lunedì 6 settembre 2010

A Venezia 67, in primo piano la strage di Nassirya con "20 sigarette" di Amadei

Evento della quinta giornata del 67°. Festival di Venezia è stato - proposto dalla sezione Controcampo Italiano - l’autobiografico “20 sigarette” di Aureliano Amadei, un dramma che senza retorica né schieramenti di sorta rievoca la strage di Nassirya dal punto di vista dell’unico sopravvissuto, il regista stesso. Toccante e commovente al punto giusto, il film racconta nient’altro che la verità sull’accaduto. Ma si sa anche la verità ‘non è uguale per tutti’.
Novembre 2003: Aureliano (il bravo Vinicio Marchioni del “Romanzo criminale” televisivo), giovane anarchico e antimilitarista, quindi pacifista, precario nel lavoro e nei sentimenti, riceve l’offerta di partire subito per lavorare come aiuto regista (di Stefano Rolla, morto nell’attentato) in un film da girare in Iraq, al seguito della missione di pace dei militari italiani. Nonostante le critiche degli amici, dell’amica del cuore, Claudia (Carolina Crescentini), e la preoccupazione dei suoi familiari, soprattutto della madre con cui convive, Aureliano parte. Si ritrova così al centro di un mondo, quello militare, che non approva e su cui ha molti pregiudizi, scoprendo però in coloro che incontra un’umanità e un senso di fratellanza che gli appartengono. Al seguito di Rolla, il regista che lo ha coinvolto con la sua passione e il suo entusiasmo per il lavoro e per la vita, Aureliano non fa in tempo a finire un pacchetto di sigarette (ecco le 20 sigarette del titolo) che si ritrova nel mezzo dell’attentato alla caserma di Nassirya del 12 novembre 2003. Unico civile sopravvissuto di una strage che ha ucciso 19 italiani e un numero imprecisato di civili iracheni, il giovane, pur gravemente ferito, riesce a mettersi in salvo. Testimone e vittima dell’avvenimento, passa dall’ospedale americano di Nassirya a quello del Celio di Roma, in una lunga degenza in cui si ritrova assediato da politici, militari e giornalisti perché nel frattempo è diventato suo malgrado un eroe per caso. Assistito da Claudia, Aureliano si trasforma da ‘ragazzo’ in ‘uomo’.
E, dopo aver raccontato la vicenda in un libro, Amadei ha deciso di farne un film, debuttando nella regia. Come dicevamo, con un dramma coinvolgente - da mercoledì 8 nelle sale - in cui non mancano spettacolarità e riflessione, e la scena dell’attentato - ricostruita come soggettiva del protagonista - offre una visione inedita e sconvolgente del tragico episodio. Accolta da una standing ovation di quasi quindici minuti, l’opera prima ora attende il giudizio del pubblico.
Nel concorso sono stati presentati “Meek's Cutoff” di Kelly Reichardt, “Detective Dee” di Tsui Hark, e “Post Mortem” del cileno Pablo Larraín. “1960” di Gabriele Salvatores e “Niente paura” di Piergiorgio Gay, sono passati fuori concorso. “Caracremada” (Faccia cremata) dello spagnolo Lluís Galter, “21 ke” (21 grammi) di Xun Sun ed “El Sicario Room 164” di Gianfranco Rosi nella sezione Orizzonti.
“Meek’s Cutoff” è sì un dramma western, ma il primo diretto da una donna, regista indipendente al suo quarto film, e, dunque, visto dal punto di vista femminile in tutta la sua umanità e crudezza, tra il metaforico e il metafisico. Niente sparatoria né azione, ma indagine psicologica e riflessione. Una storia vera che diventa una visione assolutamente opposta ai classici miti fondanti degli Stati Uniti. 1845: il duro viaggio dei pionieri lungo l'Oregon Trail, pista battuta dagli emigranti che colonizzarono l'Ovest (e fecero l’America) in cerca di terre e di fortuna. Un viaggio che rievocando quelli del passato porta in primo piano il dramma degli immigrati di oggi.
