venerdì 29 agosto 2008

Al Lido, delude Barbet Schroeder, seduce l'Iran di Kiarostami e Motamedian

VENEZIA, 28 – Dopo i fratelli Coen, è arrivato Abbas Kiarostami – anche lui fuori concorso – e Takeshi Kitano che, invece, è in competizione. Il film di Kiarostami “Shirin” è un “esperimento” particolare perché narra il poema persiano del XII secolo, “Khosrow e Shirin”, scritto da Negami Ganjevi, ma attraverso uno spettacolo teatrale messo in scena dallo stesso regista ma non che non vedremo. Una favola raccontata attraverso i dialoghi e lo sguardo degli spettatori, anzi delle spettatrici, che sono la maggioranza, e ‘interpretate’ da cento quattordici famose attrici iraniane di cinema e di teatro e una star francese: Juliette Binoche.

“Il poema persiano – dice il regista – racconta la storia di Shirin, principessa di Armenia che si innamora di Khosrow, re di Persia. Shirin rinuncia al trono per questo amore impossibile, ma in Iran si innamora di un altro uomo, Farhad, scultore e architetto. Nasce così il primo dramma poetico persiano basato su un triangolo amoroso ed è questa l’opera teatrale a cui assistono le 114 attrici che interpretano il film.

Attraverso questa esperienza ho finalmente realizzato un desiderio che avevo fin dai tempi in cui ancora non lavoravo nel cinema: osservare lo sguardo degli spettatori”.

Quindi chi non ama la mancanza assoluta di azione, forse, l’odierà (e lascerà la sala come hanno fatto alcuni) mentre chi ama il cinema d’autore e ogni possibilità espressiva, riuscirà a stare al “gioco” e ad immaginare questa antica favola morale attraverso gli intensi sguardi delle spettatrici.

Iraniano anche il “film a sorpresa” della sezione Orizzonti: “Kastegi - Tedium”, opera prima di Bahaman Motamedian. storia di sette transessuali iraniani alle prese con i consueti pregiudizi, la solita omofobia, le tradizioni, la religione (che però non condanna) e via dicendo. Questi “ostacoli” non sono poi molto diversi da quelli che devono affrontare i loro simili anche in Europa. Anche perché la ‘legge’ iraniana, soprattutto quando si tratta di maschi che si sentono donne, non li punisce. Anzi, dichiara in torto la famiglia che li ripudia. Una docu-fiction piena di sorprese e di sentimenti che parla della “diversità” con delicatezza e passione.

L’altra sorpresa della sezione è il cinese “Perfect Life” della regista Emily Tang Xiaobai (già menzione speciale a Locarno 2001 per la sua opera prima). La condizione femminile – come si diceva una volta - nella Cina contemporanea attraverso i ritratti di due donne, una giovane e l’altra meno giovane. I problemi sono ormai globali come il lavoro, la famiglia, i rapporti. Un dittico raccontato in parallelo, ora amaro ora spiazzante, ma comunque, intenso e, forse, troppo “lento” per il gusto dello spettatore occidentale.

Le vicende della ventunenne Li, bugiarda per forza, e della più matura Jennifer sono destinate a incrociarsi. La ragazza lascia il suo paese, nel Nordest, per accompagnare un disabile a Sud, verso (la mitica) Hong Kong. La seconda decide di divorziare dal marito che l’ha portata alla rovina e di scappare.

Partita dal documentario, l’autrice afferma: “E’ costruito sull’unione di finzione e materiale documentario. Ciò che mi interessa non è sperimentazione, ma esplorare la tensione e l’azione drammatica che nasce da contatti casuali tra finzione e realtà”.

Sempre per “Orizzonti”, vista anche un’altra docu-fiction, stavolta filippina, “Jay” di Francis Xavier Pasion, che prende spunto dalla “tivù del dolore” a cui l’Italia non è estranea. Jay, insegnante gay, viene brutalmente ucciso. Prima ancora che la famiglia ne venga informata, un giovane produttore televisivo – di nome Jay, come la vittima – si presenta nella casa con una troupe per una sorta di documentario-reality show, anzi reality-shock, per documentare il dolore della madre e dei fratelli.

