mercoledì 2 novembre 2011

Al Festival di Roma, dalla Napoli anni '70 alla New York contemporanea, passando dalla Cina anni '90, fra Kryptonite, disagio e Aids

ROMA, 2 - Presentati gli ultimi due film in gara del concorso ufficiale del Festival di Roma, il quarto film italiano “La Kryptonite nella borsa” è l’opera prima dello scrittore e sceneggiatore Ivan Cotroneo e il cinese “Love for Life” di Gu Changwei con la bellissima Zhang Ziyi, eroina delle avventure d’azione in costume, quali “La tigre e il dragone”, “Hero” e “La foresta dei pugnali volanti” ma anche dell’americano “Memorie di una geisha”; e Aaron Kwok, già divo di Hong Kong.
Il film italiano – da venerdì 4 nelle sale in 130 copie distribuito da Lucky Red – è tratto dal romanzo omonimo (Bompiani, ora in edizione tascabile) dello stesso Cotroneo e da lui adattato con Monica Rametta e Ludovica Rampoldi, è una commedia che narra una vicenda famigliare ambientata negli anni Settanta. Napoli 1973: Peppino Sansone (Luigi Catani) ha 9 anni – quasi 10 -, una famiglia affollata e piuttosto scombinata e un cugino più grande, Gennaro (Vincenzo Nemolato), che si crede Superman. Le giornate del ragazzino si dividono tra il mondo un po’ folle e colorato dei giovani zii Titina (Cristiana Capotondi) e Salvatore (Libero De Rienzo) fatto di balli di piazza, feste negli scantinati, collettivi femminili e la sua casa, dove la mamma Rosaria (Valeria Golino) si è chiusa in un silenzio incomprensibile, fra crisi esistenziale e depressione, e il padre Antonio (Luca Zingaretti) cerca di distrarlo regalandogli pulcini da trattare come animali da compagnia.
E quando Gennaro muore (travolto da un autobus), la fantasia di Peppino riscrive la realtà e lo riporta in vita, come se il cugino fosse veramente il supereroe che diceva di essere. E, grazie a questo amico immaginario, che il bambino riesce ad affrontare le vicissitudini della sua famiglia e ad accostarsi al mondo degli adulti.
“Oltre che uno sguardo appassionato alla storia di formazione, volevo fare una riflessione su tre generazioni di donne – esordisce Cotroneo -, un po’ perché ho scritto la sceneggiatura con due donne, un po’ perché volevo restituire ai personaggi femminili credibilità, far vedere che spesso sono vittime di trappole familiari”.
Una commedia che parte brillantemente e, purtroppo, si inceppa nella parte centrale – quando prende il sopravvento il personaggio della mamma in crisi -, e dove la trasgressione eversiva anni Settanta resta un po’ in superficie, anzi in sottofondo, quasi di maniera. Sempre comunque accattivante, e sottolineata da una bella colonna sonora d’epoca.
“Lavoro poco con persone che stimo e alle quali voglio bene come in questo caso – dichiara la Golino – ricordo che sono stata molto protetta e ben voluta e, forse, per questo ricordo poco del personaggio. Mi sono dimenticata della vanità e dell’esteticità, liberata dalle preoccupazioni e dei fronzoli dei personaggi. Sapevo che lo sguardo di Ivan lo avrebbe abbellito e ci ha permesso di lavorare in una sorta di noce, tana o cuccia nel segno dell’amicizia con Luca, Libero, Cristiana e questo piccolo coso (Catani che fa il figlio ndr.) e, in in un altro senso, con Fabrizio (Gifuni che fa lo psicologo ndr.), che mi sono sentita in un’altra dimensione. E’ stato veramente come stare a casa mia”.
