mercoledì 13 agosto 2008

Locarno. I "Baci" irlandesi si candidano, con struggente freschezza, al Pardo d'oro internazionale



LOCARNO, 12 – Una grigia giornata di pioggia fin da stanotte ci ha costretti – anche per problemi di salute, a causa dell’aria condizionata – a ridurre le visioni anche oggi. Abbiamo approfittato della pausa pluviale di mezzogiorno per vedere i film, del concorso internazionale, del primo pomeriggio. Ha conquistato il pubblico (e anche noi), che gli ha donato il più lungo applauso, l’irlandese “Kisses” (Baci) di Lance Daly, una fresca commedia dolce-amara sull’adolescenza, anzi pre-adolescenza, oggi. Una sorta di viaggio iniziatico di una “piccola coppia” che tenta la fuga dall’inferno familiare per cercare la libertà a Dublino.

Dylan (Shane Curry) ha un padre disoccupato che si ubriaca e picchia lui e la madre. Kylie (la rivelazione Kelly O’Neill) è oppressa e tormentata, e poi scopriremo perché è costretta a subire in silenzio gli abusi dello zio. Dopo l’ennesimo litigio col padre, il ragazzo è costretto a scappare e Kylie, non solo l’aiuta, ma lo convince a fuggire insieme a Dublino, sulle tracce del fratello di lui, fuggito due anni prima. Incontrano un simpatico barcaiolo che li aiuta e li fa scoprire ed amare Bob Dylan; poi, una volta in città, vagano per le strade accoglienti e vitali spendendo i soldi che la ragazzina ha preso alla sorella maggiore. Infine cercano, in vano, di ritrovare il fratello di Dylan che tutti sembrano aver visto, però prima che cambiasse posto. Ma quando scende la notte, il sogno diventa incubo, la città diventa squallida e sordida, dove sembra si aggiri davvero “l’uomo nero”. Infatti, salvatisi miracolosamente, a vicenda, da maniaci assassini in cerca di prede, i due ragazzini si nascondono e si addormentano sui cartoni. Al mattino, col risveglio, scopriranno che una vita migliore non esiste – un barbone è morto accanto a loro durante la notte – nemmeno lontani da casa. Ritorneranno sui loro passi ma qualcosa in loro è, comunque, cambiata e, forse, la loro amicizia è diventato vero amore.

Una commedia, si direbbe sentimentale – ma nel vero e buon senso della parola –, che offre ora un tocco surreale (l’incontro vero con Bob Dylan, interpretato da Stephen Rea) ora un tocco dark (il sequestro di Kylie e l’inseguimento di Dylan), e vista dal punto di vista dei giovanissimi protagonisti. Infatti, il loro stato d’animo viene espresso con il bianco e nero, quando sono nel grigiore dell’universo familiare, con il colore, quando se ne liberano. Poi una serie di rimandi e/o citazioni (volute o inconsce), da Jean Vigo a Ken Loach, completano un’opera degna di attenzione.

Più ‘impegnativo’ e complesso, “Yuriev Den – Yuri’s Day” di Kirill Serebrennikov con la bravissima Ksenia Rappoport che già avevamo apprezzato in “La sconosciuta” di Giuseppe Tornatore, per cui ha vinto il David di Donatello. Infatti, essendo a Locarno, l’attrice si è rivolta al pubblico in Italiano e confessando che considerava la città svizzera un posto solare ma invece ha trovato la pioggia. “Ma, comunque, il tempo è molto meglio di quando abbiamo girato il film – ha detto – perché durante le riprese facevano 32 gradi sottozero”.

