giovedì 25 giugno 2009

La Mostra del Nuovo Cinema finalmente in Piazza, tra Israele e una Madrid inedita


PESARO, 25 – Dopo aver visto finalmente in Piazza (dopo tre giorni di maltempo) il secondo film di finzione di Raphael Nadjari “Tehilim – Salmi”, l’intenso dramma familiare che affronta anche gli argomenti delle scomparse (e lutti) e della religione, delle contraddizioni e del paradosso di un paese dalla cultura (provenienza) ‘multietnica’ e che, al tempo stesso vorrebbe restare monolitica (come ha preteso per quasi 50 anni, dal 1948 alla fine del Novecento); abbiamo visto il primo esempio di mix tra cinema e video-arte firmato Ran Slavin “The Insomniac City Cycles”. Un’opera, quindi, particolare ed alternativa, di ricerca e sperimentazione che colpisce perché è una sorta di somma di tutte le arti, e di conseguenza di tutti i media. Un lungometraggio che fa della città (Tel Aviv soprattutto, ma anche Shanghai e Changdu) non un oggetto qualsiasi, ma una protagonista assoluta che si allarga, si sdoppia, si muove, prende vita. Lo spunto, ovvero la storia è una sorta di giallo-enigma che ricorda lontanamente “Apri gli occhi” di Amenabar (poi “Vanilla Sky” nella versione americana), perché lo spettatore dovrà aspettare la fine per scoprire il chi e il perché dell’intera vicenda, che è comunque ‘traccia’ per un’espressione artistica visiva e sonora ‘nuova’, dove i dialoghi ci sono soltanto quando servono.

A Tel Aviv, un uomo soffre di insonnia e cerca di ricordare se davvero qualcuno gli abbia sparato in uno dei parcheggi sotterranei della città. L’uomo non riesce a capire più cosa sia vero e cosa sia un sogno, mentre la metropoli assume le sembianze della condizione umana.

Un (non) film d’autore a tutti gli effetti, anche perché il regista è un artista polifacetico – musicista e videoartista, lavora tra cinema, musica digitale, acustica e pittura, ed ha partecipato alla Biennale Architettura di Venezia 2004, per il padiglione israeliano – che ipnotizza e trascina in un viaggio che coinvolge i nostri cinque sensi. Ma, probabilmente, non il grande pubblico.

“E’ un’opera senza fine – dichiara il regista, che infatti l’ha rimontato e rielaborato più volte -, uno spazio aperto che accoglie lo spettatore e lo lascia libero di volare tra inquadrature, effetti visivi e suoni per costruire il proprio viaggio onirico. E’ un film di fantascienza noir sperimentale”.

Nella mattinata di oggi abbiamo visto il cortometraggio di un’altra autrice israeliana, Maya Zack, che lavora nel mondo della videoarte confondendo/mescolando il linguaggio cinematografico con altre forme di espressione. “Mother Economy” è infatti un’opera che segue le azioni di una casalinga all’interno di una casa durante il nazismo. La donna, in una sorta di trance, si muove, organizza, effettua calcoli, elabora. E il film riflette sulla condizione, sulle capacità e sulle numerose risorse dimostrate dalle donne anche durante un periodo così violento.

“Attraverso la protagonista – confessa l’autrice – ridefiniamo il tradizionale ruolo femminile della semplice casalinga: essa si trasforma in scienziato meticoloso e artista devoto del proprio territorio”.

A seguire l’interessante tavola rotonda sul Cinema Israeliano Contemporaneo – a cui la Mostra ha dedicato un interessantissimo volume omonimo (Saggi Marsilio) - da cui sono venute fuori riflessioni e argomenti tanto interessanti quanto complessi. Ne parleremo a lungo domani.

Presentato ieri anche il terzo film in concorso, “La sirena y el buzo” (t.l. La sirena e il palombaro) di Mercedes Moncada Rodriguez, coprodotto da Spagna, Messico e Nicaragua, dove invece è stato interamente girato, lungo tre anni e diversi viaggi. Ancora una docu-fiction che mescola più forme espressive (anche l’animazione/rielaborazione digitale) e, se volete, più generi per raccontare un paese, anzi un’etnia, quella degli indios mesquitos.

“Tutti i piani narrativi si confondono e si confrontano – dice l’autrice -, ho preferito la forma della favola ma raccontandola con gli strumenti del documentario. Non pretendo di innovare né di imporre nulla, ma come spettatrice mi annoio molto se vede cose non originali, che hanno poco da dire. Perciò ho privilegiato le cose che avrei voluto vedere da vedere. Riguardo ai contenuti, invece, voleva mostrare una parte sconosciuta del Nicaragua; di farne un ritratto del paese, attraverso la forma e la ricerca nel raccontarlo”.

In questo modo si confondono efficacemente realtà e fantasia, momenti di vita vissuta e leggenda.

Il corpo del sommozzatore Sinbad compare alla deriva della costa atlantica del Nicaragua. Una sirena trasferisce la sua anima nel corpo di una tartaruga, per mezzo della quale Sinbad riesce a tornare (rinascere) nel mondo degli umani ma…

Lo spunto della storia è stato dato alla regista dalla morte di un vero palombaro (vero anche il suo funerale nel film), i ‘cacciatori’ di aragoste che vengono spesso sfruttati dalle aziende che le esportano, e che spesso muoiono al lavoro. L’autrice però ha sentito dire “è stato toccato dalla sirena”, che è la rassegnata giustificazione delle morti trovate in fondo all’oceano.

“Ne muoiono molti – aggiunge -, è un problema che esiste. Volevo raccontare con le immagini, con un senso ontologico, senza intermediari, ma accessibile, fruibile a tutti”. E, sulla assenza di dialoghi veri e propri, afferma: “I dialoghi sono una forma di espressione sopravvalutata nel cinema. Io volevo comunque farmi capire da tutti senza eccezioni e l’ho fatto con le immagini”.

Seconda ‘nottata’ anche per la sezione dedicata alla videoarte, “A mezzanotte” nel dopo festival a Palazzo Gradari. Questa notte di scena gli autori italiani.

José de Arcangelo