lunedì 11 agosto 2008

Anche i ragazzini salvati dal calcio conquistano il pubblico di Locarno

LOCARNO, 10 – Dopo “Il sol dell’avvenire”, un altro documentario italiano conquista il pubblico del Festival del Film che gli ha regalato un più lungo applauso. Non solo perché si tratta di “Petites Historias das Crianças” di Fabio Scamoni (anche produttore per RedHouse), Guido Lazzaroni e Gabriele Salvatores – sempre nell’ambito della sezione “Ici & Ailleurs” - che parla del calcio come progetto (InterCampus) per favorire lo sviluppo di bambini vittime della guerra e/o della povertà. Ma anche perché lo fa attraverso gli stessi bambini che raccontano e si raccontano con spontaneità disarmante, spesso commovente. Però anche i loro allenatori/educatori illustrano non solo la situazione sociale, ma anche come un’attività sportiva, un “gioco”, li possa aiutare non soltanto a crescere sanamente ma anche a superare traumi e disagi.

Il progetto dell’Inter è nato nel 1997 su un programma flessibile di intervento sociale e cooperazione in 17 nazioni nel mondo (dall’Iran al Brasile, dalla Romania alla Cina, dalla Bosnia al Cameroun e alla Colombia) utilizzando il gioco del calcio come strumento di promozione a beneficio di 9mila bambini bisognosi tra gli 8 e i 14 anni, sotto la guida di 200 operatori locali.

Alla proiezione in anteprima internazionale erano presenti, oltre i tre registi, anche il presidente di InterCampus Massimo Moretti, il presidente dell’Inter Massimo Moratti e il calciatore rumeno Christian Chievu.

“Se non hai i colori della squadra del cuore – esordisce scherzosamente Fabio Scamoni – non riesce a far un lavoro come questo. In Cameroun abbiamo dovuto fare dei chilometri nella foresta facendoci strada con i machete per arrivare poi a un grande spiazzo, dove c’erano cento bambini con la maglia dell’Inter”.

“Il progetto del film è nato più di un anno fa – dichiara Lazzaroni -, anzi quindici mesi fa, le riprese sono cominciate l’anno scorso e negli ultimi cinque mesi abbiamo lavorato al montaggio. Abbiamo sempre lavorato bene e d’accordo grazie all’aiuto degli allenatori e dei coordinatori del posto, soprattutto in Brasile e Colombia, dove ci sono gravi problemi di sicurezza”.

“La differenza tra fare un film sui bambini – afferma Salvatores – e questo lavoro sta nel fatto che qui si affronta il tema del cambiamento, della possibilità per i ragazzi di cambiare, cosa che una volta cresciuti diventa sempre più difficile. E poi qui ci troviamo con bambini di paesi diversi, che pregano in maniera diversa, ma possiamo – e possono – sentirci molto simili attraverso il calcio. Questi ragazzi indossano la maglietta come fosse l’abito buono, perché dà loro un senso di appartenenza a qualcosa, anche perché la vita è un 'gioco' collettivo che si fa con gli altri”.

Ora il film è pronto, non ci sono tutte le storie – è ovvio – ma quelle più rappresentative e illuminanti, ottimamente fotografate da Giuseppe Baresi e montate (in parallelo) da Giorgio Garini. Però per il momento non si vedrà in sala ed è un peccato, ma quasi sicuramente nelle scuole – e sarebbe un’ottima iniziativa se andasse in porto – e senz’altro in Dvd. E in questo caso la tifoseria (visto che si tratta di un’iniziativa dell’Inter) va lasciata da parte, perché il vero tema del documentario è un altro, il calcio sì ma come potenza del gioco che unisce anziché dividere. Quindi il gioco non la guerra e la miseria.

Per i concorsi abbiamo invece visto “33 Sceny Z Zycia” (33 Scene di vita) della polacca Malgoska Szumowska e “Daytime Drinking” del coreano Noh Young-seok (International Competition), e “Filmefobia” del brasiliano Kiko Goifman (Cineasti del Presente).

Il primo è un melodramma familiare freddo al punto giusto - tanto da evitare di cadere nel sentimental-lacrimoso - che diventa quadro del passaggio dall’infanzia all’età adulta, attraverso le vicende della giovane Julia, fotografa dalla promettente carriera che vive felice accanto alla sorella, ai genitori famosi – il padre è regista, la madre scrittrice -, e all’adorato marito, compositore. In famiglia regnano l’amore e il rispetto reciproco, ma il tempo passa in fretta e, quando la madre scopre di avere un cancro, l’armonia viene messa a dura prova. E la vita continua, segnata da lutti, inquietudini e dubbi.

