mercoledì 5 settembre 2012

L'Italia contemporanea, cinica e depressa, è la protagonista della "Bella addormentata" di Marco Bellocchio, in concorso alla 69° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

E’ il giorno di Marco Bellocchio alla 69a. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con il secondo film italiano in concorso “Bella addormentata” (da domani nelle sale distribuito da 01), una riflessione sull’Italia d’oggi che prende ispirazione dal ‘caso Eluana Englaro per dipingere un lucido ritratto della nostra società addormentata, anzi drogata da cinismo, ipocrisia, delusione e depressione collettiva. “Il film nasce da una fortissima emozione (e stupore) – dice l’autore nelle note di regia - per la morte di Eluana (e soprattutto da come è stata vissuta dagli italiani, penso al popolo della Rete, ai politici, alla chiesa…), dalla mia solidarietà e ammirazione per il padre”.

Un tema, forte, doloroso e personale, anzi intimo e privato, su cui i media e la politica pretendevano di avere ragione, di giudicare e persino di imporre ‘l’accanimento terapeutico’ (alimentazione forzata). Bellocchio però lascia da parte il pregiudizio, il partito preso, e chiarisce “certo non è un film imparziale, in arte credo l’imparzialità non esista, ma è sincero e per nulla ideologico. Ho le mie idee ma il film non ne è il manifesto. Di questo sono convinto, aperto alla discussione (mi auguro che si discuta) e fiducioso in un pubblico non indifferente”. Per tutto questo, ed altro, il suo film colpisce, coinvolge e ci spinge a parlare, a discutere di etica, morale e politica, di pubblico e privato, di vita e di morte (fisica, intellettuale, civile).
I sei giorni che precedono la morte di Eluana, in diversi luoghi d’Italia, quattro storie incrociate, quattro punti di vista, in cui personaggi di fantasia dalle diversi fedi e ideologie, legati emotivamente a quella vicenda in una riflessione esistenziale sul perché della vita e della speranza malgrado tutto. Il senatore Uliano Beffardi (il sempre inimitabile Toni Servillo, per la seconda volta al Lido dopo “E’ stato il figlio”) deve scegliere se votare per una legge che va contro la sua coscienza o non votarla disubbidendo alla disciplina del suo partito, mentre la figlia Maria (Alba Rohrwacher), attivista del movimento per la vita, manifesta davanti alla clinica La Quiete, dove Eluana è ricoverata. Roberto (Michele Riondino), con il fratello Pipino (Fabrizio Falco, anche lui nel film di Ciprì), è schierato nell’opposto fronte laico. Un ‘nemico’ di cui s’innamora la ‘suora’ Maria.
In una grande città (forse Roma), una grande attrice (sublime Isabelle Huppert) - soprannominata la ‘Divina madre’ – cerca nella fede e nel miracolo la guarigione della figlia, da anni in coma irreversibile, sacrificando così il rapporto col figlio Fabrizio (Brenno Placido, figlio di Michele) che cerca inutilmente di ‘raggiungerla’ anche attraverso il mestiere dell’attore. La disperata Rossa (bella prova di Maya Sansa), tossicodipendente aspirante suicida, viene salvata (risvegliata) da un giovane medico chiamato Pallido (Pier Giorgio Bellocchio), che si oppone con tutte le forze al suo suicidio. Questa la storia che chiude magistralmente – un vero risveglio alla vita -, la nuova pellicola di Bellocchio che – secondo noi – è vicina al Leone d’oro.
