giovedì 6 settembre 2012

Robert Redford, attore e regista, conquista il pubblico del 69° Festival di Venezia, ma delude i fan

Fuori concorso, la nuova fatica da regista (ma anche da protagonista) di Robert Redford, una storia che ha più di un punto in comune con quelle interpretate per il suo mentore Sidney Pollack (vedi “I tre giorni del condor”) e, soprattutto, per Alan J. Pakula (“Tutti gli uomini del presidente”), frutto del suo impegno civile nato subito dopo, “The CompanyYou Keep”, dal romanzo omonimo di Ron Jacobs, sceneggiato da Lem Dobbs. Infatti, il divo - che ha incontrato anche il Presidente Napolitano ma si è rifiutato di firmare autografi - ha confermato il suo sostegno a Obama, che è favorevole al cambiamento, mentre i repubblicani – che rappresentano "l’un per cento, e sono solo gli straricchi" – vogliono che tutto resto com’è. Inoltre, ha detto che ‘ribellarsi è ancora giusto' e che dobbiamo cercare di lasciare alle nuove generazioni una società meno marcia.

Jim Grant (Redford) è un avvocato che si occupa di diritti civili e un padre single che vive con la figlia in un tranquillo quartiere alla periferia di Albany, New York. Il suo mondo viene sconvolto quando uno spregiudicato giornalista, Ben Shepard (Shia LaBeouf), rivela che Grant è un estremista pacifista – ex terrorista attivo anni ’70, sostenitore della protesta contro la guerra del Vietnam e partecipante a una rapina finita nel sangue -, evaso e ricercato per omicidio. Dopo essere vissuto per più di trent’anni nei panni di un legale, ora Grant deve darsi alla fuga: diventato l’obiettivo di una sfrenata caccia all’uomo per tutti gli States scatenata dall’Fbi, si mette in viaggio alla ricerca della persona che può dimostrare la sua innocenza.
Un teso e lucido thriller che riflette - rispecchia - sulla società e sulla politica contemporanee dell’America, e la nuove generazione confuse e già deluse. Grande cast di ‘coetanei’ di lusso come Julie Christie, Nick Nolte, Susan Sarandon, Sam Elliott e Richard Jenkins. Ma in concorso è stata presentata la non meno attesa – almeno da critica e cinefili - opera del filippino Brillante Mendoza “Thy Womb” e il belga “La cinquième saison” di Peter Brosens e Jessica Woodworth. Shaleha Sarail vive a Sitangkai, un villaggio sull’acqua nell’isola di Tawi-Tawi. Questa provincia, situata nella parte più meridionale delle Filippine verso gli arcipelaghi malese e indonesiano, è dedita alla produzione di alghe marine. Shaleha, donna ormai matura, al terzo aborto spontaneo, si dispera per l’impossibilità di aver figli, lei che fa proprio la levatrice. Nonostante sia madre adottiva di un nipote, sente che il marito Bangas ha ancora il desiderio di diventare padre. Per appagare il sogno del marito ed essere benedetta da Allah, la donna decide di intraprendere un’altra strada: troverà una nuova moglie per Bangas.
Amore e sacrificio per un personaggio, bello ma tragico. “Il film analizza – afferma l’autore - la contrapposta natura di due donne (la sterile Shaleha e la fertile Mersila) per riflettere sulle condizioni di vita a Tawi-Tawi, un luogo ricco di risorse e di bellezza naturale ma impantanato in una crisi economica e socio-politica. Un tranquillo inferno in un paradiso…” Siamo dalle parti della metafora apocalittica del nostro mondo, nell’altro film in concorso, “La quinta stagione”, infatti, è quella della fine del mondo, provocata da noi stessi che avviamo avvelenato aria, acqua e terra. E trova conferma nel detto “non ci sono più stagioni” e nella crisi (quasi) globale. Un’opera enigmatica e, se vogliamo, sperimentale, sicuramente anticonvenzionale dal punto di vista narrativo, ma suggestiva da quello visivo.
Su un villaggio nel cuore delle Ardenne si abbatte una misteriosa calamità: non arriva la primavera. Il ciclo della natura si è capovolto. Inverno – In cui Alice, figlia di un contadino, e Thomas, un adolescente solitario, sono innamorati. In cui l’annuale falò che celebra la fine dell’inverno non riesce ad accendersi. Primavera – In cui le api scompaiono, i semi non germogliano, le mucche si rifiutano di produrre latte. In cui si ha la prima vittima. Estate – In cui un venditore ambulante di fiori porta al suo passaggio una gioia effimera. In cui abbondano gli insetti, sale il panico, esplode la violenza. Autunno – In cui ogni cortesia è svanita. In cui gli angeli prendono la fuga.
Nella sezione Orizzonti un altro film italiano, “Bellas mariposas” (ovvero ‘Belle farfalle’) di Salvatore Mereu, dal racconto postumo di Sergio Atzemi, vicende di due adolescenti prigioniere di un ambiente ‘mostruoso’ e senza futuro. 3 agosto, Cagliari, quartiere popolare. Alle tre di notte, Cate (voce narrante della storia), undicenne, viene svegliata dalle grida di una stravagante vicina. Cate vorrebbe fuggire da quella casa, dai numerosi e problematici fratelli, dal padre tiranno. Solo Gigi, vicino di casa, merita il suo amore. Lei non vuole finire come sua sorella Mandarina, rimasta incinta a tredici anni. O come Samantha, ragazza desiderio e oggetto del quartiere. E oggi, 3 agosto, la vita di Gigi è in pericolo: Tonio, fratello di Cate, lo vuole uccidere. Cate corre ad avvisare Luna, la sua migliore amica. Le due trascorrono il giorno più lungo della loro vita tra la città, il mare e mille avventure.
“Quando lessi per la prima volta ‘Bellas Mariposas’ – confessa il regista - ne rimasi abbagliato. Tanto dalla trama, lieve e terribile, e dalle modalità con cui essa si dipana, quanto dalla forma, musicale e inusitata, soprattutto nell’adozione spregiudicata della lingua del luogo. Nella letteratura sarda, mi pare, mai tanta grazia e tanta leggerezza si erano coniugate ad accadimenti anche drammatici. Ogni più piccolo episodio della giornata mirabile di Cate e di Luna anche quando sarebbe meritevole, nelle mani di altri, della peggior cronaca, è sempre stemperato da un’ironia sottile e da una capacità di sorridere di se stessi rara nella nostra letteratura e nel nostro vissuto almeno quanto l’intrusione continua della lingua parlata in quella scritta”. L’altro film è l’algerino “Yema” diretto e interpretato da Djamila Sahraoui, ‘tragedia greca in Algeria’ come la definisce l’autrice stessa, tra rabbia e vendetta, su una madre divisa fra i due figli in un paese devastato dalla guerra. Una casupola abbandonata nella campagna algerina. Ouardia ha sepolto qui il figlio Tarik, un soldato forse ucciso dal fratello Ali che è a capo di un gruppo islamista.
E’ sorvegliata da uno degli uomini di Ali che ha perso un braccio in un’esplosione. In questo universo teso, carico di dolore e indebolito dalla siccità, la vita si impone nuovamente un po’ alla volta. Grazie al giardino che Ouardia fa rinascere a forza di coraggio, lavoro e testardaggine; e al sorvegliante, anch’egli vittima, alla fine adottato dalla donna. Grazie soprattutto all’arrivo del figlio di Malia, una donna amata dai due fratelli e morta di parto. Ma Ouardia non è giunta ancora al termine delle sue sofferenze. Ali, il figlio maledetto, ritorna gravemente ferito. José de Arcangelo