martedì 7 settembre 2010

Al Festival di Venezia 67, il Risorgimento visto da tre giovani meridionali nel film di Mario Martone in "Noi credevamo". E Gallo e de la Iglesia

Terzo film italiano in concorso, “Noi credevamo” di Mario Martone, un colossale affresco (quasi tre ore e mezza) sulla “nascita” dell’Italia, vista lucidamente (e pessimisticamente) attraverso le vicende di tre ragazzi meridionali, spinti dalla ribellione e dall’entusiasmo, e nato da una riflessione storica dell’autore dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Già ribattezzato da alcuni come “La meglio gioventù” dell’Ottocento, che ricorda, secondo altri, “Nell’anno del Signore” di Magni, il film – partendo dal romanzo di Anna Banti - analizza il Risorgimento con l’intenzione di rivelare le cause di un’unità rimasta ancora in gran parte sulla carta.
A proposito di riferimenti, Martone confessa “Abbiamo tenuto presente tutti i film realizzati sul Risorgimento da ‘Il Gattopardo’ e ‘Senso’ ai film dei fratelli Taviani, ma poi abbiamo preso la nostra strada. Però la mia grande fonte sia per l’approccio alla storia sia per l’utilizzo della Storia è stata Roberto Rossellini”.
Tre ragazzi del Sud Italia, dopo la feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi, che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l’Unità d’Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore verranno segnate dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci e disillusioni. Sullo sfondo, la storia dei conflitti implacabili tra i “padri della Patria”, dell’insanabile frattura tra Nord e Sud, delle radici contorte su cui si è sviluppata l’Italia in cui viviamo.
“Raccontare il Risorgimento nella sua interezza – conclude il regista - sarebbe stato impossibile e abbiamo dovuto fare delle scelte. Il processo unitario è stato complesso e noi (con il co-sceneggiatore Giancarlo De Cataldo ndr.) abbiamo individuato quattro momenti, che corrispondono ai quattro episodi, che potessero essere indicativi delle zone oscure della Storia. Il pubblico è invitato a porre questi episodi accanto a quelli che già conosce, come la spedizione dei Mille, da noi solo accennata. Infine, abbiamo scelto dei punti precisi per non essere approssimativi o frettolosi, ma per sviscerarli. Io mi aspetto che arrivi la risposta sabaudo-cavouriana a questo nostro film!”
Grande cast: Luigi Lo Cascio (Domenico), Valerio Binasco (Angelo), Francesca Inaudi (Cristina giovane), Guido Caprino (Felice Orsini), Renato Carpentieri (Carlo Poerio), Ivan Franek (Simon Bernard), Andrea Bosca (Angelo giovane), Edoardo Natoli (Domenico giovane), Luigi Pisani (Salvatore), Michele Riondino (Saverio), Franco Ravera (Gomez), Andrea Renzi (Castromediano), Edoardo Winspeare (Nisco), Anna Bonaiuto (Cristina), Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Fiona Shaw (Emilie), Romuald Andrzej Klos (Worcel), Pino Calabrese (maresciallo Del Carretto), Roberto De Francesco (Ludovico), Luca Barbareschi (Antonio Gallenga), Alfonso Santagata (Saverio o’ trappetaro) e tanti altri.
Ma il settimo giorno della 67a. Mostra ha riservato altri due film in gara: “Promises Written in Water” dell’italo-americano Vincent Gallo e “Balada triste de trompeta” dello spagnolo Alex de la Iglesia. “Surviving Life” di Jan Svankmajer fuori concorso. “Into paradiso” di Paola Rndi in Controcampo Italiano.
Il film di Gallo (oltre regista e protagonista anche produttore, autore delle musiche e del montaggio) racconta della morte di una ragazza, malata terminale che desidera essere cremata dal compagno, in un viaggio a ritroso che rievoca il loro percorso amoroso. Un’opera autoriale in bianco e nero, sperimentale e alternativa, in bilico fra i vecchi cari Godard e Warhol. Accolta tiepidamente da chi l’avrebbe voluta in un’altra asezione, ma non in concorso, per qualcuno è invece “la tipica pellicola da festival”.
Definito caotico, anarchico e confuso da alcuni, originale e travolgente da altri, “Balada triste de trompeta” (titolo preso in prestito da una celebre canzone anni ’60) dello spagnolo Eloy de la Iglesia è un invece coerente col cinema del suo autore. Sempre in bilico fra diversi generi – dalla commedia all’horror, dal musical al dramma – e (volutamente) sopra le righe.
1937. Le scimmie del circo urlano selvaggiamente nella loro gabbia mentre, fuori, gli uomini uccidono e muoiono in un altro circo: la guerra civile spagnola. Il Pagliaccio Triste, arruolato contro il suo volere dalla Milizia, finisce per commettere con un machete un massacro di soldati nazionalisti mentre ha ancora indosso il suo costume. E così inizia questa movimentata avventura in cui Javier e Sergio, due pagliacci orrendamente sfigurati, combattono all’ultimo sangue per l’amore ambiguo di un’acrobata durante il regime di Franco.
Come si potrebbe pensare non è (solo) un film sulla Spagna franchista ma piuttosto sul ‘baraccone’ chiamato spettacolo, fra vizi e virtù. Da amare o da odiare senza mezzi termini.
Dagli eccessi del regista spagnolo alla leggerezza della commedia multietnica di Paola Randi, già attivissima video-maker, che ci propone una Napoli insolita e misconosciuta. Alfonso è uno scienziato napoletano, timido e impacciato, che ha appena perso il lavoro. Gayan è un affascinante ex campione di cricket srilankese che non ha più un soldo, è appena arrivato a Napoli ed è convinto di trovare il Paradiso. Alfonso ha passato tutta la vita a studiare la migrazione delle cellule e a guardare telenovelas con la madre. Gayan ha viaggiato, ha conosciuto fama, gloria e denaro. Che cosa c’entrano questi due uomini l’uno con l’altro?