“Daytime Drinking” è un’inedita – ma non la sola – commedia sud-coreana on the road realizzata interamente e con pochi mezzi da Noh Young-seok che firma, oltre la regia, la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio, le scenografie, i costumi e le musiche. Tutto tranne che la recitazione.

Una pellicola gustosa e divertente – premiata in patria come miglior film coreano al Festival Jeonju 2008 – il cui pregio sono proprio la freschezza del tocco e la gradevolezza della narrazione per offrirci un spaccato del disagio dei giovani della middle class, tra disoccupazione e ricerca di emozioni nuove.

Hyuk-jin, giovane introverso e dal cuore spezzato, durante una classica sbronza viene convinto dall’amico Gisang a prendere il largo e raggiungere la pensione del fratello, in un posto poco lontano dal mare. Solo che l’indomani Hyuk-jin si ritrova solo – gli amici gli hanno dato buca – in un luogo che non conosce e, per una serie di (assurdi) equivoci, finirà in un’altra pensione e verrà bidonato da una coppia di coetanei. Non un capolavoro ma una commedia fatta con passione ed entusiasmo.

Il brasiliano “Filmefobia” gioca invece sull’ambiguità del rapporto realtà-finzione portandolo all’esasperazione. Narra la storia di Jean-Claude (Bernardet, vero cineasta e intellettuale molto conosciuto in Brasile), un regista settantunenne che sta girando un documentario in cui persone affette da particolari fobie si trovano ad affrontare situazione ansiogene. Per lui, infatti, la sola immagine veramente autentica è quella di un essere umano alle prese con le angosce più profonde. E vuole capire e riflettere sul perché questi uomini e donne hanno accettato di partecipare al film e, quindi, di affrontare le loro fobie, cioè situazioni di panico quasi incontrollabile, al limite della sopportazione.

Tra riflessione profonda e distaccata delle paure nella società contemporanea e cine-verità, “Filmefobia” è in bilico tra repulsione ed attrazione, proprio come le persone che si offrono come cavie al regista e al pubblico. Non è un caso se tra gli ‘esperti’ chiamati a esprimere la loro opinione c’è il bizzarro regista horror José Mojica Martins. E poi lo stesso Jean-Claude afferma spesso che “l’immagine è la verità”, ma quale? Quella che vediamo o quella che “interpretiamo”, dato che tutto si confonde e, a volte, soltanto un’idea di verità può farci paura. E qui ci sono diverse (verità nascoste) perché si tratta del documentario (making off) su un documentario (vero). Oppure finto? Sta a voi deciderlo.

Purtroppo nella fretta e, fra una corsa e l’altra, c’eravamo scordati l’altro italiano della giornata, non che fosse meno importante ma l'avevamo visto la mattina e non si tratta stavolta di un documentario, ma di fiction. Ma una fiction particolare perché “Beket” di Davide Manuli (in concorso per “Cineasti del presente”) è un’opera davvero diversa, originale, particolare, che prende spunto da Beckett (e lo porta in Sardegna) per “sperimentare” con il linguaggio cinematografico, come si faceva spesso in Italia oltre trent’anni fa. La sua “commedia surreale”, infatti, sta a metà strada tra lo sperimentale e l’underground anni ’60-’70. Non solo “nouvelle vague”, anche se il il bianco e nero, e il giocare con le battute, l’ironia e i generi (il western) ricorda (ancora) l’ex rivoluzionario Godard. Certo, stile e linguaggio sono personalissimi e il tutto è visto col filtro della nostra società contemporanea. Però, per i due simpatici e bizzarri protagonisti, Godot non arriverà nemmeno stavolta.

La storia è senza tempo: sul ciglio di una strada sperduta in un paesaggio desertico, Jajà (Jerome Duranteau) e Freak (Luciano Curreli) s’incontrano a un’improbabile fermata d’autobus, fanno conoscenza e scoprono che entrambi vanno da Godot. Ma la corriera non si ferma, anzi vola, e i due si incamminano verso la méta. Incontreranno bizzarri personaggi, quali il mariachi (Freakantoni, ex cantanti degli Skiantos e autore delle musiche), l’agente speciale 06 (un irriconoscibile e gustosissimo Fabrizio Gifuni) – comunica con l’agente 08 (Paolo Rossi), Adamo ed Eva (Simona Caramelli), fino alla musa (Letizia Filippi della “Domenica Sportiva”) sulla spiaggia in Costa “Paradiso”.

José de Arcangelo