giovedì 28 giugno 2007

Festival di Pesaro: A Pesaro, tra John Fante e l'Iraq, la Spagna in primo piano

PESARO, 28 – Giornata all'insegna di John Fante alla 43a. Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro preceduta da un bello e sincero documentario omaggio di Giovanna Di Lello e poi da un breve convegno che ha provocato qualche delusione e qualche sentita protesta dei fantiani o "dantisti" convinti..

D'origine italiana, nata in Canada e poi trasferitasi in Abruzzo, Giovanna Di Lello frequenta poi a Pescara i corsi di cinema nella facoltà di Lingue e Letterature Straniere. La passione per Fante nasce leggendo i suoi romanzi, attratta soprattutto dal cognome dell'autore che è lo stesso di sua nonna. Girato fra l'Italia e gli Stati Uniti, il videodocumentario ricostruisce il personaggio attraverso i suoi libri e le persone che gli sono state vicine: dalla moglie ai figli, dai colleghi al fratello, dagli esperti ai musicisti italiani, tra cui Caposella. A fare la provocatoria introduzione al convegno è stato il professore Martino Maraffi che ha cercato di smontare il culto dello scrittore italo-americano criticando il suo profondo legame alle origini e un infantilismo di fondo, probabile "causa" influente dei nostri nuovi scrittori Peter Pan. Ma per fortuna è stato smentito dagli altri, chi ha confessato il suo innamoramento citando Bukowski – responsabile della sua riscoperta dopo oltre vent'anni di oblio ‑ la sua "prosa calda, densa e viscerale". E infine Lidia Ravera che ha ridimensionato il discorso affermando "è vero che Fante non è un grande scrittore ma uno scrittore grande. Perché parlava del dolore e così riusciva ad accettarlo e a farlo accettare, conquistandosi una sorta di redenzione. E poi instaurava con il lettore una specie di rapporto simbiotico, perché lo scrittore quando scrive è solo e il lettore quando legge pure, perciò tra autore e lettore si crea un legame a due, forse un vero rapporto di coppia. Mentre il professore napoletano Durante ha parlato del figlio Dan che, soltanto dopo la morte del padre, è diventato scrittore ed ha appena finito di scrivere una pièce teatrale, "Don Giovanni", che parla di John Fante, soprattutto nel rapporto con la sua famiglia. Andrà in scena in un teatro off Broadway prima della fine dell'anno, ma anche da noi si sta preparando un allestimento.

Anche il film in concorso presentato ieri è firmato da una donna: "Operation Filmmaker" di Nina Davenport. Un documentario diverso, anzi particolare, che nella struttura può ricordare "Guy" di Michael Lindsay Hogg, anche se lontanamente. Nel 2003, dopo la caduta di Bagdad, il giovane e carismatico studente di cinema, Muthana Mohmed, si alza in piedi e urla di fronte alle telecamere di Mtv il suo sogno di diventare regista. Un sogno distrutto prima da Saddam Hussein e poi dai bombardamenti americani (la scuola era stata trasformata in deposito d'armi). L'episodio colpisce il regista Liev Schreiber che prende a cuore il caso del ragazzo e, con il suo produttore, lo chiama a lavorare a Praga sul set di "Ogni cosa è illuminata". All'inizio sembra che gli americani abbiano preso il ragazzo per mettersi la coscienza a posto, e forse pure sfruttarlo, ma pian piano il giovane irakeno dimostra una certa ambiguità e pensa addirittura che tutto gli sia dovuto. Sono loro, perdipiù ebrei, ad averlo messo nei pasticci (dice che tornando rischia la vita) e così dovrebbero fargli avere il visto per l'America, magari una borsa di studio oppure pagarli la Scuola di Cinema di Londra. Mentre nel suo paese la guerra infiamma e tinge di rosso la terra, Muthana si ribella a un comportamento secondo lui scorretto e, furbescamente, confessa di essere un giovane borghese nullafacente che aveva persino l'autista e che il nonno era addirittura un funzionario del governo. Grazie all'interessamento del produttore e di altri, riesce a inserirsi – ottenendo il rinnovo del visto – sul set di un altro film, "Doom", e alla star The Rock che gli paga la rata annuale della scuola londinese. Non contento, l'intraprendente e astuto giovane continua a mandare mail chiedendo aiuti e soldi a tutti quelli che ha conosciuto sui set, inclusa la regista del documentario, che a un certo punto si vede addirittura negata la possibilità di finire il suo lavoro. Ci riuscirà soltanto sei mesi dopo, quando il "nostro" ha finito la scuola ma non è riuscito a diventare regista ma solo operatore. Ma a questo punto il film – "dirottato" da Muthana ‑ ha preso, forse, un'altra strada anziché quella della metafora dell'invasione dell'Iraq e della mentalità americana. Anzi, diventa invece una sorta di metafora della "carità cristiana" che non risolve il problema ma lo ingigantisce e torna indietro come un boomerang. Vedi "Viridiana" di Luis Bunuel, per cui Ivan Zulueta, il regista a cui è dedicata la retrospettiva, ha disegnato il manifesto.

