mercoledì 24 ottobre 2007

Festa Internazionale del Cinema: Il leggendario Terrence Malick e il mitico Sean Penn

ROMA, 24 – Dopo gli italo-americani di “The Dukes”, l’attesa era tutta per Sean Penn e il suo nuovo film “In the Wild” con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, Jena Malone, Catherine Keener, Vince Vaughn e William Hurt. Un dramma, ispirato a un fatto vero e tratto dal libro “Nelle terre estreme” di John Krakauer (Corbaccio).

Ottenuta la laurea e con un promettente futuro davanti a sé, Christopher McCandless decide di abbandonare la sua vita agiata, di cancellare la sua identità e di partire alla ventura senza lasciare tracce, verso l’ignoto. Anzi, verso l’Alaska. Le tappe ora dure ora gioiose del viaggio di un giovane, audace e ingenuo, idealista e sensibile alla ricerca di se stesso, ma anche della felicità e della verità. Ma si sa, la natura può essere matrigna.

“L’avevo visto in un film – esordisce Penn a proposito del protagonista, Hirsch ‑, l’aspetto fisico, il suo modo di muoversi mi spingevano a credere che fosse giusto per la parte. Per qualche mese, ho passato del tempo insieme a lui per capire se avesse la volontà e la forza per passare 8 mesi in circostanze difficili. E’ la più grande scommessa che abbia vinto”. Già perché il giovane in ascesa, visto in “Alpha Dog” e “The Dangerous Lives of Altar Boys”, se la cava più che bene in un ruolo difficile e fuori dagli schemi.

“Penso e trovo un’infinità di cose che mi fanno arrabbiare – aggiunge l’attore-regista presentatosi con occhiali da sole e poco concentrato ‑, ma non credo di poter trovare l’ispirazione su questa base. Quando la stupidità raggiunge un volume troppo alto, questo sì mi fa arrabbiare profondamente. Suppongo che la mia esperienza più vicina a certi aspetti del film può essere quel periodo della mia vita passato sull’oceano, ma non credo a quel livello. Scusate, ma forse ho bevuto troppo vino rosso ieri sera”. Aggiunge per giustificare una certa distrazione.

“Suppongo di essere stato molto ripetitivo, ma penso che veniamo (gli Usa e l’Occidente) da un periodo in cui abbiamo sviluppato una dipendenza al confort, e che ciò susciti nei giovani la reazione di uscire da queste condizioni, riguardo a quello che gli altri ci dicevano di fare o volevano che facessimo. Dobbiamo fare battere i nostri cuori più velocemente. Due elementi principali mi hanno fatto da ancora, una parte della storia è mossa dalla fuga, dalla corruzione della vita che lo circondava; l’altra è l’inseguimento di qualcosa, un posto che avesse un senso per lui, in sintonia con la persona che sentiva di essere”.

“Per me l’equilibrio era far diventare reale Chris – dichiara Hirsch ‑, senza farlo diventare né martire né santo, esprimere tutto quello che sentiva, dargli una certa credibilità, non dargliele tutte vinte, perché era ora egoista, ora sconsiderato, ora avventato. Mantenere una certa autenticità anche nei difetti, nella sua sensibilità, perché sono i difetti che ci rendono umani”.

“Non ho fatto nessun tipo di forzatura – aggiunge Penn ‑, volevo permettere di condividere l’esperienza di una persona a chi vede il film, le persone che cerchiamo di essere anche con i difetti. Se pensate ragionevolmente e con onestà, capirete che la natura ci sovrasta comunque. Non mi sono permesso nessun eccesso né in un senso né nell’altro”.

“I film politici – continua il regista ‑, dipende da come venga interpretata la definizione, per me sono quelli che esprimono qualcosa di importante per il cineasta nel momento in cui lo fa. Quelli collegati con la natura, che la ritengono comunque una priorità, che sostengono che va salvaguardata”.

“Cerco di stare molto attento alle risposte – dichiara il produttore Bill Pohlad della Paramount ‑, del punto di vista del pubblico. Bisogna liberarsi dai condizionamenti, non ha nessun valore se non siamo capaci di sostenerlo e condividerlo. In tutti i film che ho fatto credo sia stata la testardaggine la cosa in comune”.

“Le altre persone che sono qui con me sono importanti – ribatte Penn ‑, mi hanno sostenuto dall’inizio alla fine. Bill mi ha sostenuto e incoraggiato, non ci sarebbe il film senza di lui. La famiglia è una questione difficile – aggiunge sui temi della sua opera ‑, non credo nel debito di sangue, ma tutti dovrebbero essere più tolleranti e comprensivi anche con persone che non sono del nostro stesso sangue. Qualsiasi individuo deve essere pronto a tagliare i legami, è una cosa necessaria, che include anche cambiare pelle rispetto ai genitori per poter scoprire chi si è veramente. Si tratta di un atto di fede, ma non lavoro per descrivere una religione, la cosa più importante è l’aspetto personale, espresso o inespresso, conscio o inconscio”.

