giovedì 8 settembre 2011

"L'ultimo terrestre" italiano in concorso alla 68a. Mostra di Venezia tra l'americano William Friedkin e il russo Aleksandr Sokurov

Conto alla rovescia per il festival e al nono giorno sono stati presentati altri tre film in concorso: il terzo italiano in gara, “L'ultimo terrestre” di Gian Alfonso Pacinotti, “Killer Joe” di William Friedkin e “Faust” di Aleksander Sokurov. Alle ore 16.30 la Cerimonia di premiazione della sezione Controcampo Italiano che ha visto trionfare “Scialla!” di Francesco Bruni e il documentario “Pugni chiusi” di Fiorella Infascelli. Nella sezione Orizzonti presentate due interessanti opere orientali, il tailandese “Tae Peang Phu Deaw (P-047)” di Kongdej Jaturanrasmee e il giapponese “Kotoko” di Shinya Tsukamoto.
Accolto bene il debutto del fumettista pisano Gipi, perché se la sua opera prima – giovane e divertente - non è perfetta
(ma quale lo è), non è caduto nel tranello della ricerca visiva ad ogni costo ed effetto, nonostante l’ispirazione alla graphic novel di Giacomo Monti “Nessuno mi farà male”. Quindi, senza presunzione Pacinotti ha messo grande attenzione al ritratto del protagonista, ai personaggi di contorno, alle situazioni, e soprattutto alla narrazione e al linguaggio cinematografico che se, a tratti, coincidi non è certo lo stesso delle pagine illustrate (statiche).
La storia si svolge durante l’ultima settimana prima dell’arrivo di una civiltà extraterrestre sulla Terra. Un arrivo annunciato dai governi. Una notizia in seconda serata, che non ha entusiasmato nessuno, soprattutto in Italia. Infatti, gli alieni trovano un paese stanco e disilluso, in una crisi economica conclamata e gravissima. Le reazioni delle persone alla venuta degli extraterrestri vanno da quella razzista a strampalate interpretazioni mistico-religiose. Ma il film non racconta la vicenda di un popolo; segue invece la vita di Luca Bertacci (bravo l’esordiente Gabriele Spinelli, amico e collaboratore del regista), un uomo con enormi problemi di relazione, un uomo che, abbandonato dalla madre quando era piccolo, è cresciuto nell’odio per le donne. Nella diffidenza e, soprattutto, nell’incapacità di provare sentimenti. Ma l’arrivo degli extraterrestri cambierà tutto. Difficile, alla fine, non pensare che questi alieni con il loro arrivo tanto simile a un “giudizio universale“ siano venuti sulla Terra solo per lui. Come un regalo.
“Ho sempre pensato che per raccontare la realtà in modo fedele la si dovesse tradire profondamente – afferma ‘Gipi’. Sono pure convinto che sia quasi inutile tentare di descrivere la contemporaneità raccontando la contemporaneità, visto che i tempi di mutazione sono talmente rapidi che qualunque ‘oggi’ diviene ‘ieri’ nel tempo necessario a scriverne la parola. Per ovviare a questa trappola la nostra storia è ambientata nel futuro. Solo qualche anno in avanti. Diciamo tre. Non di più. Un’Italia dopo l’Italia, insomma, che ci permetta di giocare a immaginare la deriva estrema che una condizione sociale potrebbe raggiungere. Questo è l’intento”.
