martedì 23 ottobre 2007

Festa del Cinema: impegno e comicità con Redford, Cruise, Davi, Bogdanovich e Totò

ROMA, 23 – Il regista Robert Redford e il protagonista Tom Cruise di “Leoni per agnelli” (in anteprima e nelle sale a Natale) ‘non hanno dato buca’ alla Festa del Cinema. E meno male perché i loro colleghi (anche meno famosi) all’ultimo minuto o ci hanno ripensato o hanno avuto dei “problemi” per raggiungere il nostro paese in tempo. Giustificato il grande Sidney Lumet a cui il medico, per un problema all’udito, ha proibito di prendere l’aereo, ma il suo nutrito cast di star vecchie e nuove non si è minimamente degnato di farci una visitina, anzi hanno lasciato “solo” il produttore a presentare il film “Before the Devil Knows Your’re Dead”. Certo in un festival dovrebbero contare più gli autori e gli attori, piuttosto che le star. Ma per la “Festa” (non solo) il pubblico e i giornali pretendono divi da sfoggiare. E oggi lo potranno fare.

“L’origine del film? – dice Redford ‑ Ho ricevuto il copione (di Matthew Carnahan, “The Kingdom” ndr) a cui erano interessati entrambi (Meryl Streep e Cruise ndr), ho visto che era molto intelligente, che non riguardava la guerra in Iraq, ma un tema molto più profondo, gli effetti e le conseguenze sul nostro paese. Ha molti dialoghi, è impegnativo, interessante, riguarda molte delle cose che ci hanno interessato negli ultimi anni. Che uno appena uscito dal carcere, potesse scrivere una sceneggiatura così ti colpisce – scherza ‑. Ho sentito che Matt è seduto lì, non è vero niente è tutto uno scherzo. E poi il fatto che potesse essere fatto adesso, quando non ci sono molti film così, infatti, escono buone pellicole d’azione ed effetti speciali, ma pochi affrontano i temi che hanno toccato il nostro paese e che riguardano tutto il mondo”.

E poi chiarisce: “Se questo fosse stato semplicemente un film sulla guerra, probabilmente non avrebbe suscitato il mio interesse, perché sapevo che questo argomento comparirà in molte trasposizione cinematografiche nel tempo. Invece, quello che mi interessava è il modo in cui la storia utilizza la guerra per raccontare tre vicende personali su dei problemi che mi stanno molto a cuore: il ruolo dei media, dell’istruzione, della politica e della gioventù negli Stati Uniti. Quello che mi interessava in particolare era l’idea che queste storie, in qualche modo, potessero essere messe insieme in maniera drammatica, per spingere il pubblico a riflettere su quale sia la nostra situazione attualmente”.

Il Senatore che aspira alla Presidenza Jasper Irving (Cruise) sta per fornire una storia sensazionale su una nuova strategia bellica ad una giornalista televisiva (Streep). Un professore un tempo idealista, Malley (Redford) si confronta con uno studente capace e smaliziato, che ha bisogno di una spinta. Nel cuore della battaglia in Afghanistan, due ex studenti di Malley, i volontari Arian (Derek Luke) ed Ernest (Pena) vivono sulla propria pelle i dibattiti e i discorsi dei mentori e dei politici in un accesso combattimento per la sopravvivenza.

“Quando ho sentito che Bob voleva fare film così mi ha entusiasmato moltissimo – afferma Cruise ‑ anche a Meryl. Ho studiato la sua carriera, come cineasta, come attore, come uomo, come ha fondato il Sundance, come ha rotto con il sistema degli studios e ha fatto i film che voleva fare. Opere come “Il candidato”, “Tutti uomini del presidente”... Quando ho fatto “Taps” con Timothy Hutton, Bob gli aveva appena dato la sceneggiatura di “Gente Comune” (il film premio Oscar dove Hutton era protagonista ndr), e ho notato allora che davvero riesce sempre a comunicare delle idee importanti in modo appassionante, in qualcosa che è anche bello da vedere. Penn (Sean) e io mettevamo sotto Timothy per sapere che effetto faceva lavorare con lui, gli chiedevamo ‘cosa ti dice’. Ora a distanza di anni, poter lavorare con lui è stato straordinario. Il mio personaggio è molto reale, non una caricatura, la sua complessità, la sua intelligenza, certo è molto diverso di come sono io. E poi recitare faccia a faccia con Meryl Streep!”.

