mercoledì 7 settembre 2011

Ferrara, Comencini e l'israeliano Kolirin nel concorso veneziano. Ma sconvolge 'l'Italia mai vista' del documentario "Black Block" di C.A.Bachschmidt

Ottavo giorno alla 68a. Mostra veneziana con l’israeliano “Hahithalfut” (The Exchange) di Eran Kolirin, l’italiano “Quando la notte” di Cristina Comencini – che ha deluso le aspettative dei più, soprattutto della critica italiana e internazionale - e l’ultima fatica dell’americano Abel Ferrara “4:44 Last Day on Earth”, tutti in concorso. “Maternity Blues” di Fabrizio Cattani e il documentario “Black Block” di Carlo A. Bachschmidt in Controcampo Italiano. Mentre “Eva” di Kike Maillo e “Rabitto horaa” di Takashi Shimizu, sono passati fuori concorso.
Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato, a un’ora in cui la luce la illumina da un angol
o diverso e in cui il ronzio del frigorifero è l’unico suono che si riesca a sentire.
Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato e per un istante gli sembra di essere entrato nella casa di uno sconosciuto, vuota e silenziosa in una desolata ora pomeridiana.
Un uomo torna a casa e all’improvviso si accorge di cose favolose e dimenticate. Particelle di polvere che vorticano nell’aria in un bianco raggio di luce. Una vecchia etichetta del prezzo incollata sotto il tavolo.
Un uomo torna a casa come un turista e oserva per la prima volta gli oggetti di cui si compone la sua vita. Il parcheggio, le scale, le cassette della posta piene di lettere. Un uomo torna a casa ed entra nella propria vita in un momento in cui non si è mai trovato, osservandola con gli occhi del bambino che era. E ancora una volta la trova colma di mistero e di magici nascondigli. I corridoi, i viottoli, le sale delle caldaie. Un uomo si trova ad assistere alla propria vita dall’esterno. Ma questa vita è davvero la sua?
Un dramma metaforico e volutamente grottesco che parte dal classico “se” per analizzare l’esistenza di un uomo in particolare, ma che potrebbe essere quella di noi tutti. Infatti parla di quelle cose e di quelli oggetti che crediamo di vedere ogni giorno ma che sono entrati nella nostra vita e memorizzate dal nostro cervello ma che in realtà non vediamo più perché abbiamo la sicurezza che si trovano sempre lì. Anche quando non ci siamo.
“Hahithalfut non è un film su molte cose quanto sulle cose stesse – afferma il regista -. I tavoli, le porte, le stanze, le sedie: tutti gli strani oggetti di cui si compone la nostra vita. ‘Strane’ non nel senso che stanno in agguato nell’ombra, o di una stranezza crepuscolare: strane di quella stranezza che è propria degli oggetti situati in piena luce. Il senso di mistero proprio della realtà delle cose, della realtà della vita”.
La Comencini, invece, ha tratto il film dal suo stesso romanzo, ma non è riuscita a farne un film coerente e coinvolgente fino alla fine, tra fatti e situazioni inverosimili e temi – come quello della maternità – non approfonditi come meritavano. Inoltre il viavai tra flashback e flashforward non è equilibrato al punto giusto.
Tra le montagne un uomo e una donna s’incontrano. Manfred (un Filippo Timi sottotono) è una guida alpina, chiuso e sprezzante, abbandonato (in passato dalla madre) da moglie e figli; Marina (Claudia Pandolfi) una giovane madre in vacanza col suo bambino. Una notte qualcosa succede nell’appartamento di lei e Manfred interviene, portando il bambino ferito in ospedale. Da quel momento l’uomo si metterà sulle tracce di una verità inconfessabile che Marina ha nascosto a tutti, anche al marito, mentre lei intuirà il segreto familiare all’origine dell’odio di Manfred verso tutte le donne. Con una rabbia e un desiderio mai provati prima, i due scopriranno la radice di un legame potente che non riusciranno a controllare né a vivere. Anni dopo quella vacanza, Marina, d’inverno, tornerà al rifugio alla ricerca di Manfred.
“C’è un’immagine in ‘Quando la notte’ in cui due funivie – dichiara l’autrice -, che provengono da direzioni opposte, per un attimo si incrociano in alto, sospese. Ecco, quell’immagine racchiude la storia tra Manfred e Marina: un uomo e una donna, che vengono da storie completamente diverse, si incontrano e si riconoscono per un istante come esseri umani. Il loro rapporto è un duello costante, frenato ed esaltato al tempo stesso dalla presenza di un bambino, in cui l’uomo si riconosce e a cui la donna cerca disperatamente di fare da madre senza riuscirci. Da quel nucleo primario, difficile da superare come la montagna grande e dura che li circonda, nasce un legame unico. Si desiderano come diversi, si conoscono fino in fondo per poco, ma si salvano la vita per sempre”.
