venerdì 31 agosto 2012

Il cinema di ieri e di oggi: Zac Efron e Francesco Rosi protagonisti della terza giornata al Lido

L’idolo delle ragazzine in passerella al Festival di Venezia 2012, perché protagonista di uno dei film in concorso di oggi, “At Any Price” (Ad ogni costo) di Ramin Bahrani, ovvero il Zac Efron che ha conquistato milioni di fan in tutto il mondo con “High School Musical”.

Stavolta però il giovane attore affronta un argomento serio e un ruolo più maturo e impegnativo. La pellicola narra la storia, ambientata nel competitivo mondo dell’agricoltura moderna, dell’ambizioso Henry Whipple (Dennis Quaid) che pretende che suo figlio, il ribelle Dean (Efron), lo aiuti nella gestione delle terre per espandere l’impero di famiglia. Ma il ragazzo mira a diventare pilota professionista di corse automobilistiche. Quando la loro azienda è sottoposta a un’indagine ad alto rischio, padre e figlio si trovano ad affrontare una situazione inattesa che minaccia la sopravvivenza dell’intera famiglia.
“Io non volevo narrare una storia con una morale – afferma durante la conferenza stampa Ramin Bahrani -, ma suscitare delle domande nel pubblico. Il film ha un'ambientazione molto americana, ma io credo che i temi affrontati siano universali, soprattutto in tempo di crisi come oggi. La scelta della famiglia di unirsi e proteggersi a vicenda è una scelta comprensibile. Io non voglio giudicare i miei personaggi, ma solo raccontare storie”. “Mi è piaciuto tantissimo interpretare un personaggio così complesso come Dean – ribatte Zac Efron -. Ho capito il suo rapporto con entrambi i genitori. Per il padre il sogno americano è quello di espandersi o morire, mentre Dean non è disposto a seguire le sue orme, e in questo modo fa anche un sacco di sciocchezze per ribellarsi alla situazione in cui si ritrova”.
“I miei genitori sono entrambi iraniani – dichiara il regista -, ma nel 1968 si sono trasferiti negli Usa. Sono cresciuto in un paesino del North Carolina, ho studiato a New York e poi ho passato tre anni in Iran. In quel periodo ho imparato sulla vita più cose che in tutto il tempo restante. Questo mi permette di guardare il mondo da un punto di vista diverso e per questo mi sento molto fortunato”. L’altro film in gara è “Paradise: Faith” di Ulrich Seidl, coproduzione tra Austria, Francia e Germania. In“Paradies: Glaube” (titolo originale), il regista si chiede che cosa significa portare la croce. La protagonista Annamaria, tecnico radiologo, è convinta che il Paradiso si trovi in Gesù, e dedica le sue vacanze a opere missionarie, perché l’Austria possa essere ricondotta sulla retta via. Durante il suo pellegrinaggio quotidiano attraverso Vienna, la donna va di casa in casa, portando con sé una statua di trenta centimetri raffigurante la Madonna. Un giorno, dopo anni di assenza, il marito di Annamaria ritorna: è un musulmano egiziano relegato su una sedia a rotelle; a quel punto, gli inni di lode si uniscono ai litigi. “Paradise: Faith” racconta la via crucis di un matrimonio e il desiderio d’amore, ed è il secondo episodio della trilogia “Paradies” (Paradiso, appunto) di Seidl. “Paradies: Liebe”, la prima parte, è incentrata invece su Teresa, la sorella di Annamaria, che trova il paradiso in Kenya, in un amore più terreno.
Ma oggi è stato anche il giorno di Francesco Rosi, Leone d’oro alla carriera in ottimo equilibrio fra impegno e spettacolo, fra sociale e politico. Un premio che per l’autore di “Salvatore Giuliano” e “Le mani della città” – e compagno di scuola del Presidente Napolitano - doveva essere arrivato da tempo, ma che oggi serve a ricordare la grandezza di un autore e del nostro cinema, esempio ed orgoglio dell’Italia fino agli anni Settanta, perché la quantità era allora anche qualità, creatività (anche collettiva) e vera scuola. Fuori concorso, presentato il documentario “Sfiorando il muro” di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi, sugli anni Settanta e le Brigate Rosse, visti da un particolare, personale, punto di vista. La prima comunione e il blitz del 7 aprile, i giochi con le amiche e il rapimento di Aldo Moro. Una bambina di allora che ricorda manifestazioni e scritte sui muri con turbamento. C’è un perché: il padre dell’autrice, Graziano Giralucci, venne ucciso con Giuseppe Mazzola nel 1974 dalle Brigate rosse all’interno della sede del Msi di Padova. Furono le prime vittime delle Br. Per capire come sia stato possibile accettare e considerare inevitabile la violenza politica l’autrice cerca chi la violenza l’ha praticata, chi l’ha subita, chi l’ha combattuta: dagli autonomi ai