“Il mio interesse in politica è come cittadino e artista – confessa l’autore-attore ‑, si hanno due scelte, o uno si interessa o è indifferente. Io volevo comunicare alcune cose che sentivo, in particolare l’amore per il mio paese. Ho avuto la fortuna di essere nato e cresciuto in America. Ma quando le virtù (libertà, democrazia) scompaiono, vengono sbiadite, non rispettate tutto cambia. ‘Il candidato’ era qualcosa di appassionante, una frecciata su alcune cose che succedono durante la campagna elettorale, e mi sono adattato al periodo (anni ’70) per far vedere come vengono scelte queste persone. Un fatto molto dark, e molto buffo, devono usare una sorta di maschera. Anni dopo, quando il giornalismo stava salvando il primo emendamento dagli abusi terribili sulle leggi e i diritti nel mio paese (‘Tutti gli uomini del Presidente’). ‘I 3 giorni del condor’, narrava di un’agenzia (la Cia ndr) che non risponde e non deve rispondere a nessuno, e in che modo questi abusi possono toccare una singola persona. Ora c’è internet, la tivù via cavo, si crea più informazione, ma anche la possibilità di manipolarla di più. Oggi più che mai questi cose succedono, ci sono tanti problemi. Abbiamo perso delle vite umane, i sentimenti, la nostra posizione di rispetto, anche socialmente. Il rapporto tra i media e il paese, la scuola, i giovani credo siano un problema analogo negli altri paesi. I giovani devono prendere in mano la possibilità di farsi sentire, oppure volgeranno le spalle perché sono stufi, ma possono prendere posizione. Nel film si raccontano tre storie, tre ambiti, e le conseguenze su due soldati cresciuti credendo di lottare per il proprio paese, e alla fine vediamo cosa succede”.

“Il nostro paese – continua Redford ‑ è molto polarizzato, molto diviso, la vita è troppo complicata, quasi in bianco e nero. Tutti i media sono cattivi, o tutti i politici. Bisogna riconoscere quelli che controllano i media, la politica. Fin dall’inizio, dal 9/11 inpoi, ci hanno provato. Moltissimi erano terrorizzati, non capivano cosa succedeva o quello che sarebbe successo. Dovevamo accantonare tutto, la libertà di espressione e di sapere. Nel nostro paese quel partito politico aveva il controllo di entrambi i rami del Congresso, tutto il potere era nelle loro mani per fare quello che volevano. Oggi finalmente abbiamo scoperto la verità, perché, come e a quale prezzo siamo andati in guerra. Allora non l’hanno fatto. Per paura, o rispetto o per il controllo dei media da parte delle grandi imprese, ma era una posizione politica ben precisa e per quello non hanno voluto dirci niente. Il cinema non dà risposte pone solo alcune domande, propone, forse, persone diverse, ruoli diversi per dirci che non possiamo, non dobbiamo ripetere gli stessi errori. Si possono dire delle cose rilevanti attraverso lo spettacolo, in modo non propagandistico, su personaggi in conflitto gli uni con gli altri. Ha un ruolo da svolgere, ma non di propaganda. Come ha, forse, solo il documentario”.

Redford, che recita anche nel ruolo del professor Malley, secondo Cruise: “Si cala nel personaggio nel senso strutturale, con grande forza intellettuale. Mentre eravamo faccia a faccia con Meryl, entrava Bob. Lei si girava e… era davvero la stessa inquadratura di ‘La mia Africa’, tanto che io dicevo ‘scusa puoi ripetere’. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone che ammiro, con cui avevo sperato sempre di lavorare. Con lui come attore, diretto da lui, anche con Meryl. La sceneggiatura mi ha appassionato moltissimo perché affronta un tema che nessuno ha raccontato. Entusiasmante. Straordinario”.

“Non so molto dei festival – risponde il regista interpellato sul tema star o meno ‑, conosciamo Cannes, il Sundance Filmfest. Non so da cosa dipenda il successo dei festival. Credo lo sia già il fatto di farlo a Roma dove c’è arte, cultura, tutto lo avete già qui. Mi sarei domandato perché non farla. Non credo sia necessaria la presenza delle star. Al Sundance ci sono nuove voci, nuovi talenti, nuove tendenze e scoperte. Negli ultimi anni al Sundance ci sono state molte star che recitano nel cinema indipendente e vogliono venire. Non dipende dalle star, ma dai giovani talenti. Non penso che sia così, spero che ogni festival ce la faccia per il proprio valore non per le star che porta”.