Alfonso e Gayan si ritrovano a condividere giocoforza una catapecchia eretta abusivamente sul tetto di un palazzo nel cuore del quartiere srilankese della città, soprannominata appunto Paradiso. Alfonso è costretto, per un tragicomico equivoco, a nascondersi da una banda di malavitosi e Gayan diviene dapprima ostaggio e poi suo unico alleato. Da questa paradossale convivenza nasce tra i due una speciale amicizia, un sodalizio che darà loro il coraggio di affrontare il proprio destino.
Il film ceco, fuori concorso, è il ritratto di Eugene, un uomo sulla via della vecchiaia, che vive una doppia vita, reale e immaginaria. Dopo la visita da uno psicanalista, che prova a interpretare il significato dei suoi sogni, Eugene trova un modo di entrare a piacimento nel mondo dei suoi sogni e scopre finalmente la verità sulla sua infanzia e su ciò che realmente accadde ai suoi genitori. Quando infine sua moglie lo costringe a decidere tra realtà e sogno, Eugene sceglie il sogno.
Dedicato al regista Sergio Corbucci a 20 anni dalla sua scomparsa - un maestro del western all’italiana, ma protagonista eclettico in tutti i generi, dal melodramma al comico, dal musicale al mitologico, dal giallo all’avventuroso – è il Panel internazionale, moderato da Peter Cowie, che si è svolto al Lido oggi alle ore 15.30 in Sala Conferenze Stampa, organizzato dalla Mostra. Nell’ambito del convegno, lunedì 6 e martedì 7 settembre sono stati proiettati “Minnesota Clay” (1965) e “I crudeli” (1967), due fra i più singolari e sorprendenti western diretti da Corbucci, fra i più amati da Quentin Tarantino, che per l’occasione ha dichiarato: “Sergio Corbucci non è semplicemente uno dei più grandi registi dello spaghetti-western, ma anche uno dei più grandi registi del periodo western e non vedo l’ora di rendergli il dovuto omaggio a Venezia quest’anno”.
Per la Settimana della Critica, è stato presentato ieri l’intenso dramma “Beyond”, opera prima dell’attrice Pernilla August, scoperta da Ingmar Bergman in “Fanny & Alexander” (era la governante) e da Hollywood in “Star Wars – Episodio I”.
Storia di una famiglia felice in una mattina di festa. All’improvviso la giovane madre, Leena (la Noomi Rapace di “Uomini che odiano le donne”), riceve una telefonata che la informa che sua madre è ricoverata in gravissime condizioni. Contro la sua volontà, il marito decide di portarla, insieme alle due figliolette, a trovare la donna. Per Leena è anche l’inizio di un doloroso viaggio interiore che la costringe a rievocare un passato cancellato con una forza di volontà impressionante. I genitori, due emigrati finlandesi che non si sono mai veramente sentiti a casa propria in Svezia, vivevano tra abuso di alcol e litigi violenti una passione devastante e cieca, mentre Leena e il fratellino cercavano di sopravvivere come potevano. Lei vincendo gare di nuoto e annotando in un quadernetto i significati delle parole della nuova lingua, diversa da quella materna, lui chiudendosi in un suo mondo fino all’implosione. Per Leena, che ha scelto di perseguire la normalità a tutti i costi, mentendo a se stessa e agli altri, questa si rivela l’ultima occasione di affrontare quel mondo oscuro da cui proviene e che le appartiene.
Oggi, invece, è toccato allo slovacco “Oca” (Papà), un dramma in bilico fra dura realtà ed onirici pensieri. Un padre e un figlio trascorrono un’intera giornata nel bosco. Pescano, dialogano, verificano lo stato del loro rapporto. L’adulto avverte nelle risposte del bambino un’autonomia di pensiero e una lucidità di analisi che lo sorprende e lo rattrista. Il bambino ha reagito alla separazione dei genitori legandosi molto alla madre, ma covando dentro di sé il dolore legato all’assenza paterna. Le lacrime riusciranno forse a stemperare i ricordi inclementi e a suggellare questo momento d’incontro e il tentativo implicito di recuperare le distanze, le incomprensioni e il tempo perduto. E in parte a colmare il peso dei silenzi prolungati, che preoccupano il padre operaio non meno di tanti altri suoi colleghi ai quali la crisi economica e le precarie condizioni lavorative concorrono a rendere difficile la costruzione di un futuro per i propri figli.
Il direttore della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia Marco Müller e il Vice President Entertainment di Fox Channels Italy Fabrizio Salini hanno annunciato la partnership editoriale tra la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia e Cult (Sky, canale 319) che inaugurerà il ciclo “Cult a Venezia”: un appuntamento televisivo presentato dallo stesso Müller che porterà su Cult alcuni titoli che hanno partecipato al Festival, ma che il pubblico non ha mai potuto ammirare in sala né in home video, perché non distribuiti in Italia.
Il ciclo offrirà dunque a chi ama il cinema un’irripetibile occasione di approfondimento sulla selezione della Mostra e sull'eccellenza artistica della produzione cinematografica internazionale Cult a Venezia sarà in onda su Cult dal prossimo inverno. Ogni film verrà proposto in versione originale con sottotitoli italiani, come nelle proiezioni festivaliere. Questi i 5 titoli del primo appuntamento con Cult a Venezia: “Vegas” di Amir Naderi; “Plastic City” di Yu Lik Way; “White Material” di Claire Denis; “Vynian” di Fabrice Du Welz e “Sukiaky Western Django” di Takashi Miike, tutti presentati nell’edizione 2008.
José de Arcangelo