sabato 30 giugno 2012

Nanni Moretti incontra il pubblico di Pesaro 48 e parla del suo cinema e delle sue storie da spettatore

Nanni Moretti Day alla 48a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema perché l’attore e regista, al centro del 26° evento speciale, a cura di Vito Zagarrio, ha incontrato il pubblico (e la stampa) al Teatro Sperimentale per una chiacchierata informale e ricca di ricordi e aneddoti sulla vita e la carriera, sul pubblico e sul privato, sulla politica e sul mestiere. "Le mie esperienze da spettatore sono state importanti per il mio lavoro di regista – esordisce Nanni, ex Michele Apicella -, tanti anni fa come oggi. Sono molto legato al cinema degli autori anni Sessanta, era un cinema contemporaneamente attento alla realtà e alla sperimentazione, i loro film riflettevano sul cinema e sulla realtà. Ognuno con il proprio stile prefigurava un nuovo cinema e una nuova realtà, una nuova società. Una riflessione non arida - anche se c'erano film politici un po' rozzi che si disinteressavano della forma e del linguaggio. Era una generazione che aveva avuto in eredità la società dai loro padri, che rifiutava il cinema avuto da loro e pensava ad una nuova società".

"Ci sono registi molto più colti di me – afferma -, come Gianni Amelio. Sono diventato uno spettatore costante abbastanza tardi, la mia infanzia non è stata come quella che François Truffaut raccontava nel suo film (“Effetto notte” ndr.). Io verso i 25 anni frequentavo con una certa assiduità i cinema Nuovo Olimpia e Farnese e la sera andavo a giocare a pallanuoto. Come spettatore è difficile parlare di se stessi, io sono cambiato in meglio, ma sono rimasto lo stesso come spettatore. Rispetto a 40anni fa, mi sembra di avere la stessa curiosità di vedere i film degli altri. Un regista ha la voglia di raccontare storie attraverso il cinema, e mi sembra che il mio rapporto col cinema sia integro, sono sempre curioso di vedere le opere degli altri, le programmo nel mio cinema, ogni tanto le distribuisco anche. Faccio altri lavori oltre il regista, però non lo faccio per dovere ma per piacere; non mi sento portatore di una missione, è una mia scelta". "Fare l'attore e regista dei miei film, forse, è stato un po' più difficile all'inizio – dice -, ma da 'Palombella rossa' in poi ho avuto la possibilità di vedere subito i ciak, perché prima non c'era il controllo video. Chiedevi all'operatore o all'assistente come era andata, se qualche comparsa era entrata in campo, se c'erano stati movimenti sbagliati. E' più semplice controllare al monitor la scena appena fatta. Certo si è concentrati su più fronti, regista, attore e magari anche a dirigere gli altri attori al tempo stesso. E' più difficile ma non mi lamento, è stato naturale fin dall'inizio: tre cose, non solo dietro ma anche davanti alla macchina da presa, come persona, come critico e come corpo. Un'altra cosa che mi sono portato dietro sempre è il raccontare del mio ambiente, politico sociale generazionale, non è d'obbligo ma è quello che si conosce meglio, e finora è stato così. Fin dai film girati in super8 ho raccontato il mio ambiente con ironia, prendendolo e prendendomi in giro, ma non faceva parte di un programma pensato a tavolino, tutte cose venute naturalmente, raccontare di me e del mio mondo. Nel mio penultimo film ("Il caimano"
ripresentato in Piazza in serata ndr.) c'è Silvio Orlando, nell'ultimo ("Habemus Papam" proiettato subito dopo l'incontro ndr.) Michel Piccoli". "Giocavo a pallanuoto – conferma -, ero specializzato nella palombella dalla parte sbagliata, c'è una parte giusta, da sinistra verso destra (non da mancino), e ho fatto di necessità virtù, anche il regista della squadra diceva che non ero molto forte fisicamente. Ho costruito il mio stile di gioco, di astuzia, di precisione. Quando giravo in super 8, anche 'io sono un autarchico' non volevo attori professionisti, ho cominciato una sfida. Ho voluto utilizzare spesso attori non professionisti, per capire cosa può interpretare un amico, un parente, un conoscente. Sapevo di non contare su grandi mezzi, mi piacevano anche certi film con la mdp fissa, senza muoverla a casaccio o inutilmente. Forse in 'Sogni d'oro', c'è molto uso della mdp fissa. Non andava appresso agli attori ma gli attori si muovevano dentro il campo. Non era la realtà, ma era un mio punto vista, perché passo dalla regia all'interpretazione come spettatore. Preferisco attori e attrici che non si annullano integralmente nel personaggio che interpretano. Interpreta e capisce quel personaggio, ma accanto io riesco a vedere la persona, l'attore. Non in trance. E piace allo spettatore perché recita senza tanti ammiccamenti. Regista e attori offrono il loro punto vista sulla realtà". "Ricorro spesso al paragone con me spettatore – prosegue -, all'inizio ero più freddo nel vedere i film, ero alla ricerca della perfezione formale. Quando nei primi film ero contemporaneamente regista e spettatore tendevo a non emozionarmi, a dare meno importanza all'intreccio, al plot. C'è stato però un momento preciso, nel dicembre '81, in cui cercavo di leggere meno per andare al cinema in maniera più tranquilla, e ho visto un film ("La Signora della porta accanto" di Truffaut) di cui per fortuna non avevo letto le recensioni, per paura che mi raccontassero il finale (che vi rovino io se non l'avete visto, omicidio/suicidio), mi emozionai molto e mi colpì finale, appunto. Ho cominciato, allora, a dare più importanza all'intreccio narrativo, alla storia, cominciavo ad emozionarmi come spettatore e anche come regista. Infatti, per 'Bianca' ho chiamato lo sceneggiatore Sandro Petraglia, con cui ho scritto anche 'La Messa è finita'. Successivamente ho scritto con altre due persone per dare maggior importanza alla sceneggiatura e alle emozioni".