“Non lo considero affatto un film di guerra – riprende Cruise su “Lions for Lambs” ‑, spero sia un film che fa riflettere il pubblico, che possa spingerlo a costruire un dialogo, che metta le persone a confronto con le proprie responsabilità. E che, come ‘Tutti gli uomini del Presidente’, fra cinque anni sia ancora valido. Se fosse uscito negli anni ‘70, avrebbe avuto una sua pregnanza, quello che spero abbia, ma non so che effetto avrà. Lo abbiamo proposto in molte università dove ha stimolato moltissimo le persone a parlare e a discuterne”.

Con i due divi anche i giovani interpreti Andrew Garfield e Michael Pena, nei ruoli dei giovani soldati e allievi di Malley (Redford). “Abbiamo girato per varie parti del paese, fino a Philadelphia, prima di tutto mi dicevano ‘hai un accento strano, viene dall’Inghilterra?, ‘No, da Chicago’ – afferma Garfield (che però è cresciuto a Londra, dove ha studiato recitazione ndr) – ‘Cosa studi?’ Pensavo soprattutto a questa cosa. Dopo questo film dovrò ripensarci, mi vergogno di quello che volevo studiare. Non è come una pacca sulle spalle, ha un effetto forte, credo, al cento per cento”.

“E’ bello sentirmi rappresentato da uno come lui – dice Pena ‑. Ti fa sentire felice, un artista, fare dei film dove i giovani fanno sentire la loro voce, il loro sogno e che se vogliono cambiare le cose ci riescono”.

“Tutti hanno la possibilità di parlare liberamente – aggiunge Cruise ‑, i film servono alla sensibilizzazione e non solo alla conversazione, permettono di attraversare i confini della comprensione e del rispetto reciproco. Io, allevato da una madre single e con delle sorelle, sognavo luoghi come questi, viaggiare fin qua su, e da attore ho questo privilegio, posso permettermelo. Vedo talmente tanti conflitti che potrebbero risolversi con la comunicazione e il dialogo. Credo che la comprensione sia l’unica soluzione possibile, anziché costruire delle barriere tra le persone che producono invece degli stereotipi. Sono stato in molte parti del mondo, ho potuto immergermi in culture diverse e ho imparato ad avere grande rispetto e comprensione per queste culture. Da ragazzino, al cinema scoprivo tanti mondi diversi, affinità e comprensione di mondi diversi. Anziché essere sospettosi su certi aspetti, bisogna dialogare”.

“Sono ottimista e pessimista al tempo stesso, suppongo – afferma Redford ‑, sono sensazioni che cerco di trasmettere alle persone. Non so se questo cambierà la politica, volevo solo riflettere. Abbiamo una speranza, ma non credo di sperare che il film cambi le politiche, quando si hanno tante cose da perdere, incluso il lavoro, credo che la gente si risvegli perché vuole proteggerle”.

“La cosa più straordinaria nella mia vita – confessa Garfield ‑, lavorare con tre persone che rispetto profondamente, perché sono cresciuto guardando i loro film. Per la mia generazione è molto importante capire queste cose, che c’è qualcosa da fare in questo campo. E’ stato coraggioso mettermi in questo film, perché avevo bisogno di risvegliarmi. Nella mia esperienza personale, ho cercato di immaginare ogni rapporto dal punto di vista del personaggio, contro la guerra, col male. Di vedere altre facce, altri punti di vista. Vedendo il mondo attraverso la vicenda dei soldati, perché noi non siamo costretti a guardare la realtà in faccia, loro lo fanno per noi. Scopri gli aspetti fantastici di lavorare con loro, cosa che ti dà ispirazione, ti avvicina alla cultura, al cinema”.