Il dramma racconta la storia di Lyuba, una cantante lirica bella e sofisticata, che si concede una breve vacanza per accompagnare il figlio Andrej a Yuriev, la città in cui è nata e che ha lasciato più di vent’anni prima. Il figlio ventenne, costretto a seguirla in giro per il mondo, le rimprovera di trascurarlo e di ignorare i suoi gusti e bisogni. Arrivati a Yuriev, entrambi scoprono un luogo ostile dove il tempo sembra essersi fermato e gli abitanti guardano gli stranieri con diffidenza, senza nemmeno rispondere alle loro domande. Prima di ripartire, madre e figlio decidono di visitare il campanile di una chiesa-museo, unico monumento degno di interesse. Una volta scesi, Lyuba si siede su una panca e si assopisce per qualche istante, ma al suo risveglio Andrej è scomparso. In preda alla disperazione, la donna lo chiama, lo cerca ovunque, fa riaprire il museo ma di lui nessuna traccia. Non rassegnata denuncia la scomparsa, ma prima di tre giorni non c’è niente da fare. La cassiera del museo, Nadia, la ospita in casa e Lyuba decide di fermarsi per proseguire le ricerche. Poi, finalmente, trova l’aiuto di un poliziotto che la porta in ogni posto dove il figlio potrebbe trovarsi, ma niente. E Lyuba, poco a poco si trasforma, (ri)diventa un’altra. Il suo carattere si inasprisce, smette di truccarsi, perde la voce e indossa abiti semplici. Alla fine decide di lavorare come inserviente all’ospedale del carcere, diventando una “madre” dei derelitti del suo popolo. Il tutto in due ore e ¼ di proiezione che, però, non si fanno sentire, per chi ama il dramma che si rifà ai classici del cinema e della letteratura, riportandoli nella società russa contemporanea.

“Da un lato – afferma il regista -, questo film racconta la storia di Lyuba, una donna di grande talento e bellezza e con un destino fuori dal comune. E’ una diva dell’opera, una professione molto impegnativa che non lascia spazio alla vita privata. Divorziata perché non ha potuto consacrarsi al marito, Lyuba trascorre pochissimo tempo con il figlio. Il viaggio a Yuriev la cambierà completamente. Dopo la scomparsa del figlio le sue priorità si rovesciano (…) Vediamo allora una madre disperata, con il cuore spezzato. Emerge un aspetto del suo carattere a lungo nascosto, un aspetto che in condizioni normali lei non avrebbe mai mostrato. E lo spettatore assiste a una trasformazione bergmaniana del personaggio. Una camera fissa cattura i protagonisti. Ma, dall’altro, ‘Yuriev den’ è anche la storia di un rapporto madre-figlio. E’ un film su una donna forte che trovandosi in una situazione inattesa cerca di infrangere le barriere dell’egoismo, un film sulla rinascita di una madre (…) E infine, la storia di una Russia che ha smarrito e poi ritrovato la propria identità”.

Quindi questi due film si candidano al Pardo nella competizione internazionale, anche perché gli altri - nonché degni - non raggiungono il loro livello.

Nella sezione “Ici & Ailleurs” abbiamo visto il documentario spagnolo, anzi catalano, “El Somni” (Il sogno) di Christopher Farnarier che ci fa percorrere un viaggio “a piedi” dietro un pastore di pecore, al suo ultimo giro. Infatti, i cambiamenti climatici, stradali ed economici non permettono più di continuare a lavorare come una volta. Il regista, durante le riprese, è vissuto a stretto contatto con il pastore alle soglie della pensione, condividendone il sapere e la visione del mondo che ci ripropone sullo schermo in modo “naturale” e delicato.

Da quando aveva dieci anni, Joan ogni primavera conduce il gregge di pecore dalle pianure spagnole dell’Empordà ai pascoli del Ripollés, in una transumanza che dura due settimane e che l’uomo ripete da più di sessant’anni. Seguendo il pastore, le sue pecore e il suo cane (che mangia omelette da tre uova), il documentario rievoca una tradizione millenaria ormai destinata a scomparire. Infatti, la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità minaccia i territori in cui passano le pecore, riducendoli sempre più; così come si è impoverito il pascolo sulle montagne, perché scende sempre meno acqua e l’erba non cresce quasi più. Quindi, un viaggio nel cuore della Catalogna rurale ma anche nella memoria di Joan, un uomo legato alla sua terra e alla natura, il cui sogno è vivere fra le montagne, magari con qualche donna di casa, ma continuando a dormire dove capita, non sul letto però.

José de Arcangelo