"All'inizio leggevo tutto e conservavo tutto - dice riguardo critiche e articoli -, poi leggevo parecchio e conservavo tutto, ora leggo poco e conservo qualcosa, i miei film sono stati accolti benevolmente fin dall'inizio, da un certo momento in poi, non dico la Francia, ma una parte del pubblico e della critica francese hanno adottato i miei film da 'Bianca' e 'La Messa è finita' in poi. Mi viene in mente un frase di mio padre, quando l'ho costretto a fare una parte nel film, 'finché dura...', poi purtroppo è morto nel 91. Ho offerto piccole parti anche al vostro collega Gianni Buttafava - rivolgendosi alla stampa in sala - scomparso l'anno scorso, un uomo molto colto. Poi mi hanno bocciato, questo mi è venuto in mente a proposito della Francia, credo siano arrabbiati perché non abbiamo premiato nessun film francese, ma nemmeno americano. Ma io non mi arrabbiavo nemmeno quando venivo accomunato ai 'nuovi comici', e a Cannes (dove è stato presidente della giuria ndr.) è stata un'esperienza bellissima, anchese già ero stato in giuria in passato". "A proposito di ideologia – continua - mi viene in mente una scena dell'autobiografia di Marx (in 'Sogni d'oro' ndr.) in cui dice 'qui non sto capendo niente, forse ho sbagliato ideologia'. Insomma, negli ultimi anni moltihanno dimenticato che non ho fatto altro che prendere in giro la sinistra anche nella realtà, ma con ironia. Alcune persone qui oggi, hanno visto in questi giorni o in altre occasioni i miei primi due film. Il primo in super8, è uscito nel circuito di cineclub che oggi non c'è più; un pubblico di élite, piccolo, circoscritto al successo nel circuito, il secondo anche più professionale, prodotto a livello industriale. In questo passaggio non è che ho preteso di conoscere i gusti del pubblico. Sono andati a vedere il film forse perché gli piace, vuole questo. Era il mio stile, la mia ironia. Un film molto simile nei personaggi e nell'ambientazione a 'Io sono un autarchico' che speravo restasse per due giorni al Filmstudio, tanto che loro mi dicevano ‘l'hai parenti, amici da portare?’. Invece c'è stato tanti mesi ed è passato in altri cineclub di tutta Italia. Avevo una personalità, uno stile e un tono che mi sono portato dietro e che non pensavo avrebbero avuto successo. Ero un po' spaventato dalla nuova possibilità, e portandomelo dietro sono stato altrettanto fortunato, rivolgendomi ad un pubblico ‘normale e vero’, ed è stato visto di più". "Ho cercato di tenere distinte le due sfere - privata e politica -, faccio parte da oltre dieci anni del movimento dei 'girotondi' ma non vi ho girato nulla, e soprattutto le rare volte che ho affrontato direttamente la politica è stato un po' in 'Aprile' - un avvenimento privato e uno pubblico, la nascita di mio figlio e la prima vincita della sinistra - un po' nel 'Caimano'; perché in 'Palombella rossa' era in maniera non realistica, non per cambiare la testa dello spettatore, ma perché volevo raccontare questa storia. Un mio film si forma da un sentimento, quasi sempre negativo, nei confronti della società che ci circonda; si addensa in qualche personaggio, diventa un soggetto e poi sceneggiatura, che magari esige uno stile diverso, anche produttivamente. Ho bisogno di cominciare da una sceneggiatura solida ('La Messa', 'La stanza del figlio', 'Habemus'), in altri film cominciavo con un po' meno di sceneggiatura, c'erano dei buchi narrativi che speravo poi di riempire in fase di riprese o di montaggio. La politica è ‘direttissimamente’ entrata meno di quanto si pensi. Prima l'ho considerato un fatto personale, quasi privato, dopo i 'girotondi' sono diventato molto politico, non come regista ma come cittadino". "Volevo usare me stesso come forma di pubblicità inefficiente – confessa -, inadeguata, della sinistra su giustizia, scuola pubblica, indipendenza dell'informazione televisiva, non una manifestazione di una