“A me non me ne importava nulla della politica – ricorda l’attore-regista ‑, di chi governava o meno, finché non venni in Europa, a Firenze, per studiare Storia dell’Arte. Andavo negli ostelli della gioventù, viaggiavo tanto. I miei compagni, i miei amici mi dicevano ‘come fa a non importarti niente’, e ho cominciato a guardare il mio paese da un punto di vista politico europeo. E’ stata una scoperta dal valore inestimabile per me, perché ho guardato il mio paese da un altro punto di vista, dal di fuori. Oggi i miei figli e nipoti sono incoraggiati a mettere molta attenzione a quello che succede al di fuori dal loro cerchio. E’ un mutamento inevitabile come l’oscillare del pendolo. Negli ultimi anni i giovani non si sono impegnati, sono apatici, menefreghisti. Proprio perché è il vostro futuro, il loro futuro, spero possano viverlo come catalizzatore. Il pendolo si sta spostando sempre di più, i giovani si chiedono c’è qualcosa che posso fare, cominciano a domandarselo”.

“Mi ricordo – conclude il divo Cruise – quanto abbiamo cercato di guardare alla complessità vita, e quando abbiamo cominciato il film, di aver guardato tutto l’ultimo secolo. Questa è una delle cose che apprezzo perché non solo siamo arrivati al convincimento che la guerra non ha mai risolto nulla, ma che l’unico modo di evitarla è farsì che le persone possano vedere i caduti come persone in carne e ossa. E che è costosissima. Oggi che le informazioni sono moltissimi, è come se ci fosse meno comunicazione e meno comprensione possibile. E’ come un conflitto nato dal passaggio dall’inglese all’italiano, una frase o una parola tradotta o interpretata male. E’ un esempio semplicistico, ma che accade”.

ROMA, 23 – “Da quando cominciai ad andare al cinema – esordisce l’attore Robert Davi, regista esordiente di “The Dukes” omaggio all’Italia e all’italianità della sua famiglia ‑ i primi film erano italiani: Fellini, De Sica, Pisolini. Avevo letto un articolo, sulla terza via di Tuffler, dalla rivoluzione industriale a quella tecnologica, e volevo descrivere cosa succede in una persona, come avere un sogno che possa cambiare l’immagine di se stessi. Ho visto e ascoltato i cantanti anni ’50- ‘60 che rappresentavano nelle loro canzoni quello che avevano e facevano nella vita. Volevo, in una fase di transizione come quella attuale, che ci fosse un po’ di divertimento che ci riportassi a tempi un po’ più gentili”.

Infatti “The Dukes” sembra una sorta di “Soliti ignoti” in salsa musical

“La mia famiglia è italiana – aggiunge Davi, “cattivo” doc del cinema americano ‑ e il senso dell’umorismo sempre ha avuto un ruolo importante in famiglia, un po’ come per Fellini (vedi “Amarcord” ndr), è il senso della vita. E (Peter) Bogdanovich (uno dei protagonisti e il più esilarante ndr) è uno dei più divertenti, anzi divertentissimo”.

“Mi piacciono i film di Davi – afferma l’autore di “L’ultimo spettacolo” ‑, mi ha detto che questo era molto divertente e la mia parte era molto bella. Per riuscire a far ridere bisogna cercare di non essere molto divertente, bisogna essere onesti, entrare nella parte. Mi piacciono i film comici perché secondo me la miglior cosa che si possa fare è far ridere la gente. Quando Gwen (Edmund, il grande attore ndr) stava morendo gli hanno chiesto ‘come ti senti?’, e lui risposi ‘E’ dura ma non tanto come fare un film divertente’. Spesso ci sono cose esagerate, basta riportarle alla realtà, in tanti film italiani troviamo la comicità della vita, quella di tutti i giorni”.

“Ci sono anche altre donne nel film – dice Elise DeJoria ‑, ma certamente è un film di Davi, c’è la musica e l’atmosfera, è un piacere lavorare con loro, ho imparato tanto per il mio mestiere, è stata una bellissima esperienza. Dovevo cogliere un po’ la parte che dovevo svolgere. Mi sembrava di stare un sogno, e mi piace recitare”.

“La conosco, è una mia amica – confessa il regista ‑, ho visto in lei un certo non so che, ma veniva respinta da uno degli attori. Avrei potuto mettere un’altra, ma non sarebbe stato lo stesso lavoro. Respinta, perché ha la capacità di trasmettere chi era”.

