venerdì 8 luglio 2016

A Pesaro, nell'ambito della 52.a Mostra, tavola rotonda sul cambiamento della narrazione nel cinema italiano e della sostituzione dei generi con i format

PESARO, 8 luglio – Mattina incentrata sulla Tavola Rotonda “Romanzo Popolare” dedicato al cinema italiano ‘a confronto’. Sono intervenuti: il direttore artistico della Mostra Pedro Armocida e Laura Buffoni, curatori del libro omonimo, dal sottotitolo ‘Narrazione, pubblico e storie del cinema italiano negli anni Duemila’ (Marsilio editore), Daniele Vicari, Antonietta De Lillo, Stefano Rulli, Nicola Lusuardi, Adriano Aprà, Bruno Torri, Francesco De Pace, Giona A. Nazzaro, Massimo Galimberti, Raffaele Meale, Federico Pedroni, Monica Stambrini e Boris Sollazzo. Cosa è cambiato o non è cambiato nel nostro cinema? Ovviamente tutto e niente, i generi quasi scomparsi ricompaiono in opere che li sviluppano o li mescolano ad altri ma soprattutto quella che è cambiata è la narrazione, il linguaggio che è diventato una sorta di ibrido attraverso i diversi mezzi o format. Infatti si è parlato sul cinema come racconto anzi come arte del racconto. Pedro Armocida ha aperto il dibattito sottolineando come il volume e la sezione intendano approfondire il cambiamento dello storytelling nel cinema italiano, a cui è legato anche il cambiamento della fruizione e della scrittura. “Non è un’epoca di generi – esordisce Daniele Vicari -, ma di formati, perché sono stati superati dai fatti, oggi esiste una mescolanza dei generi che è diventata ormai internazionale. Sono esplosi i formati, utilizzati anche dai cineasti più affermati, gli autori si misurano con altri serie e formati. Il documentario d’autore seriale non è un genere ma un formato. I riferimenti al passato, ai vecchi codici non è importante. Oggi i cineasti fanno anche serie tivù o sul web o spot o film d’arte, in questo senso ritengo sia vecchio il discorso sui generi, se si lavora nel cinema. Quando sono arrivato alla sceneggiatura del mio film tratto dal libro di Carofiglio (“Il passato è una terra straniera” ndr.), non mi sono mai messo il problema della provenienza ma su alcuni elementi della pulsione narrativa, l’incontro-scontro dell’amicizia virile. Il racconto al di là di un’appartenga a un genere o meno, il racconto sulla carta, quando giro o monto non tengo conto di certi criteri tipici del genere che adopero. E’ un magma pieno di possibilità. Ormai da tempo si discute e si dice che l’autore è morto. Il riferimento a Griffi, quando ci siamo confrontati con gli autori, vent’anni fa, mi disse che l’autore era bello che seppellito lo dimostrava il video attivismo politico che era anche giustamente scomparso. Il Youtober si dichiara autore, a prescindere dalla qualità, perché il suo è un atteggiamento autoriale, cerca un rapporto intimo tra te e l’opera, resuscitano la figura dell’autore, la restaurano, cambiano e modificano. Non escluderei possano venir fuori dei grandi autori perché vengono seguiti da milioni e milioni di persone. E’ un punto di vista forte, e nessuno può rimanere indifferente al fenomeno, perché si rischia di venir tagliati fuori dalla storia Nessuno oggi può affermare che il Cinema si fa in un certo modo, perché in realtà si fa in tutti i modi possibili ed immaginabili”. “Oggi si può raccontare la stessa storia su piattaforme diverse – ribatte Antonietta De Lillo -, il rapporto romanzo e cinema non è più quello di una volta, la stessa storia viene declinata in maniere e generi diversi. Non esiste più un originale, ma più declinazioni. Negli anni ’80 trovavi più formati, ora la narrazione ha più declinazioni. Io ho deciso di girare in 16 mm, un film in costume come un documentario (“Il resto di niente” ndr.), usare più linguaggi e contaminarli fra loro. Volevo mettere il documentario al servizio di un racconto storico, infatti, si cerca sempre con quale pennello scrivere la storia. La cosa più innovativa in realtà è che oggi tutti sono autori, la trasformazione non è tanto usufruire della rete, quanto trasformare l’io narrante in un noi, credo sia necessaria ritornare racconto comune perché ha un suo valore culturale; oggi abbiamo maggiori possibilità di conoscere la capacità di narrare (dai comici, alla cronaca, dal regista al fotografo). L’immagine vive un