parte, ma rivolta a tutto l'elettorato; mi sono interessato a temi che interessassero tutti. Mi sono riposato come regista, per occuparmi in maniera disinteressata ad un movimento autonomo rispetto ad altri partiti. Nei miei film è entrata poco la lettura della società italiana. Quasi tutte le interpretazioni (dei suoi film ndr.) sono lecite, ma non sempre. Mi è stato chiesto se, mentre viene chiusa la bara legno (ne 'La stanza del figlio'), è possibile leggere, dietro la morte del ragazzo, la morte del '68?' Ho risposto: No! Molte interpretazioni però sono lecite". "Ci sono film che nascono attorno a una cosa, una famiglia spezzata dalla morte del figlio; altri, come 'Sogni d'oro' sono la storia di un regista, dei suoi sogni in cui s'innamora di una sua studentessa, che prepara un film sulla mamma di Freud; 'Bianca' è una storia d'amore, e faccio di nuovo professore nel liceo 'Marilyn Monroe' (anche se è il Giacomo Leopardi, da me frequentato), dove sopra la cattedra non c'era Pertini ma Dino Zoff. Una commedia sulla scuola, ma anche un giallo perché c'erano degli omicidi e, alla fine, si scopriva che ero stato io. E parte del pubblico non ci voleva credere, e andavano via dopo aver visto una confessione lunga dieci minuti, col primo piano mio e del commissario. E gli spettatori mi dicevano 'non sei stato tu, l'hai fatto per scagionare il tuo amico', l'altro sospettato interpretato da Remo Remotti (Siro Siri). Può avere controindicazioni il rapporto tra il pubblico e un personaggio che avevo fatto prendendo larga autonomia da me. A volte ci sono più ingredienti, più strati narrativi che si intrecciano; e dei film o soprattutto di 'quella cosa li', più passa il tempo, più mi piace lavorare ma è sempre più difficile raccontarli, spiegare il perché di questa o quella scelta". "Come ho già detto negli ultimi tempi ho lavorato anche con delle sceneggiatrici. Non lo so perché le donne non sono così presenti nei miei film, ma comunque ci lavorano. La scenografa Paola Bizzarri che ha fatto un lavoro enorme in 'Habemus Papam' è stata premiata; spesso Esmeralda Calabria ha montato i miei film; ci lavoro bene, anche se nei miei film ci sono più personaggi maschili che femminili. Pero vi anticipo che nel prossimo film la protagonista è una donna, cosa nuova, poi non so se è nuova... però è vera, il personaggio femminile sarà al centro della storia che girerò il prossimo anno. Ma sto ancora scrivendo, e se ne parlo troppo mi sembra mi si consumi". "Negli stessi anni (oltre 35 ndr.) Clint Eastwood ne avrebbe fatto 110 film – scherza -, Woody Allen 135. Però sono nate altre iniziative condivise con Angelo Barbagallo, abbiamo prodotto tra 28 e 33 film. Nell'86, appunto, conoscevo Angelo (il produttore ndr.) e mi ritenevo un regista fortunato, volevo restituire un po' di fortuna facendo esordire nuovi registi. Oggi hanno più mezzi, ma esordiscono sempre con tantissime difficoltà; allora si facevano i film con pochi mezzi e pochi attori. Tra gli esordienti che abbiamo scoperto Mazzacurati, Calopresti, Luchetti, Garrone, Santella, tra gli altri. Come lingua l'italiano ha solo 60milioni di spettatori e i nostri film - si diceva - non vanno oltre Chiasso. Allora bisognava produrre film parlati in inglese per attirare capitali stranieri. Ogni tanto i produttori facevano finti film internazionali, che non erano più italiani ma non ancora internazionali. Ibridi con ambientazione i vari paesi, sceneggiati in giro per il mondo, con attori stranieri stradoppiati. Noi a differenza di questa retorica perdente, abbiamo prodotto opere con delle radici, con storie e paesaggi italiani che se fossero stati fortunati potevano diventare anche internazionali. E' stato fondamentale l’apporto di Barbagallo anche per l'apertura del cinema (Nuovo Sacher) e altre novità. Produrre i film di registi esordienti (quasi sempre) che volevo io per primo vedere al cinema, però non mi sono mai messo dal punto di vista del regista e nemmeno del produttore, ancora una volta da spettatore, non nascondendomi dietro altri. Bisogna prendersi le proprie responsabilità perché mi dicevano 'ma il pubblico non lo capirebbe', mi ponevo come spettatore di fronte alla sceneggiatura, al montaggio e al mixaggio. Ero presente come spettatore, ma con un po' più di distacco. Non imponendo loro il mio stile, mi interessava capire