“Ho scelto tutte le musiche dopo averle riascoltate ancora una volta – continua ‑, le prime immagini delle musiche che conoscevo (molte italiane ndr), la musica popolare, l’opera e quindi Paolo Conte (ben sei canzoni ndr). Ho trovato lo spirito dei personaggi, vivo a Los Angeles e ho tutto i suoi cd. Mi piacciono le ‘immagini’ delle sue canzoni, regalo le sue canzoni agli amici. E chi lo conosce lo ama immediatamente. Volevo dare il ritmo e lo spirito attraverso la colonna sonora, e trasmettevano un certo senso agli attori. Chiunque può fare una canzone sul gelato al limone ma non come lui. Piace a tutti, volevo venisse fuori tutto”.

“Bruni (Sergio), invece, rappresenta un po’ la metafora di quello che accade ai personaggi-attori nella transizione. Al ristorante, la musica di Pavarotti è il tema per Joseph Campanella, il vecchio italiano. Negli anni ’80 avevo letto articolo su un italo-americano che entrava in un locale per cercare lavoro e veniva preso per ladro. Il riferimento è il Fellini di “Le notti di Cabiria”, perché mi ha molto colpito. Volevo anche Nino Rota e quel tipo di atmosfera”.

“Certamente stavo facendo il cattivo, ma a volte i sogni assumono una particolare rilevanza, anche il tempismo è particolare. E’ proprio così, molto semplice. E’ difficile a Los Angeles, invece, fare un film. Succede poi che si incontra una persona, come Frank Visco (uno dei produttori ndr), italiano nato a Caserta, ci si conosce e… Siamo diventati ottimi amici, poi ha sentito l’idea di questo film e mi ha detto: ‘facciamolo’. Ci ho messo tanto, non è che posso dire ‘io sono ‘un cattivo’ e voglio fare un film’. Non è così automatico. Voglio ringraziare Piera Detassis (direttrice della sezione Premiere ndr), sono felice di essere qui. (dopo un calido applauso e in italiano) Non mi fate così che mi emoziono e… il cattivo si mette a piangere (si emoziona veramente)”.

“E’ molto difficile come ci siamo incontrato Robert e io – dichiara Visco ‑. Letto articolo sulla sua partecipazione a ‘007 – Vendetta privata’, dove gli chiedevano si avesse voluto fare qualcosa di diverso e lui ha parlato di ‘The Dukes’. Gli dissi ‘Ho letto l’articolo e so che vuoi fare questo film, sul sogno che riguarda una persona che aveva avuto una seconda possibilità nella vita. Mi è piaciuta la sceneggiatura e questo suo modo di fare film. ‘Se io posso contribuire al sogno, dico, lavoriamo tutti insieme per realizzare questo sogno’. Questa è stata la mia avventura e sono molto stimato per averla fatta. Ho riconosciuto il lavoro che tutti fanno per un film. Dal più umile al più famoso hanno lavorato moltissimo, dai tecnici agli attori. Mi ha fatto piacere lavorarci”.

“Non ho mai pensato a ‘The Blues Brothers’ – aggiunge Davi ‑, mi ricordo il film, mi è molto piaciuto ma non ci avevo pensato, casomai ai ‘Soliti Ignoti’ di Monicelli, a ‘I vitelloni’ di Fellini, dove un giovane girava in continuazione ma non ai Blues Brothers”.

“Mi è piaciuto ‘Big Night’, già avevo scritto una prima stesura della sceneggiatura e ho notato ‘la stessa sensibilità’. Voglio lavorare in Italia, ma ho in progetto prima un film a New York con cast italiano e americano, e dopo cioè una sceneggiatura ambientata a Roma. Dio piacendo, e se Visco fa soldi con questo film saremo a Roma fra qualche anno. Ci sarà anche Peter (Bogdanovich) con noi. Sempre con un personaggio divertente”.

A proposito di attualità e dell’11/9, dice: “Volevo allontanarmi dalla paura e dal terrore, l’idea che c’è il black out (nella sua pellicola, ma non c’è panico né terrore ndr) ma si può sempre accendere una candela. Che fosse un po’ sentimentale, che il pubblico se ne tornasse a casa con una sensazione di speranza”.

Gli americani vedono gli italiani sotto un’atmosfera romantica, non vedono che l’Italia è cambiata. ‘Mio fratello è figlio unico’ per me è un grandissimo film sull’Italia contemporanea. America pensa ancora allo stereotipo del mafioso italo-americano, io questo fatto la voglio affrontare nel prossimo film “Little Al”, su un gruppo di siciliani di NY. Ho parlato con Riccardo Scamarcio a LA. Vedremo, se tutto va bene sarà anche lui nel cast”.