Per esprimersi sull’attualità politica americana, Penn si affida alle parole di Bruce Springsteen che, durante il periodo governativo di Bush padre, a un suo concerto disse: ‘Guardate quanta strada abbiamo fatto… e ora stiamo tornando indietro”.

“Sapevo che avrei dovuto stare troppo tempo all’intemperie e in condizioni disagiate – dichiara il protagonista ‑. Ho fatto allenamento, corse, un po’ di sopravvivenza. Un livello di fisicità per me molto nuovo, dovevo guidare un kajak senza esperienza alcuna, fare camminate, arrampicate. In Alaska, dove ho indossato vestiti molto vicini al suo vero abbigliamento, ho patito il freddo e, nel deserto, il caldo eccessivo. Anche la troupe ha sofferto per quanto caldo faceva”.

“Qualche volta un regista mi ha avvicinato perché voleva usare la mia voce – dice Penn ‑, farmi fare la voce narrante. Gli attori sono cambiati negli anni, ci penso ancora alla recitazione, ma mi sono innamorato della regia. Le scelte sono invece molto simili al modo con cui scegliamo un partner. Bisogna scegliere bene sennò ci si ritrova in trappola”.

“Il mio atteggiamento è diverso da quello del personaggio – afferma Hirsch ‑, più intenso riguardo alla gioia che mi dà la natura, all’idea di espansione. Ma l’altra faccia della medaglia è il rispetto per il pericolo sempre presente, quando si vede da vicino, devi capire a che velocità una situazione può diventare pericolosa, avere sempre presente il senso della mortalità. Alcuni pensano che non accadrà mai a loro qualcosa di male a contatto con la natura, ma anche uno scivolone può causare la morte, provocare una disabilità permanente. Bisogna avere paura di se stessi in molti modi”.

“A Terry gli voglio bene – dice l’attore-regista a proposito di Malick che ha diretto anche lui ne “La sottile linea rossa” ‑, una persona davvero unica, mi ha sempre dato molte emozione, mi ha fatto venire in mente la voglia di lavorare. Mi sorprende che abbia sempre risposte da dare alle grandi domande sul mondo e sulla natura”.

Sulla famiglia McCandless, poi confessa: “Il rapporto è stato di fiducia reciproca, è trascorso del tempo, dieci, anni finché mi hanno permesso di fare il film, e mi hanno aperto la loro casa”.

“Ho conosciuto la sorella Carine – dice il protagonista ‑, mi ha illuminato, mi ha fatto capire chi era Chris, questo più di tutto. Sentire l’amore che aveva la sorella per Chris, è stato come scoprire il centro, il suo cuore. Bisogna avere maggiore rispetto di quel che si fa, e ci si rende conto che gli altri, quelli a cui ti ispiri, sono persone come noi, soffrono, hanno dei sentimenti”.

Su progetti futuri o probabile film a Roma, Penn conclude in tono scherzoso: “Ho passato solo una notte in Italia, sono uscito a bere, è già una grande sfida per me. Datemi tempo”. E su Hirsch:

“Il mio contribuito è stato solo averlo scelto, mi piace sentire che il suo lavoro viene apprezzato”.

Dopo il mitico Penn, è stata la volta del “colpo grosso” della Festa del Cinema. Il leggendario Terrence Malick, appunto, che non concede interviste da trent’anni, durante i quali ha realizzato soltanto quattro film: “La rabbia giovane” (1973 ma uscito da noi anni dopo, sulla scia del successo dei protagonisti Martin Sheen e Sissy Spacek), “I giorni del cielo” (1978), “La sottile linea rossa” (1998) e “Il nuovo mondo” (2006). E non si fa né fotografare né filmare, infatti esistono in giro due o tre vecchie foto di gioventù. Ha accettato di venire a Roma, convinto da Antonio Monda e da Mario Sesti, curatori dell’incontro, col pubblico e la stampa al buio e senza la possibilità di fare domande.

E, a conferma, che anche lui è convinto che l’artista non deve parlare della propria opera né svelare quello che voleva esprimere, ha voluto concentrare l’attenzione della chiacchierata sul cinema italiano. Introdotta ogni volta da uno spezzone scelto da lui stesso.

Il primo riguardava il grande Totò, con la scena del ‘burattino” di “Totò a colori” e quella della “cassaforte” in “I soliti ignoti”.

“Amo questi film di Totò – confessa – perché ho scoperto in lui un grandissimo comico simile soltanto a Charlie Chaplin e Buster Keaton. Ha un volto melanconico come Keaton, un’aria triste, come se dietro facesse capolino la morte. Non riesco a capire perché non sia stato subito riconosciuto dalla critica italiana, ma piace a tutti”.

