PESARO, 30 – Apertura della giornata (di ieri) con un omaggio a Gianni Toti, singolare intellettuale tra coerente impegno politico e creatività inesauribile, e protagonista della Mostra del Nuovo Cinema. Giornalista, scrittore, saggista, traduttore, studioso e critico cinematografico, regista e infine videoartista, o poeta poetronico come amava definirsi, lui che poeta lo era ma si era avvicinato alle nuove tecnologie elettroniche, in contrasto con i cosiddetti "puristi" che rifiutavano tutto quello che non era fatto su pellicola.
In due programmi, sono stati presentati alcuni dei suoi lavori: "La morte del trionfo della fine" (2002), "Tupac Amauta – Premier Chant (1997), "Gramsciateguì" (1999), "Tupac Amaru – La deconquista, il Pachacuti" di Giulio Latini, originato da un testo dello stesso Toti. Ma i suoi video, anche se lui non amava nemmeno l'etichette, sarebbero stati definiti una volta (trent'anni fa) alternativi o underground perché volutamente sperimentali, di ricerca artistica e non solo stilistica, ma sempre dal chiaro e forte contenuto politico. Sì, Toti era un comunista ma di quelli veri, indipendente anche quando militava nel Pc. Militante per vocazione e per formazione, infatti aveva già partecipato, sedicenne, nei gruppi d'Azione Patriottica alla Resistenza contro i nazisti.
I suoi cortometraggi, visionari o iperrealisti, a uno spettatore meno attento e assuefatto dalla televisione possono sembrare fine a se stessi, ma se vi lasciate trasportare diventano un viaggio ultrasensoriale, se volete un momento da dedicare alla meditazione, anche perché l'artista vi dà lo spunto. Perché Toti, come il suo amico Alberto Grifi (anche lui scomparso qualche mese fa), aveva trovato nell'elettronica la strada per catturare la vita e contraddire il reale.
A completare l'omaggio a questo eclettico intellettuale, una breve e accorata tavola rotonda, dove lo studioso Marco Gazzano ha parlato del suo rapporto col tempo e l'impossibilità di afferrarlo, della nozione di tempo confederato e del rapporto con la parola, che in Toti diventa atto poetico in senso politico d'impegno e forma etica. E per lui a un certo punto, "le parole non bastano – dice la sua collaboratrice Sandra Lischi –, tanto da affermare che 'non c'è rivoluzione possibile senza una rivoluzione del linguaggio', una rivoluzione artistica e politica fatta in modo non didascalico né retorico né propagandistico e nemmeno divulgativo." A questo proposito inventò un altro dei suoi numerosi neologismi: "parolariato" anziché proletariato.
Un altro omaggio, stavolta a un giovane, e già apprezzato, regista francese che lavora in videodigitale, Jean-Gabriel Périot. Piccole grandi e sconvolgenti opere, o corti, che sparano immagini e/o foto(grammi) che rimuovono i ricordi della Storia, spesso dimenticati e perciò sconosciuti soprattutto ai giovani, episodi di un passato che possiedono in sé la chiave di una lettura universale. Un metodo non nuovo che è nato addirittura col cinema muto e per cui il regista dice che il suo riferimento è il maestro (sovietico) Dziga Vertov, autore di "L'uomo con la macchina da presa" ma soprattutto del "Cineocchio" che "riciclava" e rimontava filmati, non solo suoi, per costruirne altri. Ma anche negli anni Sessanta-Settanta Jean-Luc Godard usava nei suoi lungometraggi questo susseguirsi di immagini frenetiche, e soprattutto foto come fa Périot nel sorprendente "200.000 Phantoms" che per ricordare il lancio della bomba atomica su Hiroshima, attraverso fotografie sovrapposte velocemente una sull'altra, ci fa vedere la costruzione, la distruzione e le rovine di un palazzo, e la zona che lo circonda(va). In "Eut-elle eté criminelle…" (2006) ci riporta all'estate 1944 in Francia, quando – mentre si celebra la Liberazione – un gruppo di donne accusate di aver avuto relazioni con i nazisti vengono punite pubblicamente. Infine, in "We Are Winning Don't Forget" che inizia con una serie di foto di persone che sorridono ma pian piano, avviandosi, alla conclusione mostra immagini di manifestazioni per finire con quelle cruente, di assurda violenza, svoltesi durante il G8. Il regista, che per il titolo ha preso a prestito una frase scritta sui muri di Genova, dice "Siamo tanti, siamo uniformi, sorridiamo nelle foto, ma NON siamo felici."
