venerdì 26 giugno 2009

Pesaro 45°. Israele tra pace e guerra, dramma e thriller


PESARO, 26 – Ieri è stata la volta della tavola rotonda sul Cinema Israeliano Contemporaneo, con autori, registi, critici e studiosi, alla 45a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Un’occasione unica per conoscere i retroscena produttivi, culturali ma anche socio-politici e religiosi di un paese che resta ai più ancora sconosciuto, al di là e al di fuori dell’eterno conflitto israelo-palestinese.

“La situazione che si è creata alla fine del XX secolo – esordisce Ariel Schweitzer, storico del cinema, critico e docente universitario -, una profonda crisi di finanziamenti legata al disinteresse delle istituzione statali, ma anche da parte del pubblico, nei confronti del cinema nazionale ha fatto scendere la produzione a 5/6 film all’anno. Un gruppo di cineasti decise allora di organizzarsi e indire una serie di manifestazioni politiche e azioni molto spettacolari e mediatiche al fine di modificare la politica governativa in materia cinematografica. Nel 2000 il governo vota una nuova legge per il cinema che garantisce il raddoppiamento dei finanziamenti governativi a favore degli istituti di produzioni cinematografica. Attualmente il budget è sui 12milioni di euro, ma ogni anno oscilla tra gli 11 e i 14milioni di euro, fatto che garantisce una certa stabilità nel settore. In secondo luogo è stato firmato un’accordo di coproduzione con la Francia, elaborato dal Centre National de la Cinématographie (CNC) e dal Consiglio israeliano del Cinema. Ora la produzione si aggira sui 25 lungometraggio di fiction e di un centinaio di documentari all’anno. C’è stato anche uno sviluppo delle scuole di cinema che oggi sono 17, una cifra rilevante per un paese abbastanza piccolo e dove si laureano circa duecento studenti all’anno. Molti di loro, ovviamente, lavorano per la tivù o nel settore audiovisivo, visto che i giovani cineasti non sono più disposti ad aspettare 10/15 anni per poter realizzare l’opera prima, ma almeno 3 o 4 anni”

“L’essenza di questa tragedia – afferma il giornalista Umberto Di Giovanangeli, da oltre vent’anni testimone privilegiato del conflitto israelo-palestinese – è il dialogo; nella specificità non è la lotta del bene contro il male, del torto contro la ragione, ma lo scontro di due diritti, due ragioni ugualmente fondate. La pace non può essere calata dall’alto, o imposta dall’esterno. Sono importanti sia il ruolo dell’Onu, sia quello di Obama, ma è soprattutto importante il ruolo della cultura, del riconoscimento dell’altro da sé, nell’identità dell’altro. Un crinale molto complesso che viene affrontato ora dal cinema, ma prima ancora dagli scrittori israeliani. Si tratta di un fatto doloroso, di rinunciare ad un ‘pezzo di terra’, ma bisogna rifletterci su noi stessi per radicalizzare l’idea del dialogo. La nascita di Israele è stata nel dolore, nella catastrofe di un altro popolo. Per tanto tempo la politica che esprimeva Golda Meir era ‘La Palestina è terra di un popolo per un popolo senza terra’. La cinematografia israeliana sta compiendo questo lavoro per far capire che il dialogo non è possibile se non si pensa alle fondamenta. Non offre una visione consolatoria e accattivante di Israele, non (gli) serve una visione europea. Israele non è più azkenazita, quella dell’élite culturale che mirava ai nostri valori (europei ndr.). Ha subito profonde modifiche demografiche e attraverso il cinema viene fuori tutta la sua complessità. Non bisogna dimenticare che oggi il terzo partito di governo è formato da una comunità russa diventata importante; ricordare che una minoranza fortemente presente rappresenta l’altra faccia del fondamentalismo islamico; che dietro l’assassinio di Rabin non c’erano solo fanatici ma la roccaforte zelota. Bisogna pensare che si tratta di un altro popolo, non solo di una terra espropriata. Una storia che la cultura nazionale comincia oggi a ripensare”.