“Ne parlavamo con entusiasmo – continua ‑ del cinema italiano, veniva da noi (lui e i futuri colleghi Scorsese, Cimino, Spielberg, ecc., allora studenti di cinema ndr) accolto come una scoperta, come una finestra su un mondo da esplorare, ignoto. Ma non potrei scegliere un film in particolare, sarebbe come scegliere una stella del cielo. Mi ricordo che quando usciva un nuovo film italiano veniva da noi accolto come fosse di qualcuno a cui tenevamo, di qualcuno della nostra stessa famiglia, sono stati anni straordinari, regnava uno spirito fraterno”.

“Benigni, dietro le quinte delle analogie – afferma ‑, esprime gioia, amore, allegria. Ha nello stesso sguardo la malinconia e l’effetto esilarante. E’ il vero erede di Keaton e Chaplin”.

Poi tocca alla scena degli “schiaffi” (quando il padre scopre il “disonore”) di “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi.

“Innanzitutto, l’onore che era molto importante per la famiglia ed è diventato con gli anni meno importante, ma che la sceneggiatura ha il potere di trasformare in tragedia o in commedia. Sembra un’altra epoca, c’è un umorismo che non ti fa ridere a crepapelle ma che ti dà una sensazione di calore umano, ti fa sentire bene. L’amore, la felicità ti soddisfano, ti fanno sentire lieto come un bambino, sembra questa la giusta prospettiva per uscire e chiudere la porta dimenticando tutti i dolori e le tragedie del mondo. E’ l’umorismo particolare di certi film di Fellini, Keaton, Benigni. Molto diverso dall’ironia che si usa oggi che non risparmia nulla e nessuno, ma serve per ‘imbrattare’ la situazione”.

E a proposito di Germi: “In ‘Divorzio all’italiana’ appena appare Marcello Mastroianni, tutto agghindato, si illumina la scena. Un modello di sceneggiatura, non so se perché era un periodo particolare, ma l’amavo molto, come le commedie di Fellini ‘Lo sceicco bianco’ e ‘Il bidone’ E poi gli attori che più che recitare sembrano prendere vita nel film, inimitabili”.

“Lo sceicco bianco”, la scena in cui lei scopre il suo idolo sull’altalena nella pineta

“In assoluto la scena più famosa – afferma Malick ‑, anche se è difficile sceglierne una. La giovane provinciale scopre davanti a sé il suo sogno nel modo più grande e più bello che conosce. Lui è pieno di sé, fa solo scena, e noi soffriamo per lei. E’ un imbroglione che non si può non amare. Sordi è un grandissimo attore, ti travolge, ti fa dimenticare tutto”.

La quarta e ultima sequenza scelta riguarda “Il posto” di Ermanno Olmi (1961)

“Da giovane il mondo si rimpicciolisce intorno a te – dice il leggendario autore ‑ e ti senti intrappolato. Una fiamma che continua a bruciare, una sceneggiatura appena abbozzata, in punta di piedi, all’epoca il film è stato molto importante per me. Un vero capolavoro”.

Malick accetta di parlare della sua presenza come attore in “La rabbia giovane” e ci racconta come è andata. “E’ stato necessario – confessa – perché l’attore locale che doveva fare quella piccola parte non si è presentato, e dopo averlo aspettato a lungo decise di farla io. Mi resi conto di quello che è il lavoro dell’attore, in cima a un edificio molto alto, perché non riuscivo a smettere di ridere. Alla fine dissi ‘domani la rifacciamo con l’attore vero’ e Martin ribatteva ‘rovinerà il film’, mi ricattava e continuava a scherzare. Mi sono dovuto mettere il cappello texano perché faceva un caldo eccessivo, come in Sicilia”.

“I protagonisti li abbiamo trovato per caso. Martin Sheen faceva già teatro, ma è passato per strada proprio mentre il responsabile del casting stava cercando giovani attori per il film. Sissy Spacek invece è venuta per accompagnare un’altra attrice e credo portasse con sé la chitarra. Infatti è proprio originaria del Texas e allora cantava. Ricordo bene gli attori, mi piacevano molto e hanno reso il più possibile umani i loro personaggi. Per Martin è stato molto difficile perché il suo non ha alcun senso morale, è uno senza sensibilità. Sissy fu molto brava e grata.”

Domani è il turno dell’atteso musical di Julie Taymor “Across the Universe”, ispirato alle canzoni dei Beatles (ben 38), con Evan Rachel Wood, Jim Sturgess e Joe Anderson, una delle ultime anteprime straniere (nelle sale dal 23 novembre), mentre in concorso si vedrà l’argentino-brasiliano “El pasado” (Il passato) di Héctor Babenco con Gael Garcia Bernal. E vanno avanti anche le altre sezioni, di cui ne parleremo in seguito.

José de Arcangelo