alcuni episodi della mia vita – dice il trentatreenne regista -: Gemma è mia nonna e Angela è stata la sua badante. E’ a loro che devo l’anima e i personaggi di questa storia. Nel film ci sono i loro caratteri, le loro emozioni e relazioni. Pur restando fedele a questi fatti personali, ho cercato di acquisire un certo distacco. Oggi mia nonna non c’è più, ma quasi quotidianamente, per la strada o ai giardini pubblici, incontro una persona anziana accompagnata da uno straniero: storie di coabitazione forzata, di dipendenza reciproca, ma anche di solidarietà e amicizia. Il viaggio che Gemma intraprende con la giovane rumena mia nonna non l’ha fatto, ma avrebbe potuto. Perciò mi piaceva immaginare questa storia”.

Certo, non tutti i casi sono uguali come nemmeno le persone sono uguali (“siamo uguali ma diversi” direbbe l’alter ego di Moretti). Quindi un dramma che, senza retorica né falso moralismo né paternalismo, narra l’incontro tra due donne di età, provenienza e mentalità diverse che – dopo l’iniziale, reciproca, diffidenza – pian piano si confessano, si aiutano, si affezionano l’una all’altra.

E, come accade sempre più spesso nel cinema contemporaneo, lo stile diventa quasi documentaristico quando le due donne vanno in Romania alla ricerca del marito di Dorothéea, il quale sembra scomparso nel nulla.

Nel concorso internazionale, presentato anche “Story of Jen” del francese François Rotger, il ritratto duro e crudo di due donne (madre e figlia), distrutte da una perdita improvvisa (marito e padre). Covina, piccolo villaggio canadese (il film è una coproduzione), la quattordicenne Jen vive con la madre Sarah, bellissima trentenne. Ma Jen non beve, non esce, non ha amici, non veste come le sue coetanee, non si trucca. La tragica perdita del padre (suicidatosi in casa) l’ha resa ancora più solitaria e conduce un’esistenza priva di emozioni, finché non si presenta Ian, fratellastro del defunto padre, che sconvolgerà tragicamente la vita delle donne e la sua stessa esistenza.

Un dramma contemporaneo che ha radici nel cinema della ‘nuova Hollywood’ anni Settanta e che mette a confronto i conflitti della famiglia con la brutalità del mondo esterno.

In concorso per “Cineasti del presente” è stato proiettato “La orilla que se abisma” (t.l. La riva che si abissa - nell’oceano -) dell’argentino Gustavo Fontàn. Non un documentario né una fiction ma un film che tenta di fondere arte e poesia. Quindi un film sperimentale che cerca “di dialogare con la poetica di Juan L. Ortiz”, come afferma il regista a proposito del poeta, della provincia di Entre Rios, che l’ha ispirato. Infatti le sue immagini passano dai colori vivacissimi della natura rigogliosa al bianco e nero sgranato, spesso sono (volutamente) fuori fuoco e nel gioco luce/colore/ombra sembrano dei dipinti ora astratti ora impressionisti (operatore Luis Càmara), oppure le tele di William Turner come si afferma nel catalogo. E tutto si confonde, il giorno e la notte, l’alba e il crepuscolo, il fiume e il cielo, come in uno specchio (distorto). E quando le immagini raggiungono il “fuoco”, la definizione, lo fanno lentamente come in una vera scoperta del meraviglioso. Quindi un non-documentario sperimentale – si direbbe d’arte – che non conquista tutti, anzi. Infatti, se i selezionatori lo considerano una chicca – e per chi ama la sperimentazione e il ‘nuovo’ lo è – non tutto il pubblico è (sarà) d’accordo, visto che qualcuno ha lasciato la sala in anticipo.

Ma è un modo per soffermarci su cose e ambiente che ci stanno accanto e che spesso non vediamo più, per riscoprire la contemplazione. “Forse la rivoluzione – scrive Ortiz - consiste in ciò che l’uomo ha rimandato a più tardi per secoli: la necessità di un vero riposo, che gli permetta di vedere come crescono, giorno dopo giorno, i fiorellini selvatici”.

José de Arcangelo