“Credo che Robert abbia già risposto – aggiunge Bogdanovich ‑, c’è un cliché americano, io ho partecipato anche a ‘I Soprano’ ma credo riguardassi più gli americani che gli italiani.

“E’ come Jerry Lewis – afferma Davi. E Bogdanovich ribatte, “Sì ho questo aspetto un po’ mesto, ma sono in realtà divertentissimo”.

“Ieri all’Excelsior, appena arrivato, e Peter era dietro di me era preoccupato perché c’era sciopero. Pensavo che non fosse arrivato. Ma, dopo 36 ore di aereo era disperato, e aveva perso il bagaglio. Per me era una situazione divertentissima. Praticamente non aveva neanche le mutande però il sorriso era sempre lì”.

“I miei genitori – racconta Bogdanovich ‑, quando sono nato erano tristi, non per colpa mia, ma perché anni prima avevano perso un bambino. Pensavo fosse io a renderli infelici e ho cercato di divertirli. Poi ho capito che non era così. La comicità è una cosa molto complessa, come regista ho scoperto delle persone (l’irresistibile Streisand di “Papà ti manda sola?” ndr), ma non ha nessuna relazione col mio ruolo. Ho semplicemente accettato, neanche pagato molto (scherza), ma adesso sta recuperando.Intendo fare altri film come regista, ho realizzato due documentari, l’anno scorso uno su John Ford, ora uno su John Paddy. E’ divertente seguire una band rock, forse avrei dovuto fare il rockettaro. E ne farò uno a gennaio, di suspense, basato su commedia omonima, dove una famiglia pianifica un omicidio e poi tutto va storto. Voglio fare ancora due o tre film”.

Incontro anche per ricordare il grande Totò, a cui Extra rende omaggio con la proiezione di “Un principe chiamato Totò” di Diana de Curtis (la nipote) e Barbara Calabresi.

“Lui separava completamente il suo lavoro dalla sua vita privata – dichiara la figlia Liliana ‑, diceva che casa poteva essere quella di un notaio. Sono un operaio dello spettacolo, e a casa mi levo la tuta. Una vita normalissima dentro casa, sobrio e severo, odiava chi urlava. Odiava il volgare ladruncolo, non sono assolutamente io. Ma amava la sua maschera, lavorare per avere successo. Non finiranno mai di amarlo. Bambini piccolissimo lo amano per quello che lui è riuscito a comunicare, e ormai siamo alla quarta generazione. Riusciva a comunicare umanità, ognuno di noi puoi identificarsi con lui perché non è mai l’avventuriero, è un ladruncolo che ruba per mangiare”.

“Un dovere di chi fa mestiere – sostiene Alessandro Gassman ‑, collaborare a questo ricordo, perché fa parte della cultura di questo paese. Totò sta al livello delle maschere della commedia dell’arte, che più passa il tempo più sono inimitabili. Il paese sembra abbia subito una sorta di alluvione (riguardo alla cultura e l’arte ndr). E come la gente comune che si adopera per salvare le opere d’arte, mi sento uno con l’acqua alla gola che salva un’opera d’arte unica e irripetibile”.