Con uno stile sobrio ma potente, l’autore rievoca con coerenza registica le atmosfere – tra corrosiva ironia e spietata accusa alla politica degli ultimi anni - dei suoi capolavori, da “I pugni in tasca” (la famiglia borghese sembra lo specchio contemporaneo di quella di cinquant’anni fa) a “Nel nome del padre” (i rapporti coi figli è sempre conflittuale e fortemente influenzato dalla società), da “L’ora di religione” (la fede) a “Vincere” (l’arroganza del potere). Ottimo il contributo del direttore della fotografia Daniele Ciprì che dà a ogni storia, ad ogni città, la luce giusta, incorniciando i ‘quadri’ disegnati dall’autore. Nel cast anche Gian Marco Tognazzi (il marito della ‘Divina Madre’), Gigio Morra (il persuasore), Federica Fracassi (madre) e il grande Roberto Herlitzka (il senatore psichiatra). Tutt’altra atmosfera e argomento per il secondo film in concorso della giornata, “Spring Breakers” di Harmony Korine (nel cast anche la figlia) che sotto l’apparente patina da videoclip e le giovanissime protagoniste (Vanessa Hudgens, Ashley Benson, Selena Gomez e Rachel Korine), ex dive disneyane idolatrate dagli adolescenti, ci sbatte in faccia l’odierno ‘American Dream’ che, secondo l’autore, non è più quello di arrivare al successo (e alla felicità) col duro lavoro e la forza di volontà, ma raggiungere un livello di eterna spensieratezza, privo di responsabilità e doveri. Quattro sexy studentesse sexy sperano di trovare i soldi per le loro vacanze di primavera rapinando un fastfood. Ma,
in una notte di pazzie, vengono arrestate a un posto di blocco per detenzione di droga. Ubriache e con addosso solo il bikini, le ragazze vengono portate dal giudice, ma vengono rilasciate grazie alla cauzione pagata da Alien, un criminale dal cuore d’oro che le prende sotto la sua protezione e fa vivere loro una indimenticabile vacanza. Una spietata rappresentazione della decadenza degli States e di una generazione divisa tra vacuità e inconsapevolezza, anche se realizzata con gli stessi mezzi che dovrebbe criticare (videopop, luci e colori, musica roboante, ritmo frenetico) ma, forse, l’unico modo per arrivare alla platea adolescenziale per ‘risvegliarla’ (anch’essa) dal ‘coma profondo’ della loro esistenza. Fuori concorso due grandi maestri come il portoghese Manoel de Oliveira (quasi 104 anni!) che ha inviato “Gebo et l’ombre” con un cast eccezionale capeggiato da Claudia Cardinale, Michael Lonsdale, Luis Miguel Sintra (i tre presenti al Lido in rappresentanza dell’autore), Ricardo Trepa, Leonor Silveira (sua attrice feticcio) e Jeanne Moreau; e l’inglese – ma francese d’adozione - Peter Brook (87 anni), ‘fotografato’ dal figlio Simon nel documentario-omaggio “The Tightrope”. Il protagonista dell’opera di de Oliveira, Gebo (Lonsdale) vive con la moglie (Cardinale) e la nuora (Silveira=, moglie del suo unico figlio, in un’umile casa. Da tempo non hanno notizie del figlio e la madre è disperata. Il padre crede che il figlio sia coinvolto in qualche attività losca, ma non parla del suo sospetto. La nuora si prende cura dei suoceri come se fossero i suoi genitori e intanto aspetta il marito. Una notte, improvvisamente, questi ritorna...
“L’idea per questo film – ha detto il centenario maestro - nacque quando un amico mi chiese di fare un film sui poveri. Sì, l’idea era buona, ma non è facile fare un film sui poveri. Mi venne in mente ‘Aspettando Godot’ di Samuel Beckett, un dramma sul quale molti intellettuali hanno discusso. José Régio, un critico sempre lungimirante, aveva visto in ‘Il gobbo e la sua ombra’, l’opera di Raul Brandão, un’anticipazione di ‘Aspettando Godot’. Sono così ritornato a ‘Il gobbo e la sua ombra’ perché, pur
essendo del secolo scorso, si adatta bene alla nostra attuale situazione, sotto il punto di vista etico ed economico, senza preconcetti. Anzi, rimane contemporaneo e universale. Inoltre, non è la prima volta che la Francia è l’ambientazione dei miei film. Il film è in francese. Sono un grande ammiratore di quel paese dove fu inventato il cinematografo che ha dato vita a tante opere d’arte, essenziali oggi e per il futuro, credo. Come ha detto il grande regista messicano Arturo Ripstein: ‘Il cinema è lo specchio della vita’. Oltre a dare un riconoscimento alla Francia in quanto paese di quell’invenzione, ho anche un debito personale verso i critici francesi che accolsero il mio primo film al quinto congresso dei critici cinematografici a Lisbona nel 1931”.