Il cinese Tsui Hark ci riporta, invece, nell’anno 690 d.C., al tempo della dinastia Tang, nella città capitale Luoyang. Vi si sta costruendo un monumentale stupa buddista. Quando sarà completato, la prima donna Imperatrice della Cina, Wu Zetian, salirà formalmente sul trono del Paese più grande e potente del mondo. Ma una serie di misteriose sciagure minaccia l’ascesa al potere della donna: diversi uomini sono morti per autocombustione in pubblico. Decisa a risolvere il caso prima di salire sul trono, Wu si rivolge a un improbabile candidato, Di Renjie (il Dee del titolo internazionale), fatto imprigionare otto anni prima dopo che lui l’aveva criticata per aver preso il potere alla morte dell’Imperatore: lo nomina Giudice Supremo dell’Impero, affiancandogli nell’indagine il violento e ambizioso magistrato Bei Donglai...
Esempio dell’ormai genere xuxiapian (mix tipicamente cinese di storia, fantasy e arti marziali), il regista lo rinnova trasformando la sua storia in un sorta di thriller moderno in bilico fra avventura e commedia. Uno spettacolo dai colori fiammeggianti, magari con un eccessivo uso del digitale e qualche ‘difettuccio’ e/o compromesso, ma che comunque offre azione e fantasia per tutti.
Il dramma del cileno Larraìn rievoca i tragici anni della dittatura di Pinochet attraverso una vicenda privata, il ritratto di un uomo fra solitudine e disagio, fra amore e morte. Mario, 55 anni, lavora in un obitorio battendo a macchina i referti delle autopsie. Nel 1973, nel pieno del golpe militare, fantastica sulla sua vicina Nancy, ballerina di cabaret, che scompare misteriosamente proprio quell’11 settembre. Dopo una violenta irruzione dell’esercito in casa della famiglia della donna, Mario apprende dell’arresto del fratello e del padre di lei, esponente di spicco del Partito Comunista e sostenitore di Salvador Allende. Turbato e spinto dalla perdita dell’amante mancata, l’uomo si mette freneticamente alla sua ricerca. Il governo Allende è stato rovesciato e la gente muore per le strade, l’esercito sequestra l’obitorio e i cadaveri si accumulano però Mario non riesce a distogliere la mente da Nancy. E continua a fare il proprio lavoro, finché una notte...
Un dramma straziante, anzi un incubo angosciante, costruito magistralmente fra pubblico e privato, fra solitudine e isolamento, sorta di autopsia, appunto, di un paese visto da un testimone tanto anonimo – quasi un morto vivente, anzi un fantasma – quanto indifferente.
Il lavoro di Salvatores non è il tradizionale documentario costruito con materiale di repertorio (delle Teche Rai), ma un documento che diventa un film a tutti gli effetti perché fatti e personaggi diventano il centro della Storia (italiana). Ecco il racconto: estate 1959. Gente felice al mare. La voce di un adulto (quella di Giuseppe Cederna) rievoca quei giorni. Il ricordo di quella estate è ancora vivo nella sua memoria: è stata l’ultima che ha trascorso insieme al fratello Rosario prima che quest’ultimo partisse per il nord. Da questo momento a tenere uniti i due fratelli sono le lettere che Rosario manda da Milano. Racconta della sua nuova vita, della libertà che ha conquistato, degli amici con cui trascorre il suo tempo, scrive di un mondo magico, fatato dove ognuno ottiene ciò che desidera. Ma sono quelle stesse lettere a mettere in allarme la famiglia: Rosario da quando è nel capolugo lombardo si è trasformato in un ribelle, ha perfino dimenticato la promessa di matrimonio fatta a Rosalba, una ragazza del suo paese che lo ama. I genitori capiscono che bisogna fare qualcosa e allora decidono di partire per riportare il figlio a casa. Inizia così un lungo viaggio alla ricerca di Rosario che porterà questa famiglia ad attraversare tutta l’Italia ed a scoprire un paese che, trascinato dal boom economico, sta cambiando sotto i loro occhi. Presto quel viaggio si trasforma in una specie di sogno scandito dalle contraddizioni di Napoli, dalla Roma delle Olimpiadi e dalla Dolce Vita, dal mito della straniera e dalla riviera romagnola. Ma la mèta finale resta Milano dove scopriranno la verità su Rosario.