“Ho fatto tanti anni di avanspettacolo all’Ambra Jovinelli (1960/61), dove si incontravano spesso lui e il padrone che gli faceva vedere dal palchetto pochi muniti di qualche comico. Io dicevo ‘Perché non mi fai conoscere Totò’, il proprietario rispondeva ‘A’ Lì non l’ho mai fatto per nessuno, ti faccio un biglietto per Totò, il principe ti darà dei soldi ma non li accettà’. La fame allora era terribile, ma dissi ‘Non accetto’. Andai dove abitava, via Monte Parioli, credo, mi l’autista Cafiero, ‘Ho un biglietto per il principe’ lo prese e glielo portò. Tornando mi disse ‘Questo te lo manda il principe’. Tastai la busta e capì che c’erano dei soldi, ‘Dica al principe che non ho bisogno di soldi, devo lavorare’. ‘Accettali’, mi replicò, ‘No mi ha detto di non prenderli’. Ho dato la parola d’onore Graziani’. Allora il principe mi ricevette e mi chiese ‘Di dove sei?’, ‘Io sono pugliese’, ‘ah di dove’, ‘di Andria. Sono un comico d’avanspettacolo. Lino Zagara, Zaga’. ‘Cambialo subito – mi disse ‑ i diminutivi dei nomi vanno bene, ma quelli dei cognomi portano male. Poi mi chiamarono per fare una cosettina in un film, e pensai non ho il cognome giusto. Devo fare il manifesto da Giustino disse il padrone. ‘Lino lasciamolo, Zaga levalo’. Apro registro alunni viene fuori Banfi. Il padrone del ristorante mi disse speriamo diventi famoso così paghi i buffi”. Poi il popolare racconta (e fa vedere la foto accanto a Totò) del Festival dell’avanspettacolo (63/64), quando faceva il terzo attore nella compagnia di Beniamino Maggio, che vinse il primo premio e c’erano tutti Sordi, Mastroianni. Mentre si stava struccando gli è capitato vicino Totò ed ecco la foto. “Mi fa continuamente parlare con lui, penso se fosse qui gli sarei piaciuto. Ho anche qusta fotina che mi ha dato l’anziano proprietario di una ricevitoria dove Totò sta compilando la scheda, ho fatto un fotomontaggio e pare che stiamo insieme, e tutti a dire ‘beato te che l’hai conosciuto’. La suggestione della gente verso mostro sacro non gli fa capire che è un falso, anche perché la mia è recente. Ho fatto un sogno vero, raccontato sul mio blog, ero in galleria che compilavo la schedina con lui. Che fate, si ricorda di me, dammi del tu, Antonio. Le anima come siete tutti insieme come siete magri, tutti uguali, Fabrizi è sempre stesso, stiamo cercando un ruolo per un pugliese, Proprio adesso ti servo. Ma prima che facciamo la lavorazione passeranno 25 anni, ma poi è un corto... Poi vedevo mio padre e Totò che mi dicono ‘sì fallo’. Credo sarebbe venuto anche lui a vedere ‘L’allenatore nel pallone 2’”.

“Il film l’abbiamo costruito a casa nostra – confessa la nipote Diana ‑, noi viviamo con Totò, abbiamo le cose del nonno. Calabresi (Laura), mamma e io, la cosa particolare del documentario è che è la voce di Totò che ci racconta la sua vita, mentre Alessandro è la voce narrante. Sono cose che le sento dentro di me, di settant’anni fa. Storia intima, sentimentale, familiare, e poi Lino, Alessandro, i grandi del cinema. Tenero e affettuoso e si vede una parte di Totò. Antonio sta qui con noi, ci guarda. Vissuto a Roma, ed è a Napoli con i nostri bambini della Sanità, i figli di Totò, gli alunni della Scuola Giovanni XXIII, sono il futuro quei bambini che erano allora erano Totò. Roberto è il piccolo Totò mentre Lorenza è il futuro. Totò è dentro di noi, è un cartone animato, è tutto. Tutti si sono affascinati a questa storia”.

Il fatto che Totò non venga ricordato e celebrato come dovrebbe è segno – secondo Gassman ‑ dell’incapacità cronica dell’istituzione che si deve occupare, che non distingue tra qualità e quantità, è la malattia grave di questo paese. Totò non ha bisogno di difesa, di considerarlo un monumento, ma considero sia un dovere oltre che un piacere per tutti di farlo. Io ho cercato di farlo il meglio possibile”.

Il museo al Palazzo dello Spagnolo verrà aperto all’inzio del 2008, dove ci saranno tutte le cose di Totò, ma anche uno spazio per le scuole, un locale per il teatro, per non fare stare i ragazzi in mezzo alla strada, ma in una struttura protetta. Scuole per ragazzi in difficoltà, in un quartiere in difficoltà, che è il messaggio che lui voleva dare.

“Collaboriamo con questa scuola – conclude Liliana – da 23 anni, i ragazzi stanno fino alle 5 del pomeriggio, e quattro ragazzi stanno già al conservatorio. Potranno così avere un futuro nell’arte, nello studio, nei mestiere. Diventeranno musicisti, attori, artisti. Un punto di riferimento dove lui è il patrono, il San Gennaro della situazione, diciamo”.

José de Arcangelo