lunedì 22 ottobre 2007

Festa Internazionale del Cinema di Roma: Gli amari "Giorni e nuvoli" di Soldini

ROMA, 22 – Alla Festa del Cinema è arrivato, purtroppo, l’inverno. Sarà stato il freddo ad impaurire le star? Infatti, Keira Knightley (ma era andata a Venezia per “Espiazione” ha dato forfait, il partner nel film (“Seta”), Michael Pitt, ha perso l’aereo ma almeno è arrivato dopo (per la passerella). Tim Robbins protagonista di “Noise” (Rumore) di Henry Bean, si trovava ieri a Roma, ma non alla Festa. Poi abbiamo scoperto che ci sono state “eventuali” interviste e l’embargo per esse e per recensioni del film, perché si tratta di un’anteprima mondiale e che l’attore-regista, per impegni precedenti, è stato nella capitale solo 24 ore. Peccato perché il lungometraggio di Bean racconta un fatto (quasi) vero, attuale e drammatico ma sul filo dell’ironia.

Ma oggi è la giornata di Silvio Soldini e del suo bel film, attuale, avvincente e, quindi, piuttosto drammatico ma aperto alla speranza: “Giorni e nuvole” con Antonio Albanese e Margherita Buy. Loro c’erano (quasi) tutti, anche la giovanissima in ascesa Alba Rohrwacher (da “Melissa P.” a “Mio fratello è figlio unico”) e Fabio Troiano, mentre Giuseppe Battiston era assente giustificato perché sta girando un film a Buenos Aires. Presenti all’incontro con la stampa anche i tre sceneggiatori: Doriana Leondeff (anche con “La giusta distanza” di Carlo Mazzacurati), Federica Pontremoli e Francesco Piccolo.

Storia di una coppia nell’Italia di oggi: Elsa e Michele sono colti e benestanti, con vent’anni di matrimonio alle spalle e una figlia chiamata Alice. La loro serenità economica ha permesso ad Elsa di lasciare il lavoro per coronare il suo sogno: laurearsi in Storia dell’Arte. Ma all’improvviso tutto cambia: Michele ha perso il lavoro e con esso tutte le loro certezze, la sicurezza e l’equilibrio.

“Una parte di questo film ha a che fare con lo stupore di due persone – esordisce Soldini ‑, che abituate ad una quotidianità senza problemi economici, di colpo scoprono che non sarà più così. Michele non capisce neanche cosa sta accadendo, non sa come reagire, sono storie che leggiamo anche sui giornali. E’ rimasto come tramortito. I miei film nascono sempre dall’esperienza che ho fatto in precedenza – continua ‑. Dopo “Agata e la tempesta” volevo affrontare un tema che non conoscevo così bene e che volevo sviluppare da tanto tempo, la relazione di coppia. E’ reale perché è quello che sta accadendo realmente, e ho cominciato a lavorare tirando fuori questi due personaggi, facendo accadere quello che succede poi nel film”.

Abbiamo lavorato per molto tempo – afferma lo sceneggiatore Picolo ‑, soprattutto sul loro rapporto, la discesa lenta di una coppia borghese e la sua capacità di stare insieme, e capire i passaggi reali di questa caduta. Un imprenditore che finisce in periferia, che deve fare i conti con una discesa lenta ma inesorabile. Confrontavamo quello che scrivevamo con la realtà. Per esempio quando chiami o arriva un pony express speri che siano ragazzi, ma invece spesso sono persone di 40/50 anni. E partendo da un mondo alto borghese perché è proprio lì che tutto viene toccato. Volevamo partire da un amore ma da un punto di vista intellettuale alto”.

“Faccio sempre dei film costruiti – dichiara l’autore ‑, forse questo più di altri, anche perché una volta scelti bene gli attori si può cominciare a parlarne. E loro sono disponibile e generosi, è bello lavorare con loro. Scopri che sei molto fortunato”.

“La storia mi ha colpito talmente – confessa Albanese ‑, perché vengo dal mondo del lavoro, tema che ho già affrontato nel mio spettacolo ‘Giù al nord’, non solo per sentito dire, ma per esperienze personali. Lo sguardo di un mio amico, sembrava un fermo immagine, quando ha ricevuto questa notizia (il licenziamento ndr). Ed ero incuriosito perché lo conosco. E’ un argomento per me molto caro, mi sono buttato col cuore e con l’anima, e con l’aiuto di Margherita che amo particolarmente. E’ stato facile, un’armonia che si innesta per tutti così. Mi sono trovato bene a Genova dove siamo stati 4 mesi, le case, gli spazi, l’atmosfera... Ti dà la sensazione che sia molto legata al mondo del lavoro, vedi tante gru, lavori in corso. Il mio passato continua ad essere quello, e mi sono buttato con gioia nel lavoro”.