“L’atmosfera che ha regnato nel film, a livello personale e umano, è stata molto bella – ribatte Zingaretti –personaggi così ben raccontati dalla sceneggiatura è raro trovarli. Per ogni percorso, ogni rapporto con gli altri c’erano delle indicazioni chiare. E’ importante per un attore sentirsi parte di un progetto perché in questo modo trasmette del suo e meglio al personaggio. Mi sono divertito tanto a fare un uomo anni ’70, ben disegnato senza implicanze psicologiche e psicoanalitiche, in un film sul come eravamo e vedere che siamo sopravvissuti bene con qualcosa in più del necessario”.
“Un clima familiare e affettuoso, non ho avuto difficoltà come in altri film a fare il percorso evolutivo del personaggio, e mi sono divertita a costruire questa ragazza un po’ frivola che finisce per instradarsi sulla scia della tradizione matriarcale, a ripercorrere la strada che già avevano fatto la nonna, la madre e la sorella maggiore. E ci sono contrasti anche con la sorella Rosaria perché è più disinibita, e pensa ancora di vivere più profondamente”.
“Io sono stato sul set in una sorta di bolla sospesa – afferma Gifuni – perché ci ho lavorato soltanto tre giorni e in unico ambiente, ma sono stato sorpreso dalla tranquillità che vi regnava. Ivan trasmette una serenità che sul set spesso latita. Una bella liberazione dopo il ruolo di Basaglia”.
“La paura mi ha sempre aiutato a lavorare bene – ribatte De Rienzo -, ma in questo caso non c’era, solo nella sequenza del ballo (balla un rock psichedelico con la Capotondi ndr.)”.
“Peppino me lo sono sentito dentro – confessa il piccolo Catani -, in verità è stato Ivan a raccontarmelo, mi ha aiutato moltissimo, ma al primo provino l’ho già sentito mio”.
“Per me era importante lo sguardo del bambino – aggiunge l’autore – mi hanno sempre interessato i libri, il ‘cinema dal punto di vista dei bambini, come ‘L’isola di Arturo’ di Elsa Morante. Negli anni ’70, che erano molto modesti, non c’era tanta ricchezza nel guardaroba, nei negozi, nelle case persino in quelle dell’alta borghesia. I ragazzi con meno disponibilità economica uscivano con quelli che avevano molto di più. Volevo riportare in vita quelli anni lì ma non in maniera nostalgica. Non è un ricordo ma il racconto di come si viveva allora, sulla condizione delle donne. Luca è un padre normalmente presente, affettuoso ma non ha gli strumenti, cosi come gli stessi zii che gli vogliono bene ma senza pedagogia”.
“Ho pensato che vivendo in una maniera migliore che in quelli anni – dice Zingaretti -, a parte il borsello che era brutto ma tanto comodo perché non avevi bisogno di tante tasche come oggi, rimpiango la capacità di lottare per le cose che si desideravano e si riuscivano ad ottenere. I due giovani lottano e sognano un futuro migliore, Rosaria e Antonio lottano per restare insieme. Oggi su questo aspetto un po’ di meno”.
“Ricordo da bambina napoletana, i primi anni ’70 in Grecia dove c’erano i colonnelli – ribatte la Golino – erano un altro pianeta, e poi in pochissimi anni sono successe tante cose. Erano molto familiari, c’era un affetto non pedagogico, mi riconosco molto, al di là della casta sociale. E’ soprattutto il modo di vivere l’infanzia che era molto diverso, magari oggi c’è più attenzione e rispetto all’essere bambini, ma allora avevi la possibilità di annoiarti e di fare le cose di persona, di ritrovarsi tutti insieme in casa”.