la loro strada e aiutarli il più possibile a trovare uno stile, una propria personalità, e controllare la situazione com'era vent’anni fa. Evitare i luoghi comuni contro il pubblico, anziché fare film attraenti/respingenti trovare un affiatamento con quel pezzo di pubblico interessato a questo tipo di film". "Il film dei Taviani ('Cesare deve morire’) pensavo di vederlo per primo, invece, alla fine sono riuscito a vederlo per ultimo, perché gli altri distributori avevano detto ‘bello ma difficile, non commerciale, non attraente’. Se è bello lo si deve distribuire, il pubblico non è sempre innocente, casomai è pigro. E' stata una sorpresa il premio al festival di Berlino e poi quelli avuti in Italia". "Come esercente ho programmato film iraniani, dedicato un corto a 'Close Up', li ho anche premiati a al Festival di Venezia e a Cannes 2007, sono tutte attività un po' collegate, ma mi piace ancora farle. Infatti martedì a Roma riparte la rassegna 'Bimbi Belli' dedicata agli esordi italiani della stagione, sono tanti: da Laura Morante ('Ciliegine') ai fratelli Di Serio (‘Sette opere di misericordia’), e alla fine c'è sempre un dibattito condotto da me". "Non so nemmeno perché ho interpretato due volte un analista, o fatto film d'ambiente religioso, riesco con difficoltà a fare l'interprete iguriamoci 'l'interpretatore' di me stesso, non so. Ho fatto un film ('La cosa') sul partito che stava finendo, non ho capito domanda (ancora su politica e film ndr.) ma la risposta è no". "A Cannes i film in concorso erano 22, e potevano essere meno, nessuno è stato premiato all'unanimità, tutti pensano alla giuria come a un corpo monolitico, possono essere 3 persone come qui, o 9 come a Cannes. Ma non è che si spezzano in due, il premio per l'attore protagonista magari si è d'accordo con uno, mentre per la sceneggiatura con un altro. A me piaceva il portoghese, ad altri tre giurati un altro che non è piaciuto a nessuno, e ci siamo detti prendiamo un terzo che sia piaciuto di più. Spero di avere il record delle riunioni, ne ho convocate 8 in 10 giorni, ogni tre film visti ci vedevamo. La strada è discutere molto di tutti i film e poi votare, e si parte dal più grande. Ricordo in questi anni che i primi 3 premi sono incompatibili con altri, se vengono assegnati non si può dare un secondo premio allo stesso film. Molti erano stati colpiti da Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant (protagonisti di "Amour" di Michael Haneke ndr.) e dal contenuto fondamentale, ma il film aveva già vinto (la Palma d'oro) e non potevano essere premiati. Abbiamo discusso fino all'ultimo. Ho trovato deludente la selezione americana, 6/7 film diretti e prodotti
da attori, non so se è rappresentativa dello stato attuale". "Il soggetto de 'La stanza del figlio' l'avevo scritto anni prima, ma poi è nato mio figlio, e ho deciso di fare prima 'Aprile'. Giravo intorno al ruolo dello psicanalista - che per mestiere cerca di alleviare la sofferenza degli altri - che si trovasse davanti al dolore più grande e vedere cosa sarebbe successo". "L'autostima degli anconetani era bassissima - aggiunge sul 'trasferimento' fuori sede -, mi dicevano 'perché sei venuto a girare qui?', ma Roma l'avevo inquadrata e raccontata in tanti modi, poi essendo un film sul lutto, avevo l'impressione che in una piccola città ci fosse ancora una comunità intorno alla famiglia, e come i tre protagonisti andando in città avvertivano un senso di solidarietà, da persone che sanno quello che è successo loro. Dopo una serie di sopralluoghi, ho deciso per Ancona". "Oggi col digitale è più facile fare film – conferma -, ma senza riflettere sul mezzo espressivo che si sta usando, quindi, ci saranno tanti film brutti. Ma per chi esordisce è importante l'uso, però se è casuale non fa che riprodurre il linguaggio televisivo dilagante, il quale senza rendersi conto è entrato dentro di lui. Ben venga il digitale se accompagnato dalla riflessione sul mezzo, altrimenti riprodurrà i modi di fare cinema più banali". "Penso sia evitabile un linguaggio che è l'espressione di un gergo che si usa e riusa di continuo. La nostra è una bella lingua, molti parlano in maniera molto semplice, altri in modo ricercato. Non sono per il parlare difficile, tranne quando è motivato". José de Arcangelo