“Le stesse cose che ha detto Antonio – ribatte la timida Buy ‑, segno che siamo una coppia affiatatissima. Ho lavorato molto, io sono pigra, mi è servito, il regista è molto bravo e preciso. Non si poteva proprio andare giù”.

“Silvio – aggiunge Albanese – ci diceva ‘niente male’, è il massimo che riesce a dire. Ho chiesto in giro e mi hanno detto ‘vuol dire che è ipercontento’. E’ entusiasmante la passione di Silvio, stava lì sul pezzo, a cercare l’atmosfera giusta”.

“Anch’io confermo tutto quello che ha detto Antonio – dice la giovane Rohrwacher che interpreta la loro figlia ‑. Un’esperienza interessantissima, emozionante, vedevi come la storia diventava viva. Era presente una sensazione di grande spontaneità, ma si partiva da un’idea molto precisa che Silvio aveva e che noi seguivamo perché eravamo armonici”.

“I paesaggi diventano molto presenti, Genova c’era, si sentiva e si vedeva, e dopo ‘Agata’ (dove avevamo girato solo una parte), mi sono detto vorrei tornarci ancora. Volevo girare nei luoghi, non fare interni in studio, vivere la città, quindi molte delle inquadrature a volte sono ‘rubate’ perché c’è una luce molto bella. L’alba dell’inizio è stata fatta lì per lì. Dovevamo fare una scena in automobile e, mentre aspettavano, con una seconda mdp abbiamo approfittato per girarla. Ma non siamo andati a Genova per il suo bagaglio sul lavoro, ma solo per un suo valore pittorico, il resto si è poi aggiunto facendo parte della storia”.

“Una sceneggiatura che abbiamo subito apprezzato – rivela il protagonista ‑, e ho riversato tutto sul corpo, volevo capire se dovevo avere una certa pesantezza o no, lui è uno che si trascina. Di conseguenza quello che devi dire viene spontaneo, dopo aver costruito il personaggio. Michele è colpito da questo lutto, e si deve vedere da come cammina, dal suo sguardo. Deve trascinare poi un pensiero rivolto a tutti gli altri”.

“E’ una sceneggiatura bellissima – ribatte la Buy – così, vincendo tutte le mie pigrizie, ho lavorato molto. Non si può pensare a un lavoro chiuso, senza interventi da fare. E stata fatta una ‘riscrittura’ che si avvicina all’interpretazione, tutto condotto con grande attenzione e amore”.

“Si ha anche la possibilità di sbagliare – aggiunge Albanese ‑, ma lavorando con gli sceneggiatori, si può anche collaborare. E’ una cosa che non si fa più nella fiction, perché è un lavoro non studiato fino in fondo. Ci si deve avere tempo, invece, per modellare tutto. L’argomento è molto importante e lo meritava, anzi era importantissimo”.

“Il pensiero più grave è che non mi abbia sorpreso, colpito di più (il suicidio dell’operaio perché non poteva più pagare il mutuo ndr), conoscendo determinate situazioni, e che frequento amici che vivono ancora quel mondo e tutto il resto. Merito del film è rappresentare una situazione, ma non si permette di giudicarla. Sì, questo è un sentimento che ci può distruggere”.

“Durante la scrittura del film anch’io mi sentivo sull’orlo del suicidio – confessa con un filo di amara ironia Soldini ‑, dovevo trovare il modo di scrivere per capire come sono i protagonisti e poi buttarmi come loro. E ti lasci trascinare, come se la storia ti portassi a un finale tragico. Ho cercato la maniera con cui i personaggi potessero capire che messi uno di fronte all’altro potevano scrollarsi di tutto e parlarsi nel modo più sincero possibile. E così comprendere qual è la cosa più cara, quella a cui ci tengono di più”.

“In ogni film – dichiara il regista ‑, forse questo è il più lontano da ‘Brucio nel vento’, bisogna buttarsi dentro insieme ai personaggi. Perciò ho parlato molto con Ramiro Civita (il direttore della fotografia). Che tipo di mdp usare, la macchina a mano, girare tre o quattro minuti di tempo senza fermarsi, senza campo/controcampo. Anche i Dardenne studiano sempre molto prima anche se poi sembra tutto spontaneo, improvvisato. Non sono capace di fare altrimenti. Lo stile da vedersi, forse è più imperfetto, ma è meno finzione”.

“Il rapporto di coppia – risponde Albanese alla ‘bella domandina’‑ mi interessa, mi interessava e mi interesserà. Qui cambia tutto, mi perdo, la figura femminile è sempre più forte di quella maschile, e riesce a sostenere questo uomo colpito dalla crisi”.