A proposito di Zulueta, è stato presentato il lungometraggio firmato dal suo amico e produttore Augusto Martinez Torres "Las peliculas de mi padre" (I film di mio padre). L'autore ha dichiarato: "Il film racconta l'incubo che ho passato anni fa quando ho scoperto che mancavano alcuni negativi dei miei cortometraggi. Ho iniziato una sorta di indagine poliziesca per ritrovarli, dimostrare che erano miei, e depositarli nella Filmoteca Espanola. Purtroppo tre sono ancora introvabili, e questo mi ha fatto capire l'inesorabile deterioramento del patrimonio cinematografico, il disinteresse delle istituzioni e il dominio della burocrazia." Poi racconta che a Madrid, da anni, c'è un progetto per costruire una città del cinema, dove i negativi abbiano la temperatura e l'umidità giusta per conservarsi bene e a lungo, ma né il governo di destra né quello di sinistra ha fatto ancora niente. Anche perché i produttori non vogliono investire sui film del passato, ma farne dei nuovi per guadagnare di più.

Il suo lungometraggio non smentisce né lo stile né la metrica del produttore-regista che ‑ per parlare di cinema (nel cinema) ‑ narra una storia in parte autobiografica, perché i film sono i suoi (diretti e/o prodotti negli anni '70). Solo che la pellicola inizia quando il padre è morto. La figlia (la bella e sensuale debuttante Karme Malaga) turbata dalla sua mancanza non ricorda nulla. Ma scopre poco a poco i film che il padre aveva realizzato prima che lei nascesse e i dubbi sulla madre mai conosciuta iniziano ad ossessionarla. E per risolvere l'enigma decide di rintracciare tutte le persone, e i particolar modo le attrici, che hanno lavorato con suo padre, incluso il vero Ivan Zulueta che interpreta se stesso.

A seguire altri corti di Zulueta "Aquarium" (1975) in due versioni (muta e rimontata/musicata), "Complementos" (1976) e "Mi ego està en Babia" (1975) che anticipa il cosiddetto cinema gay spagnolo, diventato "popolare" con Pedro Almodovar che, non a caso, ha preso in prestito le attrici, in un certo senso, lanciate da Zulueta e Torres: Cecilia Roth e Marisa Paredes che, al lungometraggio odierno, non hanno partecipano. La prima perché non c'erano i soldi per farla venire apposta da Buenos Aires, la Paredes perché in tournée teatrale in Spagna.

Anche il documentario della sezione "Sos Europa.Doc" è spagnolo: "Can Tunis" di José Gonzalez Morandi e Paco Toledo. Un film anche duro e crudo che racconta ancora una volta una storia di emarginazione e ingiustizia, di degrado e burocrazia. Can Tunis è infatti un barrio gitano, zingaro, di Barcellona che fin dagli anni Novanta è stato uno dei principali punti di smercio di droga. "E soprattutto – afferma Toledo – da quando ci sono state le Olimpiadi, perché le autorità hanno 'ripulito' il centro e, ovviamente, spacciatori e tossici si sono spostati proprio lì."

Il documentario prende spunto dalle proteste degli abitanti del quartiere che, data l'imminente demolizione delle loro case su terreni che il comune ha già ceduto al porto, chiedono abitazioni popolari. L'attenzione dei registi si concentra sul dodicenne Juan e sulla sua famiglia. La madre è in galera da quando lui aveva 6 anni e dovrebbe uscire fra pochi mesi. Ma in casa abitano il padre e otto fratelli, e vanno e vengono una ventina di parenti.

Un quadro che illustra la vita quotidiana della famiglia, tra la droga e la delinquenza che impera nella strada, e le feste, le tradizioni e i riti che si celebrano in casa, soprattutto intorno alla tavola. Dal Capodanno al fidanzamento.

"Abbiamo contattato una gitana – aggiunge Toledo – per fare il documentario ma lei non sapeva esattamente di cosa si trattava, così quando ci siamo presentati avevano preparato una sorta di scenografia e acceso dei fuochi. Hanno messo subito in chiaro che loro non spacciavano droga né erano delinquenti. Torniamo poi altre volte finché è nata una sorta di confidenza, una certa complicità e una fiducia reciproca. In realtà sono state soprattutto le foto, quelle che abbiamo inserito nei titoli di coda, a convincerli perché si sono visti riflessi in maniera dignitosa e sncer. A quel punto abbiamo potuto riprendere ogni cosa, in piena intimità, come la scena in cui il padre si fa la barba. Non ci vedevano più come estranei, e loro si sentivano i biografi del quartiere. Abbiamo fatto riprese per circa tre anni, anche se c'è stata un'interruzione di sei mesi perché la tivù non lo considerava materiale interessante."

Infine è stato presentato il libro di Alessandro Amaducci "Anno Zero – Il cinema nell'era digitale". Le nuove tecnologie, l'elettronica ieri e il digitale oggi, hanno attraversato la storia del cinema sotto varie forme, soprattutto nel settore degli effetti speciali. Ma per molti registi, l'utilizzo di nuovi mezzi e formati alternativi alla pellicola rappresenta il tentativo di riconquistare un'autonomia produttiva e creativa, nonché l'occasione per ritornare a sperimentare il linguaggio delle immagini in movimento. Su questi temi ma anche sull'opera di autori noti e meno noti, e sull'alta definizione (HD) parla e riflette l'autore del libro.

José de Arcangelo