Per il concorso è stato presentato l'opera prima "Familia Tortuga" del giovane messicano Rubén Imaz Castro (il suo è il film saggio della scuola di cinema, solo che lui ha adattato il budget destinato a un corto per farne un lungo). Attraverso la disgregazione di una famiglia, una riflessione sulla crisi economica che colpisce il paese e che sta provocando la lenta ma inesorabile scomparsa della classe media. Un fenomeno non solo messicano, ma che sta colpendo tutta l'America Latina, e in un certo senso il mondo intero, dove crescono di giorno in giorno le famiglie povere. La madre è da poco scomparsa, il padre José è più assente che presente perché ha problemi col lavoro, i due figli Ana e Angel sono alle prese con la crisi esistenziale tipica dell'adolescenza e lo zio, un po' toccato, Manuel che li accudisce, pulisce casa e parla con le amate tartarughe, sembra l'unico a legarli ancora.
"Mostra una famiglia – dice il regista – circondata da una società individualista che costringe le persone a sognare in uno stato di isolamento. Una famiglia ormai disincantata perché sta perdendo i suoi sogni più semplici, quelli che normalmente ci permettono di trovare l'amore e una mèta."
Chi interpreta il ruolo di Manuel è il vero zio del regista (Manuel Plata Lopez), che ha una sorta di paralisi cerebrale, mentre i figli sono José Angel Bichir (ha una vaga somiglianza con Eduardo Noriega), figlio d'arte, recita da quando era bambino, e Luisa Pardo, anche lei attrice professionista ma conosciuta da Imaz Castro attraverso un amico, che è il suo ragazzo nel film ma il suo ex nella realtà. Il padre invece è Dagoberto Gama, popolare attore in patria che lavora con i giovani nella Scuola di Cinema e che ha accettato di recitare con entusiasmo.
Due mediometraggi presentati nella sezione "Sos – Europa.Doc". Il primo è "Love and Broken Glass – Amore e vetri rotti" della danese Suvi Andrea Helminen. Un documentario al femminile, non solo per l'autrice, ma soprattutto perché mostra la vita delle adolescenti del Kyrgyzstan, in attesa dei primi amori ma in realtà destinate a sposare "lo sconosciuto che la rapirà".
La vivace Guljamal è una tredicenne che vive a Bishkek, capitale dell'ex repubblica sovietica. Lei ama saltare e ballare sulle bottiglie per poi spaccarle con un colpo di karatè, in compagnia delle sue due amiche, ma è costretta a fare la babysitter al fratellino. Sogna di stare con Marat e iniziare una storia d'amore, però vive in una società che per tradizione prevede per molte ragazze il rapimento e il matrimonio con stranieri.
L'altro documentario è "Yaptik-Hasse" del russo Edgar Bartenev, senza dialoghi ma con delle ironiche didascalie che sottolineano personaggi e momenti del viaggio, e una bella fotografia di Alexander Filippov. Una famiglia nomade nella tundra della penisola di Yamal. Alla fine d'agosto questo gruppo familiare si sposta verso il centro della penisola (a sud) e nel viaggio vengono coinvolti tutti. Dal piccolo Yarkalyn, che ha appena un anno, ad Hada che ha più di cent'anni e va sempre a piedi per risparmiare le renne, dal nonno che ne ha 90 ma dice di averne 35. Ma nella slitta sacra viene portato lo Spirito Buono, il giovane Yaptik Hasse, che nessuno straniero può osservare, ma che la cinepresa, alla fine, svelerà.
Infatti, allora, il film fu rifiutato sia da Cannes che da Berlino, ma due anni dopo è stato riscoperto dalla critica e col passare degli anni è diventato un cult movie. Girato nei primi anni del dopo Franco, quando non c'erano limiti né censura, "Arrebato" (t.l. Estasi improvvisa) è un'opera visionaria e cinefila, inquietante e ossessiva ma che – come i suoi personaggi e soprattutto come il cinema tout court – seduce e conquista, travolge e sorprende con la sua carica di sensazioni, sensualità e passione, meraviglia e incubo. E il protagonista, vampiro che succhia la linfa vitale del cinema – come gli spettatori – finirà risucchiato dal cinema stesso (la cinepresa).