“Ultimamente ci sono stati per me dei ruoli molto vicini – afferma la Buy ‑, legati al sentimento, donne che subiscono una sorta di sottomissione psicologica, non amate, cadute nelle cose drammatiche ad ogni costo. E ogni tanto bisogna farle. Ora spero di essermi leggermente riscattata, non rinnego nulla, ma questo è un personaggio diverso e mi fa molto piacere se mi farà uscire (spero) da questo cliché”.

“La bellezza di questo mestiere è lavorare con gli attori ‑¨conclude Soldini ‑, portare avanti un discorso, fare cose diverse. Battiston ha lavorato di più con me, perciò voglio trovare sempre qualcosa per lui che non ha fatto già, andare al di là della ripetizione, del già visto e del già fatto. Si lavora anche sui personaggi ‘piccoli’, che non si vedono tanto, ma che lasciano il suo segno. Si può dire che hanno un loro messaggio in qualche modo. L’attenzione ai personaggi secondari è tantissima nel cinema americano, a volte ci si ricorda di più delle piccole parti, dell’attore che in sole cinque scene lascia il segno”.

“Nella mia prima esperienza al cinema avevo due pose, proprio in “Un’anima divisa in due” (sempre di Soldini ndr) e anche per Mazzacurati in “Vesna va veloce”, due piccole cose. Una grande verità – dice a proposito di ‘coppia’ affiatata ‑, innanzitutto sono uno puntuale, e Margherita è di una puntualità inimitabile, lavora tanto, poi è brava, di una simpatia incredibile, a me piace. La amo. Ed entrambi non amiamo molto andare in aereo”.

“Infatti domani andiamo a Genova in macchina – ribatte la Buy ‑. Antonio è molto simpatico e serio, di un nevrotico pazzesco. E’ un vantaggio per me, mi sono calmata. Io sto molto meglio con lui. Le mie ansie le metto da parte”.

Anche per “Noise”, nonostante non siano venuti gli attori, c’è stata comunque una conferenza stampa, ma col regista. Il film racconta la storia di David che ama follemente New York, e non potrebbe vivere da nessun altra parte. Ma dopo notti insonni e angoscia, scopre che non tollera più il rumore che produce la sua amata metropoli. Inizia così una silenziosa crociata notturna contro i produttori di rumore (soprattutto le ‘sirene’ antifurto delle macchine, ma non solo) per poter finalmente ricominciare a vivere tranquillamente. Ma…

“Devo ammettere che il personaggio l’ho trovato a casa – confessa Henry Bean (autore di “The Believer”) ‑, la coincidenza di cercare, andare, girare per ore e scoprire l’origine del rumore (allarme d’automobili ndr) e poi finire in prigione, prima è successo a me in prima persona. Ma mi sono fermato lì. Volevo capire e raccontare cosa succede a chi non si ferma e scopre che sta distruggendo la propria vita. Ho pensato a tutto ciò, intrappolato tra la verità e la felicità. Naturalmente cerchiamo la felicità, ma per una parte della vita c’è la ricerca della verità. Può accadere a qualsiasi uomo o donna che vive in una qualsiasi città del mondo, oltre il termine ‘rumore’. Un po’ dappertutto c’è questa stessa situazione”.

“In linea di principio – continua l’autore ‑, nel film, si pensava ad un argomento serio trattato come fosse banale, di poco conto. Ne abbiamo parlato, e abbiamo capito che costruito in modo serio sarebbe stato troppo noioso. L’argomento comunque sembra irrilevante, ma poi invece è rilevante. Quindi, un problema ‘banale’, ma in questa mia scelta c’è il desiderio personale di dare uno sguardo diverso sul mondo, non un pensiero, però basato su qualcosa di ironico”.

“Io (nella realtà ndr) mi sono fermato quando ho scelto la felicità sulla verità – dichiara ‑. C’era stato un arresto e dovevo pagare parecchie migliaia di dollari. Ho fatto questo per molti anni, passato una notte in prigione e spesso tanti soldi, ma non mi portava a nulla. Delle volte non riuscivo neanche a controllarmi, ma non ero pronto a distruggermi e a spendere tutti quei soldi. Ho pensato al mio personaggio e a cercargli un’alternativa, dei tentativi per uscirne fuori, e mi sono comportato abbastanza in linea con New York. Mi sono detto ‘sono uno in cattiva fede, disonesto, non mi voglio sprecare, voglio fare un film’. Vivo ancora a NY, sono stati fatti diversi tentativi per superare i problemi del rumore, comunque non hanno avuto un grosso successo, ma credo avranno prima o poi dei risultati. Ho visto, per esempio a Santa Monica, che nei parcheggi non sono permesse allarme antifurto, e i produttori potrebbero ideare qualcosa di diverso. Infatti, è difficile che la polizia ti dica che è una cosa negativa, dovrebbero essere messe fuori legge. Purtroppo credo che continuerò a soffrire per questo”.