Il cinese “Love for Life” di Gu Changwei, è un dramma – in raro equilibrio fra mélo e commedia surreale, fra pubblico e privato –, infatti è anche una straziante love story, ambientata in un piccolo villaggio agli inizi degli anni Novanta: un traffico illecito di sangue ha diffuso l'aids nella comunità. E ruota intorno alla famiglia Zhao: Qi Quan, il figlio maggiore, è stato il primo a indurre i vicini a donare il sangue con la promessa di denaro facile. Il padre, disposto a tutto pur di rimediare al danno causato dalla sua famiglia, trasforma la scuola locale in una casa di cura per i malati. Fra i pazienti c'è il suo secondo figlio De Yi (Kwok), che affronta la morte imminente con rabbia e incoscienza, ma incontra la bellissima Qin Qin (Ziyi), moglie del cugino, recente vittima del virus. I due sono attratti l'uno dall'altra, condividendo l'amarezza e la paura del loro destino. Pur senza aspettative per il futuro, diventano amanti ma si accorgono presto di essere davvero innamorati l'uno dell'altra. Il sogno di vivere la loro relazione in modo legittimo e libero viene compromesso quandoi compaesani li scoprono: con il tempo che scivola via, devono decidere se arrendersi o dare una possibilità alla felicità prima che sia troppo tardi.
Il tutto narrato dal figlio di Qi Quan, la prima vittima innocente della terribile malattia, che muore proprio all’inizio della pellicola, spunto preso in prestito dai classici del noir.
“Un grande discorso quello affrontato dal film – dichiara il regista cinese -, in particolare per un paese come il nostro; il racconto di come questa comunità contadina, svantaggiata nel process o di sviluppo economico, incontra un nuovo pericolo, sconosciuto allora. L'Aids per i cinesi è un discorso molto delicato, su cui c'è una certa sensibilità: per questo non è stato facile farne un film, siamo stati costretti ad accettare dei compromessi. Nonostante tutto, siamo riusciti a portarlo a termine”.
“L'ho fatto perché il sentimento umano rappresentato nel film – afferma la protagonista, una delle star del festival -, secondo me non ha confini culturali o nazionali: l'attrice, di fronte a una sfida del genere, ha un grande spazio interpretativo. Della pellicola si possono dare mille interpretazioni diverse, ognuno tira fuori il suo sentimento; tutti, però, rappresentano nel loro insieme il sentimento umano, senza barriere nazionali o etniche”.
“Proprio perché il tema è particolare e delicato – aggiunge l’autore -, per raccontare questa storia bisogna conoscere il background cinese degli anni '80-'90. Tanti contadini si sono sacrificati, col sudore e con la stessa vita, per arricchire la gente della città: nel film i contadini vendono il loro sangue per pura sopravvivenza. Molti artisti sono stati colpiti da questa malattia, oltre a molta gente comune; io insegno all'Accademia di Cinema e cerco di coinvolgere sempre gli allievi sul tema, di interessarli a questo argomento. Nella pellicola ci sono tre veri pazienti colpiti dall'Aids, tra cui il bambino che racconta la storia in prima persona; nel villaggio abbiamo anche girato un documentario dal titolo ‘Insieme’, che ha coinvolto contemporaneamente persone sane e malate”.
Fuori concorso un altro film italiano, girato interamente negli Stati Uniti da Roberto Faenza, e tratto dal romanzo omonimo di Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile”. Una trasposizione riuscita e con un efficace cast tutto americano: dalle premio Oscar Marcia Gay Harden ed Ellen Burstyn ai giovani Toby Regbo e Deborah Ann Woll (“True Blood”), da Peter Gallagher a Lucy Liu. Lacrime e sorrisi, emozione e commozione per un altro racconto di formazione, da un punto di vista diverso (ma non troppo) e raccontato in modo agile e asciutto.
James, diciottenne di New York, finita la scuola e in procinto di andare – controvoglia – all’università, lavora part time nella galleria d'arte contemporanea della madre dove non entra mai nessuno. Sarebbe arduo, d'altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell'artista giapponese che vuole restare senza nome. Per passare il tempo, e nella speranza di trovare un'alternativa al college, James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite - la lettura e la solitudine – e fa visita alla nonna Nanette ma...
José de Arcangelo