Anche Ferrara parte da un “se” il mondo dovesse finire cosa faresti nell’ultimo giorno rimasto da vivere? In un grande appartamento in cima alla città abita una coppia. Si amano. Lei è pittrice, lui un attore di successo. E’ un pomeriggio come tanti – eccetto che non è affatto un pomeriggio come tanti, né per loro né per chiunque altro. Perché l’indomani, alle 4.44 di mattina, secondo più, secondo meno, il mondo finirà più velocemente di quanto il peggior catastrofista avrebbe potuto immaginare. Arriverà lo sfacelo finale, non senza preavvisi, ma senza vie d’uscita. Non ci saranno sopravvissuti. Come sempre, c’è chi accendendosi l’ultima sigaretta e stringendosi i paraocchi spererà in un qualche rinvio. Un miracolo. Non i nostri due amanti. Loro – come la maggioranza della popolazione della Terra – hanno accettato il loro destino; il mondo sta per finire. Punto.
E, infatti, se il film ricorda all’inizio “Last Day” del canadese Don McKellar, subito dopo diventa il ritratto di una coppia che ha deciso di passare le ultime ore nel modo più normale possibile, insieme e vicini. Un Ferrara – dopo la breve parentesi documentarista – tornato alla fiction intimista, forse moralista, sicuramente ecologista, riflessivo e spiritualista.
“Vorrei citare un brano tratto dal nostro film – dice infatti - in cui il Dalai Lama pronuncia un discorso sull’uomo e sulla natura nel suo modo inimitabile: ‘Noi esseri umani siamo quasi come il creatore o il controllore del mondo; per mezzo di tecnologia, per mezzo di scienza possiamo fare tutto, qualsiasi cosa... non comandiamo la natura. Penso che noi esseri umani crediamo di essere qualcosa al di sopra di natura. Penso che è sbagliato. Dopo tutto, siamo parte della natura, e cosi è molto chiaro, vedete, abbiamo la responsabilità di prenderci cura dell’ambiente, della natura perché alla fine siamo parte della natura e del suo equilibrio, e di conseguenza possiamo cambiarlo in modo drammatico…’ Ciò che ho imparato è parola per parola, frammentato, attraverso lingue diverse, più o meno sgrammaticato, più o meno fuori contesto, ecc.; quando il messaggero è puro, il messaggio la vince”.
L’italiano “Maternity Blues” è un dramma al femminile che ruota intorno alla maternità. Quattro donne diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio. All’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario, trascorrono il loro tempo espiando una condanna che è soprattutto interiore: il senso di colpa per un gesto che ha vanificato le loro esistenze. Dalla convivenza forzata, che a sua volta genera la sofferenza di leggere la propria colpa in quella dell’altra, germogliano amicizie, confessioni spezzate, un conforto mai pienamente consolatorio ma che fa apparire queste donne come colpevoli innocenti. Clara, combattuta nell’accettare il perdono del marito, che si è ricostruito una vita in Toscana, sconta gli effetti di un’esistenza basata su un’apparente normalità. Eloisa, passionale e diretta, persiste ogni volta nel polemizzare con le altre: un cinismo solo di facciata. Rina, ragazza-madre, ha affogato la figlia nella vasca da bagno in una sorta di eutanasia. Vincenza, nonostante la fede religiosa, sarà l’unica a compiere un atto definitivo contro se stessa. Ha ancora due figli, fuori, e per loro riempie pagine di lettere che non spedirà mai.
“Maternity Blues ha il nome dolce di una musica lontana – afferma Cattani -, invece è una sindrome assassina, una depressione post partum che porta una madre a uccidere il proprio figlio. Il testo teatrale ‘From Medea’ di Grazia Verasani, da cui è tratta la sceneggiatura, nasce non solo come riflessione sull’istinto materno ma anche come accusa contro una società che ha sempre bisogno di creare mostri e giudicare un malessere che non andrebbe liquidato con leggerezza. Nel film non c’è traccia di giudizio nei confronti delle protagoniste, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C’è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dall’ospedale psichiatrico giudiziario dove stanno scontando la loro pena e contemporaneamente cercando di ‘curarsi’ con il supporto di psichiatri”.
“Black Block” racconta una storia allucinante del nostro recente passato che ci fa pensare (come ai protagonisti) di essere catapultati in una delle terribili dittature militari sudamericane degli anni ’70’80, perché ogni libertà è stata negata e ogni diritto violato, senza senso né giustificazione possibile. Un documentario per non dimenticare, anzi per ricordare, e non sottovalutare mai il peso del politico (potere) sul sociale (il popolo universale). Attraverso Lena e Niels (Amburgo), Chabi (Zaragoza), Mina (Parigi), Dan (Londra), Michael (Nizza) e Muli (Berlino) la tragedia del G8, per restituire una testimonianza di chi ha vissuto in prima persona le violenze del blitz alla scuola Diaz e le torture alla Caserma di Bolzaneto a Genova nel 2001. Nel racconto corale dei protagonisti emerge la storia di Muli. Muli ripercorre i motivi per i quali ha deciso di impegnarsi nella politica, fino alla sua partecipazione alle giornate di Genova 2001, le violenze subite e la scelta di ritornare a Genova per testimoniare ai processi. E’ tornato affrontando il trauma subìto per trasformarlo in un’occasione con la quale trovare un riscatto morale. Attraverso la sua esperienza matura un nuovo percorso politico, riacquista la voglia di confrontarsi e lo stare insieme, e soprattutto riscopre un’altra Genova. “Dentro quella scuola non ce l’hanno fatta“. La sua vita è cambiata, ma i suoi ideali sono rimasti gli stessi di allora.