momento di rivoluzione della vita perché ci sono narrazioni diverse”. “Vorrei fare un passo indietro – ha detto lo sceneggiatore Stefano Rulli -, credo che la questione di genere non si possa risolvere così semplicemente. Con gli anni si è ampliata la divisione tra cinema d’autore e cinema di genere, e solo la serialità è riuscita a rompere questa dualità. Tra Storia e Autore c’è un problema di definizioni, contrassegnato da una contrapposizione mentre il cinema è segnato da un sentimento, prima era diviso tra cinema d’autore, serie A, e generi, serie B. ‘Tutti a casa’, ‘La grande guerra’, ‘Il sorpasso’ dovevano essere considerati film di autori, secondo la prima divisione, invece, appartenevano al ‘genere’ commedia. La serialità conoscitiva dei generi, forse, deve imporre il rapporto tra i concetti. L’importante è quanto pesano le idee e quanto siano parti dalla narrazione; in base a questo, allora si diceva se fare il film o la serie televisiva. A me affascinava fare un film da ‘Romanzo criminale’, e mi sono imposto di chiudere in due ore una storia pazzesca, il romanzo (e la serie) è molto più collettivo, difatti, il cinema ha bisogno di un centro. In questo caso, come i vecchi barbari volevano conquistare Roma, si trattava di una banda di giovani che decide di prendersi Roma. La serie, infatti, prende di più il punto di vista del libro”. “Poi, per ‘Romanzo di una strage’, su Piazza Fontana – prosegue -, mentre stavo scrivendo mi sono reso conto che la struttura narrativa non ce la faceva più a raccontare quella vicenda tragica. Bisognava restarne fedeli ai fatti e rimanere nell’ambito di un film, era un discorso che il cinema non se lo poneva da anni”. Lo sceneggiatore Nicola Lusuardi (“1992”) ha rilevato come il discorso sul seriale abbia generato una retorica che rischia di mutare in ideologia: “Non mi sono fatto carico del cambiamento – sostiene Lusuardi -, il discorso sul seriale ha provocato una retorica, perché esiste un pubblico internazionale che chiede un contenuto diventato attraente, cristallizzando una posizione che porta a sopravvalutare un ‘genere’, che per tanti anni era stato sottovalutato. In Italia c’è sempre un ritardo di talenti e competenze sulla televisione. Altri paesi, meno carichi di pregiudizi, hanno valutato il settore. E oggi gli autori mi inseguono per sapere da me se un’idea o progetto sarebbe giudicato in modo positivo o meno sul piccolo schermo. Il modello seriale attorno all’idea televisiva è finito anche quello, le serie oggi sono belle attraenti sfidanti, perché l’hanno spuntata in mezzo ai fatti quotidiani”. “Ma bisogna non ricadere nell’errore perché anche il formato seriale continua a trasformarsi – prosegue - le grandi narrazioni non vengono più prodotte e distribuite, il cambiamenti sono dal serial al trans mediale. E’ stato sottovalutato il tempo della narrazione e della fruizione che prima era diverso, il tutto nasce dalle conseguenze linguistiche, oggi le grandi narrazioni televisive devono usare anche lo spazio come parte narrativa, si lavora sulla metafora degli spazi, sul modello della Marvel, si ragiona su universi dentro universi, è il pantheon del fumetto, sta accadendo che tutti – come prima pensavano alla storia – pensano al concept di molte storie, prese in prestito in termini di mondi, e capire se mettono a disposizione obiettivi estetici, poetici; lo spazio è l’opportunità creativa. Ma non tutto va bene per tutto, si pensa che qualsiasi cosa possa divenire seriale, in un mondo in cui tutto sembra possibile, e noi affiniamo cosa è possibile qui, cosa è possibile là”. “Ho deciso di non praticare un certo tipo di formato – riprende Vicari -, perché la serie televisiva noir presume la rimozione della tragicità, un racconto storico che mette fuori campo le conseguenze delle uccisioni, provoca una visione che io considero distorta e su quel dato, soprattutto sul gangster movie, inevitabilmente l’eroismo dei protagonisti fa passare in secondo piano le conseguenze delle loro azioni. Io non la trovo praticabile, non credo nel realismo di certo tipo di cinema e serie tv, pur calato nella realtà. Non sono il soggetto giusto per fare pubblicità alla mafia, io distruggerei questo tipo di serie, vado dalla parte opposta. Se vedi il racconto del poliziotto