ragazzi del Fronte della Gioventù, dal magistrato Pietro Calogero, autore del blitz del 7 aprile contro Toni Negri, a Guido Petter, docente universitario ex partigiano che venne colpito a colpi di martellate sul capo, fino al sindacalista che divenne ‘infame’ e fu costretto a nascondersi per anni solo per aver raccontato alla magistratura tutto quello che ricordava del suo periodo di militanza in Potere operaio. Questo viaggio tra punti di vista diversi e a volte inconciliabili diventa per l’autrice anche un modo di riconciliarsi con la difficile memoria del padre, un martire simbolo per la sua comunità politica, una vittima a lungo considerata colpevole per il solo fatto di essere di destra, un papà presente solo nei sogni. Nella sezione orizzonti è stato presentato “Wadjda” di Haifaa Al Mansour che descrive la condizione femminile nei paesi arabi attraverso le vicende e lo sguardo di una bambina. Infatti, Wadjda, la protagonista, è una ragazzina di dieci anni che vive in un sobborgo di Riyadh, la capitale dell’Arabia Saudita. Pur vivendo in un mondo
conservatore, Wadjda adora divertirsi, è intraprendente e si spinge sempre un po’ più in là nel cercare di farla franca. Dopo un litigio con il suo amico Abdullah, un ragazzo del vicinato con cui non dovrebbe giocare, la bambina vede una bella bicicletta verde in vendita. Wadjda desidera la bici disperatamente per battere Abdullah in velocità, ma sua madre non gliela concede, poiché teme le ripercussioni di una società che considera le biciclette un pericolo per la virtù delle ragazze. Un film importante in tutti i sensi perché non solo è il primo lungometraggio prodotto interamente in Arabia Saudita, in coproduzione con la Germania, per di più diretto da una donna al suo debutto nel film a soggetto, ma anche perché divento lo specchio non troppo velato di una società in cui la donna è ancora sottomessa a leggi, mentalità e potere completamente maschili. Ancora fuori concorso, il cinese “Tai-chi 0” di Stephen Fung, mix di generi e stili, mezzi e gusti. Ma soprattutto trionfa l’impatto visivo e una certa freschezza del tono, che suppliscono alla mancanza di originalità nella storia e nel disegno dei personaggi.
Yang Luchan, insolitamente dotato, aveva da bambino una carnosità anomala (sorta di corno) sulla fronte che gli conferiva un potere straordinario. Deriso da tutti, Yang obbedisce alla madre che lo sprona a praticare le arti marziali e parte per il villaggio di Chen, con l’intento di imparare il Tai Chi. In questo luogo leggendario tutti gli abitanti lo praticano e lo usano in ogni circostanza della vita; ma vige tuttavia il divieto di svelarne i segreti agli estranei. Infatti, al suo arrivo, la gente del luogo lo scoraggia sfidandolo in combattimenti: uomini forti, vecchie e bambini, tutti sopraffanno Yang con le loro mosse di Tai Chi. Sconfitto infine nella battaglia più aspra dalla bella Yuniang, figlia del maestro Chen, Yang decide di imparare a fondo l’arte del Tai Chi, proprio dal maestro Chen…
“Tai Chi è una trilogia d’azione – afferma il regista -, incentrata sul viaggio dell’eroe all’interno di un universo dalla ‘storia modificata’. Invece di operare nell’ambito di un contesto storico ben definito, il film mescola elementi di varie epoche della Cina del passato e fonde insieme in un modo singolare generi cinematografici diversi. Quando si è trattato di decidere l’aspetto del film, io e il produttore Chen Kuo-fu ci siamo trovati perfettamente d’accordo sulla necessità di creare qualcosa di fresco che potesse piacere a un pubblico giovane. Per quanto affascinante fosse la storia vera dell’arte marziale del Tai Chi, non abbiamo mai pensato di realizzare un sermone sulla sua filosofia; abbiamo invece lasciato che il suo spirito e la sua filosofia filtrassero dentro la storia in modo naturale, quando la narrazione lo richiedeva”.
Sempre fuori concorso il più atteso “Bad 25”, documentario di Spike Lee su Michael Jackson, portato al lido dal regista stesso. Il film commemora il 25° anniversario di “Bad”, l’album di Jackson, ed è arricchito con dei filmati girati allora dallo stesso Michael, mai visti prima d’ora. Il documentario si divide in due parti: artisti influenzati da Michael e persone che hanno lavorato insieme a lui (tra cui Scorse che diresse il videoclip), musicisti, parolieri, tecnici, impiegati della casa discografia, tutti impegnati al disco successivo al più grande successo di tutti i tempi, “Thriller”. Tra gli intervistati ci sono Mariah Carey, L.A. Reid e Sheryl Crow (che era stata corista nel tour Bad).
José de Arcangelo