Ecco la storia nerissima del noir contemporaneo firmato da Friedkin, un thriller dell’anima - pervaso da feroce e corrosiva ironia - in un mondo dove genitori e figli non possono che essere nemici. Quando scopre che la madre ha rubato la sua scorta di droga, Chris (Emily Hirsch, di “Into the Wild”), spacciatore di 22 anni, deve racimolare seimila dollari in fretta, o sarà un uomo morto. Disperato, va a trovare suo padre Ansel e gli espone il suo piano: eliminare la madre, odiata da tutti, e riscuotere l’assicurazione sulla vita che coprirebbe il suo debito e li farebbe entrambi ricchi. Il problema è che la madre di Chris è fin troppo viva. Allora entra in scena il poliziotto “Killer” Joe Cooper (Matthew McConaughey), un assassino prezzolato con maniere da gentiluomo del Sud, disponibile a risolvere la faccenda, ma solo dietro pagamento anticipato di una somma che padre e figlio non hanno. Sul punto di piantarli in asso, Joe nota Dottie (Juno Temple), l’innocente sorellina di Chris, e fa un’offerta al ragazzo: terrà con sé Dottie come caparra sessuale finché non avranno ottenuto e pagato il compenso. Seppur riluttante, Chris antepone il debito alla sorella, e acconsente alla richiesta; ma col passare dei giorni, osservando Joe insieme a Dottie, si pente e chiede al killer di annullare tutto, ma è troppo tardi: il lavoro è già fatto. Convinto di essere in dirittura d’arrivo, partecipa trepidante a una seduta dall’avvocato, ma scopre che il beneficiario unico della polizza non è Dottie, ma il compagno della madre e capisce di essere stato fregato. Quando Joe viene a riscuotere e scopre che i soldi non ci sono, usa la sua abilità di investigatore per arrivare fino in fondo, e tutti pagano il prezzo dovuto.
“E’ un po’ come la storia di Cenerentola – dichiara Friedkin -, ma il Principe azzurro è un killer a pagamento, ed è anche sceriffo del dipartimento di polizia di Dallas. Anche se il titolo e l’intreccio fanno pensare a risvolti sinistri, trovo che il film sia molto divertente”.
“C'è poco da dire, vedo il mondo esattamente come lo vede lui – aggiunge l’autore de “L’esorcista” a proposito del rapporto con Tracy Letts, sceneggiatore e drammaturgo premio Pulitzer per la pièce da cui il film è tratto - e non in termini critici, ma nel senso che ritroviamo le stesse cose nella natura umana, cose che troviamo molto divertenti e che vengono raccontate con un certo umorismo nero. Ma è un umorismo che è già nel testo originale, ammetto che non si tratta di una comicità alla Benigni o alla fratelli Marx. Si ride come quando si ascolta un politico americano che fa un discorso. Sappiamo tutti che i politici non comunicano con la verità. I personaggi del film non sono per forza onesti con il mondo, ma noi vediamo veramente come sono fatti”.
Il Faust del russo Sokurov non è un adattamento tradizionale della tragedia di Goethe, ma una (ri) lettura di ciò che rimane tra le righe. Che colore ha un mondo che produce idee colossali? Che odore ha? C’è un’aria pesante nel mondo di Faust: progetti sconvolgenti nascono nello spazio angusto dove si affaccenda. È un pensatore, un veicolo di idee, un trasmettitore di parole, un cospiratore, un sognatore. Un uomo anonimo guidato da istinti semplici: fame, avidità, lussuria. Una creatura infelice, perseguitata che lancia una sfida al ‘Faust’ di Goethe. Perché rimanere nel presente se si può andare oltre? Spingersi sempre più in là, senza notare che il tempo si è fermato. E passeremo anche noi.
“Faust è l’ultima parte di una tetralogia cinematografica sulla natura del potere – confessa il regista -. I personaggi principali dei primi tre film erano tutti figure storiche reali: Adolf Hitler (‘Moloch’, 1999), Vladimir Lenin (‘Toro’, 2000) e l’Imperatore Hirohito (‘Il Sole’, 2005). L’immagine simbolica di Faust completa questa serie di grandi giocatori d’azzardo che hanno perso le più importanti scommesse della loro vita. Faust sembra non appartenere a questa galleria di ritratti, un personaggio letterario quasi da museo incorniciato in una trama semplice. Che cos’ha in comune con queste figure reali che sono ascese all’apice del potere? Un amore per parole cui è facile credere e una patologica infelicità nella vita quotidiana. Il Male è riproducibile, e Goethe ne ha formulato l’essenza: ‘Gli infelici sono pericolosi’”.