senza quello delle conseguenze delle sue azioni sulle vittime tu cambi canali; al cinema forse non esci, ma le conseguenze di uno stupro sono terrificanti, non raccontarle in qualche modo ne crea un’apologia. Oppure dovresti fare come si faceva nello spaghetti western, dove apparentemente ne fanno fuori 400 ma non c’è l’elemento umano, ma se calo in un contesto realistico personalmente lo rifiuto, non sono in grado di farlo”. “Questa sezione è stata definita come prospettiva anziché come retrospettiva. Ciò sarebbe vero se i film che ne fanno parte introducessero un’innovazione nella narrazione italiana, ma non è così” ha messo in evidenza Adriano Aprà, a cui è seguito un intervento della Buffoni per chiarire come la sezione non riguardi il concetto di nuovo o quello di futuro, ma la mutazione dello storytelling. A questo punto la discussione si è concentrata sul serial americano da cui è partita ‘la scomparsa del tragico’, ovvero sul modello dei “Soprano”, la cui carenza maggiore è nei tentativi portati verso una serialità. “La ricaduta del tragico è dovuta al ‘mise en abisme’ del personaggio – aggiunge Patrizia Pistagnesi -, non all’esterno ma nel personaggio stesso e nel suo rapporto col mondo esterno, etico-estetico, il tentativo maggiore da cui ripartire è stato ‘Romanzo criminale la serie’ che applica in modo encomiabile il ‘mise en abisme’ dei personaggi, una tensione meccanicistica, robotica, che la cultura anglosassone protestante faceva da sempre, la discussione tra bene e male, a partire da questa rimozione da un certo punto in poi è diventata la regola. Altrimenti il pericolo dell’estetica Marvel che è il simbolo dell’accumulo narrativo dei nostri tempi, a tutto scampo della ‘mise en abisme’ degli antieroi, disperati, in quanto sono persone”. “La ‘mise en abisme’ o il caracter driven è fondato sul personaggio – affermano e confermano Di Pace, Nazzaro e lo stesso Lusuardi -, anzi sulla scissione del personaggio, come nell’Amleto dove, per la prima volta, è passato questo tipo di conflitto interiore che non si può risolvere, è lo show della distruzione del personaggio dissociativo. Un conflitto in due nomi paradigma di molte serie, anche ‘Romanzo criminale’ stessa, e alcune raggiungano un equilibrio meglio di altre. ‘Gomorra’, invece, è un’arena driven, un luogo territorio in sé che genera conflitto, siano due persone fra di loro, oppure diversi eserciti. E ‘Gomorra’ non è Napoli ma Scampia, è un’arena non ha niente di realistico se non come funzione estetica. Come in ‘Games of thrones’ ci sono tre lord in lotta fra loro su quel territorio, se leviamo tutti i punti di vista, non c’è tradimento al realismo, perché Scampia è the Kingdom, perciò la capiscono bene gli anglosassoni e i giapponesi”. Bruno Torri cerca di smorzare i toni, ricordando come la verità si ottiene solo attraverso la ricerca, e non con giudizi o sentenze. Francesco Di Pace ha fatto notare come la tv generalista stia scontando un forte ritardo, soprattutto per motivi politici, rispetto alla pay tv, mentre Giona A. Nazzaro ha riflettuto sulle diverse modalità con cui oggi si possono fruire i contenuti televisivi. “Sono d’accordo, e aggiungo che cambiando la fruizione cambieranno anche i modi di esprimersi” ha ribattuto Massimo Galimberti. Raffaele Meale ha manifestato le proprie preoccupazioni sul continuo tentativo di porre dei paletti riguardo alla narrazione, sostenendo come essa non sia assente nel cinema ma nel quotidiano. “Io preferisco un bel film tradizionale che un brutto film innovativo o sperimentale” ha dichiarato provocatoriamente Federico Pedroni, affermando come la sua personale scommessa sia quella di arrivare ad un forma di ibridazione tra popolare e autoriale. Monica Stambrini (regista di Queen Kong, proiezione speciale alla 52. Mostra, cofondatrice de Le ragazze del porno, gruppo di registe italiane) ha affermato che nuove forme di narrazione possono nascere anche da un genere cinematografico come quello pornografico. “I momenti di maggiore rivoluzione cinematografica sono avvenuti proprio quando il cinema viveva crisi di sistema. Questo è stato possibile perché in questi momenti gli addetti ai lavori si sono posti una semplice domanda empirica: Stiamo morendo?” ha concluso Boris Sollazzo. José de Arcangelo