“Tutte le osservazioni vanno discusse – dichiara il regista Raphael Nadjari -, bisogna abbandonare la visione strettamente politica per un approccio diverso, non dimenticare i punti di vista altrui. Mettere in discussione e rielaborare, condividere il processo (di pace ndr.) non il risultato. Il cinema israeliano propone affermazioni molto forti, spesso contraddittorie, anche se non tutte sul conflitto, ma rimanda una cosa per tenere in vita tutte le cose, tutte le posizioni. Bisogna metterle insieme per decidere, fare uno sforzo per dare un contributo. Tutte le voci vanno ascoltate, ognuno può esprimersi nel modo in cui desidera e confrontarsi con gli altri. Riuscire ad apprezzare qualcosa di diverso da noi, definire se stessi e la propria opera. Il cinema è forse il linguaggio più straordinario per riuscire finalmente a dire certe cose, allontanandoci dalla visione politica del mondo, e scoprire la forza del dibattito civile. E sarà in costante evoluzione finché tutti avranno diritto alla parola”.

Naturalmente si è parlato anche di molto altro, della nuova espressione nella video arte, di un cinema che affronta il conflitto, anche criticamente verso la stessa Israele, da più punti di vista, e altri problemi non indifferenti come il ‘consumismo’, la religione, la famiglia. Ogni argomento e ogni problema, attraverso mezzi di espressione e linguaggi diversi, dalla satira al grottesco, dal documentario alla metafora; della necessità di scoprire altri ‘generi’ e non solo il dramma (familiare) o il film di guerra, come afferma Danny Lerner di cui proprio ieri abbiamo visto “Frozen Days”, un thriller il cui riferimento è Roman Polanski (da “Repulsion” in poi) ma che potrebbe essere una sorta di “donna che visse due volte” (di Alfred Hitchcock) nell’attuale Israele. O, se volete, un polar o un giallo che diventa specchio distorto della schizofrenia della società israeliana, divisa tra voglia di pace e guerra permanente.

Infatti, abbiamo visto anche “Close to Home” di Dalia Hager & Vidi Bilu (2005) che narra la storia di due ragazze poco più che diciottenni, Smadar e Mirit, dai caratteri completamente opposti che stanno prestando servizio militare con il compito di perlustrare le strade del centro di Gerusalemme e controllare i documenti dei (presunti) cittadini palestinesi.

“Le protagoniste – affermano le registe – prestano servizio militare operando controlli di polizia, perché una di noi ha realmente svolto quel tipo di attività. Attraverso quell’esperienza è stato possibile mostrare il nostro punto di vista sull’occupazione israeliana di questa città in conflitto”.

E per ciò vengono fuori contraddizioni e disagi, dubbi e speranza, come accade spesso ad ognuno di noi, che non siamo i governanti che ci rappresentano e ci governano. Il film colpisce proprio perché ci mostra due ragazze che vorrebbero vivere la loro vita come tutte le altre ma che devono essere severe e diffidenti verso gli altri, anche quando non ne hanno voglia.

D’altra parte abbiamo visto il toccante ed illuminante documentario di Barbara Cupisti “Vietato sognare” che affronta il conflitto israelo-palestinese e la speranza di pace, partendo da due testimoni/protagonisti di eccezione. L’ex combattente palestinese Ali Abu Awwad, uno dei leader del movimento pacifista “Al Tariq”, e l’ex soldato israeliano Elik Elhanan, portavoce dell’associazione “Combatants for Peace”, cercano una soluzione al conflitto con il dialogo. E lo fanno insieme, tanto che sono diventati ‘amici’. Un film che, prodotto da Rai Cinema, non ha avuto ancora un passaggio televisivo, segno che la nostra tivù pubblica ‘usa i nostri soldi’ per poi non farci vedere le (rare) cose importanti e meritevoli che produce. Il film – che ha già ottenuto qui a Pesaro il premio di Amnesty International Italia – non ha ancora una distribuzione (tranne nel circuito Arci) e non è stato ancora mandato in onda. Fatto che è accaduto anche a “Madri”, il precedente documentario della Cupisti – presentato al Festival di Venezia – e di cui questo è l’ideale proseguimento.

José de Arcangelo