Il tailandese “Tae Peang Phu Deaw” narra di Lek, un fabbro solitario che non ha mai avuto una fidanzata. Kong è un aspirante scrittore che vive con la madre. I due sconosciuti lavorano fianco a fianco in un centro commerciale: uno fa copie di chiavi; l'altro vende riviste rosa. Insieme, i due architettano un piano che combina i rispettivi talenti. Durante il giorno, si intrufolano in appartamenti vuoti, mentre i proprietari sono al lavoro. Non rubano nulla, prendono solo in prestito. Prendono in prestito le vite, gli amori, le cose che appartengono a degli sconosciuti. Un giorno, si ritrovano a prendere più di quanto avessero chiesto. Tutti hanno dei segreti e taluni non possono essere svelati. In seguito a ciò, Lek si risveglia in ospedale. Con suo grande sgomento, tutti lì lo chiamano Kong. Si rimette dalle ferite e ogni pomeriggio sale sul tetto dell'edificio per fumare. Lassù incontra Oy, una giovane ricoverata che adora sniffare contenitori vuoti – bottiglie, barattoli, lattine, qualunque cosa che la riconduca al passato. I due stringono un'insolita amicizia. Ma dov'è finito il suo amico?
“Se l'immaginazione può diventare memoria – si chiede il regista - e la fantasia può diventare verità... Se i fatti possono diventare finzione... se delle vite possono essere prese in prestito e copiate come pagine di un libro... allora che cosa rimane di chi siamo veramente?” Probabilmente, un suggestivo mix come nel film, un puzzle di tante fatti e situazioni vissute e/o rubate.
“Kotoko” è invece la storia di una madre che soffre di visione doppia. Vede le persone divise in due… una negativa e una positiva. Questo disturbo le provoca un forte senso di disagio e prendersi cura del piccolo diventa un compito estenuante che la porterà all’esaurimento nervoso. Quando la situazione le sfugge di mano, è accusata di abusi sul bambino che di conseguenza le viene tolto. Mentre canta, però, non vede doppio. Quello è l’unico momento in cui il mondo torna a essere uno e la sua mente trova la pace. Conosce un uomo, incantato dalla sua voce, ma la storia tra i due finisce presto, e nel frattempo ottiene di nuovo la custodia del bambino, ma le sue “visioni doppie“ diventano più intense…
“Cocco è una cantautrice per la quale provo immenso rispetto – confessa il regista. Canta con una passione che scaturisce direttamente dall’anima: intensa e allo stesso tempo molto dolce. La sua voce mi commuove profondamente e totalmente. È da un po’ di tempo che speravo di fare un film con lei. Il sogno si è avverato poco dopo la morte di mia madre, che avevo accudito per 7 anni. Proprio in quel periodo Cocco mi ha dato l’opportunità di lavorare insieme a lei al mio nuovo film! Prima di iniziare le riprese, ho fatto qualche ricerca sul suo repertorio. Attraverso le sue canzoni, gli scritti e le nostre conversazioni, sono entrato direttamente nel suo mondo interiore. In questo modo ho elaborato il tema che volevo approfondire e rappresentare con il mio film… un mondo sempre meno sicuro per via di una violenza dilagante che può arrivare a portarci via all’improvviso e tragicamente la vita di una persona cara. Qualunque madre si preoccuperebbe, diventando perfino paranoica, nel crescere i propri figli in un mondo così. La maternità è il tema che ho voluto ritrarre nel mio nuovo film. Tutte le madri del mondo sono state bambine. Kotoko, che Cocco interpreta brillantemente, non è una donna diversa dalle altre. Potrebbe essere tua madre o magari anche tu stessa. Vivere nel mondo di oggi non è facile. È una lunga serie di sfide che richiede battaglie e sforzi infiniti per navigare lungo il fiume della vita con successo. Le canzoni di Cocco me lo ricordano di continuo”.