Quindi, anche nel film realtà e finzione si confondono, recita e vita si mescolano, tanto che alla fine, forse, ne sapremo meno di prima, soprattutto del delitto.

“Avendo lavorato come autore e produttore – confessa Pasion – in una delle principali reti televisive delle Filippine, ho avuto modo di assistere a tante forzature, tutte compiute nel nome della televisione. In tivù la verità non è mai abbastanza. I particolari di una storia possono essere coloriti (il che non significa cambiati o alterati) al fine di renderli più spendibili in video. Mi auguro che dopo aver visto questo film il pubblico diventi più critico e giudizioso davanti a ciò che viene mostrato loro in televisione o su altri media. In quest’epoca di tecnologie digitali, in cui le immagini e le informazioni affollano la nostra coscienza collettiva, la verità è qualcosa di assoluto, relativo o del tutto in conoscibile?”

Per la settimana della critica è stato presentato il bosniaco “Curari noci” (Guardiani notturni) di Namik Kabil, un dramma sulle conseguenze di un’atroce guerra che ha trasformato i sopravvissuti in una sorta di morti viventi, torturati da malanni provocati da angoscia e depressione. Attraverso il ritratto di due guardiani notturni di un centro commerciale viene fuori tutta l’amarezze e un velato senso di colpa di essere ancora vivi, rimossi da un ‘folle’ reduce che, tramite l’alcol, butta fuori tutta la sua rabbia. Un altro film da scoprire lentamente, nell’assenza di vera azione e nel tentativo di un’analisi psicologica dei personaggi.

Deludente il thriller esotico di Barbet Schroeder “Inju – La bete dans l’ombre”, dal romanzo di Edogawa Rampo. Un inizio scattante ed efferato, velato da una certa ironia, viene dopo mezz’ora lasciato da parte privilegiando una ‘patinata convenzionalità’. Anche perché la vicenda scivola pian piano nel prevedibile – almeno per chi segue il ‘genere’ – e l’enigma si scopre, forse, troppo presto. E, più di Benoit Magimel – protagonista maschile – funziona l’ambigua Lika Minamoto, sua partner.

Alex Fayard, professore, esperto dello scrittore nipponico Shundei Oe – che tutti conoscono ma nessuno ha mai visto - e scrittore a sua volta di polizieschi di successo, viene invitato in Giappone per l’uscita del suo nuovo libro. Ma, già sull’aereo, riceve un’intimidazione da parte del suo “collega”, che lo invita a lasciar perdere. Una volta a Kyoto, invece Tamao, una bellissima geisha gli confida le sue angosce: anche lei è minacciata di morte da un suo ex amante che potrebbe essere proprio Shundei Oe.

“Alex Fayard – commenta il regista – è molto impressionato da lavoro e dal successo di Shundei Oe. E’ così affascinato che inizia a scrivere libri alla maniera di Shundei e viene così riconosciuto a livello internazionale. E’ quindi quasi come un usurpatore che sbarca in Giappone, accecato dalla propria sicurezza di scrittore e arroganza da occidentale. Ma è anche un innocente disposto a essere turbato. Che cerchi inconsapevolmente una sorta di punizione? ‘Ingu’ è anche un film sul cinema, una riflessione del fascino che esercita in particolare il cinema cosiddetto di ‘genere’ (questo si vede, appunto, soprattutto nella prima parte ndr). Con l’aiuto essenziale di Luciano Tovoli (che firma l’ottima fotografia ndr), sono partito alla ricerca di segreti dimenticati di un certo tipo di cinema, tentando di conferire al film la bellezza fluida di un sogno. Alcune scene di sogno vero e proprio fanno sentire la colpevolezza e le angosce di Alex, uniche scusanti per la sua ingenuità”.

Purtroppo però questi concetti restano solo accennati, anzi si intravedono quasi, sullo sfondo.

José de Arcangelo