“Il film potrebbe stimolare nuove iniziative – aggiunge sull’intervento dei governanti ‑, sì mi è successo, è così, i governi irresponsabili non si occupano dei problemi della città e dei cittadini. In una politica in linea con la guerra dell’Iraq, non è che voglio parlare male di Bush ma... Come è possibile superare l’impasse, se non si riesce nemmeno a fare rispettare le leggi e i diritti dei cittadini”.

“Noise è la parte due della trilogia sul fanatismo. Di questa follia, il tema più ampio è il fanatismo politico, il terzo sarà sul fanatismo artistico. E sarà ancora più complicata. C’è uno scrittore americano, Dr. Suss, autore di “Gli anni di chi”, su un elefante che sente delle voci che provengono dalla polvere, da un fiore, ma che gli altri non possono sentire. E ha i diritti per realizzare una versione per adulti, ad esempio con la musica, su note che nessun altro può sentire”.

Interpellato sui ‘rumori’ di Roma, il regista dice: “Devo dire non sono stato ancora nel traffico a Roma, ma ho visto e subito molti ingorghi del passato, quando ero studente e viaggiavo per l’Europa. All’American Express di Parigi ho visto che c’erano due o tre assegnazioni per l’intero alfabeto; a Roma invece c’erano cinque categorie per lo stesso alfabeto, e la gente che si aggirava.

Una follia abbastanza simpatica non è così grave rispetto alla follia del mondo, magari fosse più banale e ci potesse prendere di sorpresa, rispetto alle tragedie del mondo. Il corpo risponde diversamente quando si è giovani, si hanno sensazioni diverse. Forse erano più problematici per me allora i ristoranti rumorosi. Nell’aspetto metaforico, c’erano cose che mi davano fastidio, tipo i genitori forti e autorevoli ai quali non potessi rispondere, questi li avevo già allora”.

“Abbiamo sempre vissuto e convissuto con persone che non amiamo, del tipo non ci piace il vicino che cucina le cipolle e non lo sopportiamo. La città è più densa di questa vicinanza e si creano più situazioni di questo tipo. Il rumore è la metafora del potere, sono obbligato a sentire, che invada la casa, le mie orecchie; mi impedisce di pensare come vorrei fare. Per esempio tramite la tivù che uno tiene magari sempre accesa. Ha la bocca ma non l’orecchio, il governo è così, non vi può sentire. I governanti fanno discorsi, dichiarano guerre, ma non abbiamo niente da replicare. Solo le elezioni, ma nemmeno i sondaggi hanno effetto sulle decisioni politiche. Lo scenario che vogliamo non riusciamo ad ottenerlo.

Sono americano, la disubbidienza civile ha sempre fatto parte dell’America, fin da Jefferson. Dobbiamo però trovare delle alternative, ci sono degli standard, ora è nato un nuovo partito di centro democratico, ma è difficile fare questo tipo di coalizione, la regole del gioco non lo consentono. Sono un po’ frustrato in America, perché è difficile fare alleanze politiche, la disubbidienza può stimolare l’appetito del pubblico, ma è sempre civile”.

“Il personaggio del film cerca di fare qualcosa, di agire, lavora moltissimo ma il sindaco (un viscido e rozzo William Hurt ndr) ha la meglio su di lui. La sua sottigliezza diventa fonte di rumore che è quello che vorrebbe combattere, ed è qualcosa che, alla fine, non ha un gran significato. Non ho un programma, ma a livello personale ho molte idee”.

In serata, presentato in anteprima l’atteso film di e con Robert Redford “Lions for Lambs - Leoni per agnelli” con Tom Cruise e Meryl Streep, che nelle sale italiane si vedrà soltanto a Natale. In concorso, poi, è passato “Mongol” di Sergei Bodrov, autore del non dimenticato “Il prigioniero del Caucaso”, nuova versione sulla leggenda di Genghis Khan. Tra vita e leggenda e basandosi su autorevoli documenti storici, il regista premio Oscar ricostruisce i drammatici e tormentati primi anni del sovrano nato nel 1162.

Nella sezione “Extra” si è visto il terzo film del cantautore Franco Battiato “Niente è come sembra” con Giulio Brogi, Pamela Villoresi, chiara Conti e la partecipazione speciale del redivivo Alejandro Jodorowsky. Partite anche le proiezioni per l’omaggio a Marco Ferreri con “L’udienza”, presentato dalla vedova Jacqueline Ferreri; Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna; Tatti Sanguinetti, critico cinematografico e curatore della maratona sui tagli di censura ai film dell’autore; e Stefania Parigi, docente di Storia del cinema italiano all’Università di Roma 3. Al Cinema Trevi la retrospettiva completa del regista.

José de Arcangelo