Nel Controcampo Italiano presentato “Piazza Garibaldi” di David Ferrario che è un toponimo che si incontra in qualsiasi città italiana (ma anche in Sudamerica). E’ la metafora della nazione e della sua storia. Come nel fortunato e premiato ‘La strada di Levi’, Ferrario si mette in viaggio: stavolta sulle orme della spedizione dei Mille. L’obiettivo: verificare il rapporto tra passato e presente, partendo da Bergamo, una volta ‘Città dei Mille’ e oggi roccaforte padana, per arrivare fino a Teano. Il viaggio è pieno di sorprese, incontri, riflessioni: un grande road movie attraverso la storia e la geografia del paese, cercando di rispondere a una domanda assillante: perché noi italiani non riusciamo più a immaginarci un futuro?
“La scadenza del 2011 era inevitabile - afferma l’autore. Il centocinquantenario dell’Unità d’Italia mette in corto circuito, per quelli della mia generazione, un principio e una (provvisoria) fine: 50 anni fa, al tempo del Centenario, eravamo bambini proiettati verso un futuro pieno di promesse; oggi siamo uomini fatti, in un mondo pieno di dubbi e di domande. Quale modo migliore per rispondere a queste domande che quello di mettersi in viaggio alla ricerca della nostra identità di italiani? Un viaggio non arbitrario, ma storico e simbolico: quello della spedizione dei Mille, il mito da cui tutto è partito. Per provare a capire come il senso di quella parola che tanto odiavamo – ‘patria’ – è cambiato; e perché”.
Deludente “Tutta colpa della musica” di Ricky Tognazzi – sceneggiato con la moglie Simona Izzo e Leonardo Marini -, a riconferma che il regista si trova meglio alle prese con storie drammatiche, anche legate all’attualità. E’ la storia di un “secondo amore“. Il cinquantenne Giuseppe (Marco Messeri) è sposato, ha una figlia, ma non si può certo dire felice. Grazia (Monica Scattini), la moglie, presa dal suo radicalismo religioso (è una fervente testimone di Geova), da anni ha con lui un rapporto di fredda indifferenza e anche Chiara (la cantante Arisa al debutto sullo schermo), la figlia, che ha seguito la madre nella sua infatuazione religiosa, non si può dire che abbia poi questo gran dialogo con lui. Napoleone (Tognazzi stesso), bonario Peter Pan sposato con Patrizia (Elena Sofia Ricci), l’amico di tutta una vita, lo convince a darsi una scrollata e a provare a “vivere“, cioè ad andare con lui a cantare nel coro della città, una sala in una chiesa sconsacrata, dove i “ragazzi“ della loro generazione possono ancora divertirsi liberamente e provare a “rimorchiare“. Giuseppe si fa travolgere dalla nuova vita e si innamora di Elisa (Stefania Sandrelli), una bellissima donna di mezza età conosciuta al coro. Elisa, pur non volendo staccarsi dalla propria famiglia, non potrà fare a meno di vivere con Giuseppe una vera e propria storia d’amore…
“Siamo al fatale adagio degli amori senili – dichiara Tognazzi -, o magari no, facciamo ‘mezza età inoltrata’, s’il vous plaît. Però, anche a voler giocare d’astuzia col rapporto fra le parole e le cose, la sostanza resta quella: le chiome incanutiscono o nel peggiore dei casi si volatilizzano, la pelle – forse stanca degli anni di splendore – comincia a rilassarsi e perdere il suo tono, i muscoli acquistano consistenze da latticino, le pance dilagano, le ossa si decalcificano (ma come si permettono?)… e tutto in barba a ogni infaticabile e coraggioso sforzo di tenere in piedi la baracca. Il corpo, diventando un beffardo e maligno aguzzino, suggerisce che è meglio fermarsi un po’ e mettersi alla finestra a guardare. Ma fosse solo questo… Il fatto è che qui si consuma la più assurda e maledetta delle schizofrenie: il corpo va per la sua strada, e invece il cuore…”
E domani è già il penultimo giorno e arrivano altri premi collaterali e i primi addii.
José de Arcangelo