"Allora eravamo alla ricerca dell'identità – afferma il regista -, e lo siamo ancora. Non ci mancano creatività e bellezza: ci manca la coscienza nazionale. Allora la Fiat produceva un'auto al minuto: ora chiudiamo gli stabilimenti: la bolla si è sgonfiata, bisogna stare attenti ai sogni sbagliati. La memoria è un muscolo che va esercitato, mentre in questi anni tendono a farcelo atrofizzare. Ma non ho mai cercato l'effetto nostalgia". Infatti, il suo documentario sembra la scoperta di una realtà rimossa, di un passato dimenticato (mitizzato) troppo in fretta. Lo rivedremo prossimamente su Raitre in prima serata e poi sarà anche in edicola. E la Rai ha annunciato che intende produrre uno per ogni anno. Staseremo a vedere.
Da parte sua il regista Piergiorgio Gay ha deciso di raccontare un musicista italiano e il suo pubblico per ripercorrere gli ultimi trent’anni del nostro Paese. Ma possono le canzoni raccontare la società? E può il percorso artistico di un musicista - nel nostro caso Luciano Ligabue - raccontare come eravamo e come siamo adesso? Vedendo il film sembra proprio di sì. Anche perché la musica popolare parla di noi, e spesso ci ritrae meglio di tanti saggi o studi sociologici. Parte da un’emozione, dal ritmo, in maniera viscerale. Una canzone può semplicemente rimanere legata a un momento particolare della nostra vita, darci felicità, amarezza o nostalgia nel ricordo. Addirittura “celebrare” un evento cruciale, diventare “rito”, nel senso più laico e bello del termine. Canzoni ed emozioni. Canzoni nello scorrere della vita personale ma anche sociale e politica. Canzoni e memoria. Memoria personale e memoria collettiva, nel duplice senso di memoria di un Paese e memoria di tante persone insieme. Perché Ligabue? “Perché è un musicista italiano popolare; perché nei suoi concerti quando canta ‘Non è tempo per noi’, vengono proiettati sul maxischermo gli articoli della Costituzione italiana; perché quando canta ‘Buonanotte all’Italia’ scorrono alle sue spalle i visi delle persone che hanno fatto qualcosa per questo Paese; perché quando finisce i concerti si rivolge al pubblico dicendo: ‘Vorrei augurare la buona notte / a tutti quelli che vivono in questo Paese / ma che non si sentono in affitto, / perché questo Paese è di chi lo abita / e non di chi lo governa’.”
Ritorno al passato anche dallo spagnolo Galter, perché “Caracremada” è il soprannome attribuito dalla Guardia Civil a Ramon Vila Capdevila, e la pellicola è un tentativo di riflettere sulla resistenza libertaria al regime franchista attraverso gli occhi dell’ultimo guerrigliero rimasto attivo. Nel 1951 la CNT ordinò ai suoi militanti (rifugiati in Francia) di ritirarsi, ma Ramon Vila restò nei boschi dell’entroterra catalano, dove riprese la lotta agendo per conto proprio. Un dramma per non dimenticare gli anni duri e bui della dittatura franchista, durata quasi quarant’anni.
Il cinese Xun Sun usa l’animazione ma non quella tradizionale per raccontarci (senza parole e in mezz’ora) che “questo mondo non ha un tempo specifico; viviamo nella vanità. È un mondo sconcertante. Non ci sono leggi né regole, e la menzogna domina su tutto. Vi sono solo persone che mentono e persone a cui si mente. Le bugie sono ovunque condannate dalla morale, ma il prestigiatore è l’unica eccezione. Chi si sente perduto subito dà in pegno la propria anima e ripone le sue speranze in noi. Sì: i prestigiatori sono l’autorità! La menzogna è verità! Ed è a buon mercato!”
El Sicario - Room 164 è, invece, un documentario di 80 minuti sulla vita di un killer, tratto dal saggio “The Sicario” di Charles Bowden, pubblicato nel 2009 su Harper’s Magazine. Il protagonista ha ucciso centinaia di persone, è esperto in torture e rapimenti, ha lavorato per molti anni come comandante della polizia statale del Chihuahua ed è stato perfino addestrato dall’FBI. Residente a Ciudad Juárez, si muoveva liberamente tra Messico e Stati Uniti. Mai accusato di alcun crimine, attualmente vive libero, ma da fuggitivo poiché sulla sua testa pende una taglia di 250.000 dollari. Il film è stato girato proprio nella stanza di un motel al confine tra i due grandi paesi. E il fatto più sorprendente è che il sicario dimostra profonda intelligenza, grande dialettica e assoluta credibilità.
José de Arcangelo