Il documentario sul lavoro di Brook parte dall’interrogativo “Come si fa a rendere il teatro reale? È così facile ricadere nella tragedia o nella commedia. Quel che più conta è camminare esattamente sul filo di rasoio della corda dell’acrobata...” Per la prima volta in quarant’anni, Brook, il monumento vivente del teatro contemporaneo, ha acconsentito ad alzare il sipario e a permettere a suo figlio Simon di girare dietro le quinte e di rivelare i segreti del suo approccio. Quindi, un film unico e personale che ci conduce nella sfera di intimità di un laboratorio, in un’esperienza filosofica, sulla corda tesa. Nella sezione Orizzonti passati il turco “Araf – Somewhere in Between” di Yesim Ustaoglu e il cinese “Fly with the Crane” di Ruijun Li. Nel primo si seguono le vicende di due giovani, Zehra e Olgun, che conducono una vita immobile. Lavorano tutto il giorno in una stazione di servizio in cui tutto appare transitorio e senza senso, dove la monotonia e la banalità dei turni di lavoro sono spezzate solo dagli slanci delle loro aspettative di un futuro migliore, ma che si rivelano essere improbabili e ingenue.
“Il mio film riflette il mondo di oggi – spiega l’autore -, dove la gente vive in una sorta di vuoto. Sembra di essere arrivati alla fine del mondo che conosciamo e di essere sul bordo di qualcosa di ‘ignoto’. Non sappiamo come entrarci e cosa proviamo. Il sistema in cui viviamo ci manda dei segnali di allarme, ma non ci facciamo caso. Il film si svolge con questa prospettiva globale, su piccola scala, mettendo in mostra caratteristiche tipiche della Turchia. Entra nelle vite delle persone mediocri bloccate tra cultura nazionale e il proprio ‘araf’, il ‘luogo in mezzo’.
L’ambientazione in una stazione di servizio è una metafora per evidenziare la natura mutevole e transitoria della nostra epoca, dove i protagonisti sono crisalidi in un mondo pieno di ombre e di realtà fluide, alla ricerca di una via d’uscita”. Il secondo narra dei settantatreenni Lao Ma e Lao Cao, che da giovani erano famosi falegnami del villaggio e costruivano le bare per gli anziani della zona. Ora, ormai vecchi, hanno corpi che non sono più agili come una volta; inoltre, il governo ha incrementato la pratica della cremazione, quindi nessuno si affida più a loro per farsi costruire la bara. E, prima della sua morte, Lao Cao chiede a Lao Ma di aiutarlo a fabbricare la propria, e insieme si mettono a costruirla.
“Un anziano desidera che la sua anima salga al cielo – dice il regista -, ma è incapace di rinunciare al suo legame viscerale con la terra. Quando alla fine si rende conto del suo decadimento fisico, non vede più la ragione di preservare il suo corpo, ma anzi capisce di doverlo abbandonare per liberare la sua anima. La storia di quest’uomo anziano dà la possibilità di capire, lentamente, che la terra è una fine unita con un inizio, e che tutto non è altro che un gioco divino inserito in un mondo profano”. Però sono andate avanti anche le proiezioni delle Giornate degli Autori e della Settimana della Critica. E, purtroppo, è già iniziato il conto alla rovescia per il festival che chiuderà i battenti sabato prossimo. José de Arcangelo