“Nel 2001 a Genova la politica ha di fatto delegato alle Forze dell’Ordine – dice Bachschmidt - il compito di fermare un movimento sociale che stava esplodendo in tutto il mondo. ‘Black Block’ nasce dall’intenzione di raccontare come la repressione abbia controllato le vite, i desideri e le passioni di coloro che hanno vissuto in prima persona la storia di questi ultimi dieci anni, dalla nascita del movimento (Seattle) alla sua massima partecipazione (Genova). Ho voluto ripercorrere la vita del movimento attraverso 7 interviste ad alcune parti lese costituitesi al processo, che hanno vissuto l’episodio più violento mai attuato dalla polizia italiana, il blitz al complesso scolastico Diaz”.
Il documentario, prodotto da Domenico Procacci, uscirà il 15 settembre in cofanetto (libro + dvd) per Fandango Libri.
Un riuscito e suggestivo mix di dramma introspettivo e fantascienza possibile nell’opera prima “Eva” del catalano Kike Maillo. Dove sentimenti e cibernetica si intrecciano per offrire a questo nostro mondo la possibilità di un futuro in cui uomini e macchine possano convivere senza necessariamente fondersi. Alex, rinomato ingegnere cibernetico, torna a Santa Irene per portare a termine una missione molto particolare per la Facoltà di Robotica: creare un robot bambino. Nei dieci anni in cui è stato lontano, il fratello David e Lana sono andati avanti con le loro vite. Il destino vuole che la routine di Alex venga movimentata dalla nipote Eva, una bambina molto speciale e carismatica. Fin dal primo incontro, tra Eva e Alex nasce un legame speciale. E insieme affronteranno un viaggio che li condurrà a una rivelazione finale.
“Tutto risale a quando ero piccolo – dichiara l’autore. Dovevo avere circa undici anni. Dopo un episodio di Dr. Who, popolato dai dalek, ho iniziato a fantasticare di girare un film ‘sul futuro’. Costruivo robot con le scatole da scarpe e delle uova, poi li facevo muovere con il filo da cucito. Naturalmente ciò accadeva molto prima che mi rendessi conto che i film devono raccontare delle storie, per lo più storie di esseri umani. E che raramente hanno successo quando si basano soltanto sulle convenzioni di un unico genere, come in questo caso la fantascienza. Eva è senza dubbio un film dal taglio malinconico, forse perché parla di un ritorno, o magari perché descrive un futuro che ricorda il passato (soprattutto gli anni ’70 ndr.), oppure ancora perché sono io che mi rifiuto, per ragioni nostalgiche, di lasciare la mano di quel ragazzino che sognava di girare film sui robot”.
Anche “Rabitto Horaa 3D” (Tormented) è la storia di un bambino, la cui famiglia si sta sgretolando. Intorno a lui la situazione peggiora quando il protagonista mostra un attaccamento crescente e una dipendenza quasi morbosa per un coniglietto di pezza che prende vita. E’ forse matto? E la sorella sarà viva o morta? E quel libro di fiabe raffigura davvero il padre che sta impazzendo o sono tutti vittime di allucinazioni? Ancora una volta il regista giapponese Shimizu si addentra – magistralmente - nei terrificanti anfratti della mente umana. E usa, forse, per la prima volta l’effetto stereoscopico come mezzo di espressione e non solo come ‘effetto’. Il film segna la sua prima collaborazione con il premiato direttore della fotografia Christopher Doyle, che ha già lavorato con molti altri celebri registi asiatici.
“Generalmente preferiamo ricordare solo i bei momenti trascorsi con le persone che amiamo. Ma che succederebbe se tutto d’un tratto quei meravigliosi ricordi si trasformassero in qualcosa di totalmente diverso? Il film racconta da una parte la storia dell’orrore che si materializza in uno strano coniglio, e dall’altra quella dei legami di famiglia che si incrinano man mano che le anime dei due fratelli si perdono nei loro oscuri mondi ‘personali’. Ne derivano alcune domande senza risposta: cosa lega il coniglio al loro terribile passato? Perché l’animale tenta continuamente di rapire il bambino? E infine, quando e come la sorella ha perso l’uso della voce? Il fatto di condividere lo stesso mondo non significa necessariamente che si debbano vedere e provare le stesse cose. Siamo sicuri che la persona seduta al nostro fianco sia davvero quella che crediamo? E siamo proprio sicuri che ci stia rivelando i suoi veri sentimenti?”
José de Arcangelo