mercoledì 22 giugno 2011

Immigrazione e disagio nella società contemporanea nei film in concorso alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro

PESARO, 22 - Seconda giornata di appuntamenti ieri alla Mostra del Nuovo Cinena di Pesaro con proiezioni, incontri e nuove proposte. Incontro ravvicinato con la regista brasiliana Juliana Rojas, coautrice con Marco Dutra del primo film presentato in concorso il giorno dell'apertura ufficiale, "Lavorare stanca". La Rojas, oltre a ribadire quello che aveva già anticipato durante la presentazione su riferimenti e generi, ha parlato dei suoi studi all'Università di San Paolo, dell'incontro con Dutra, dei loro corti approdati e apprezzati a Cannes e del cinema brasiliano di oggi. Ha sottolineato che la scuola di cinema pubblica è ottima e con insegnanti di prim'ordine ma che non possiede i mezzi per la realizzazione dei film di tesi, quindi questi spesso sono autoprodotti; mentre le scuole private hanno mezzi e attrezzature ma lasciano a desiderare riguardo agli studi teorici, persino in quelli che riguardano la storia del cinema. Per la produzione dei film di giovani autori bisogna partecipare ad una sorta di concorso dove il sostegno delle istituzioni (federali, provinciali e municipali, nel caso specifico di San Paolo) è minimo ma consente la partecipazione di più sponsor, attrati dalle possibilità offerte da una specie di tax credit, per loro molto conveniente per scaricare le tasse. Del resto, come da noi, la televisione e i produttori del cinema cosiddetto commerciale non sono per niente interessati ad opere di giovani registi, tanto meno se si tratta di esordienti.
Riguardo al loro lungometraggio d'esordio ha confermato i riferimenti horror che però sono lasciati alla libera interpretazione dello spettatore, anche se sono stati inseriti come una sorta di metafora della violenza che, nonostante l'evoluzione della società, cova sempre e ovunque nell'uomo ed è pronta a esplodere in qualsiasi momento. Così come la schiavitù, abolita nella prima metà dell'Ottocento, nel mondo del lavoro è rimasta, magari in un altro modo e sotto un'altra sembianza, oppure soltanto per definire il netto contrasto tra povertà e ricchezza, rimasti invariati ancora oggi. Della ricchezza e lo sviluppo tanto decantato degli ultimi anni "non ha beneficiato la maggioranza della popolazione - ha ribadito -, e nemmeno la classe media alta, anzi".
Nella retrospettiva completa delle opere di Bertolucci abbiamo potuto vedere il documentario "La salute è malata" (1971) e rivedere "Partner" (1968), un'opera tipicamente d'autore del periodo della contestazione, tra riflessione esistenziale e filosofica, tra indagine socio-politica e denuncia della società contemporanea, attraverso il ritratto di un giovane e del suo doppio, sosia (il riferimento a Dostoevskij non è casuale) ed alter ego, con un non dimenticato Pierre Clementi, allora attore feticcio di maestri e giovani autori (da Bunuel a Pasolini). In serata è stato riproposto "La luna" (1979) con Jill Clayburg, primo 'contatto' con il cinema americano.
Nel pomeriggio l'evento speciale dedicato a Flatform, un collettivo che realizza video (e installazioni) nel segno della sperimentazione e della ricerca nel campo dell'immagine (da video digitale al grande schermo) usando 'effetti speciali' su immagini girate dal vero e poi 'modificate' in post produzione.
"In qualche modo operiamo un po' come l'antropologo - affermano i realizzatori - che filtra tutte le discipline con cui viene a contatto e le incanala verso un obiettivo di ricerca".
E, infatti, oltre le immagini sono il tempo e i luoghi a determinare, sconvolgere o ribaltare paesaggio e situazioni. E' stata presentata una serie di sei corti; "In natura non esistono effetti speciali, solo conseguenze" (2007), "nel fare territorio implichiamo una serie innumerevole di attività nelle quali sono presenti: agitare eventi e creare spazi, concetti e inerzie"; "Intorno allo zero" (2007), un piano sequenza su una serie di edifici urbani attraverso una lunga, unica, carrellata che, raddoppiata specularmente, modifica la morfologia dei luoghi e li delocalizza, tanto da farli sembrare sospesi nel cielo; "Domenica 6 aprile, ore 11:42" (2008) è un video sul paesaggio, inteso come sistema connettivo delle relazioni che regolano i rapporti tra le persone, tra azioni e luoghi, movimenti e habitat; "57.600 secondi di notte e luce invisibili" (2009), 12 persone percorrono 4 itinerari identici nel corso di un giorno e una notte, "questo lavoro mostra che attraverso la ripetizione si conquista qualcosa"; "Non si può nulla contro il vento" (2010), sequenze di paesaggi filmati in uno spazio di 60 km compongono (suggestivi) mosaici di luoghi e assi di riferimento in continua trasformazione e che in realtà non esistono; "Un luogo a venire" (2011) è un video sui reciproci rimandi che si instaurano tra la nuda descrizione di un luogo e la sua concreta manifestazione.
Tutti lavori che in un certo senso inoptizzano lo spettatore ora sorprendendolo ora deliziandolo tra fascino del paesaggio e potere della riflessione, tra arte e filosofia.
"Per me l'unico dato certo è che partiamo da uno stato di caos a cui i nostri progetti cercano vanamente di fare un ordine, scompaginando e riformulando. Quando siamo di fronte a un progetto è come avere un Cubo di Rubik che non permette una soluzione, bensì infinite, e quindi nessuna. Sei sempre in perdita, ma mai in senso conflittuale. E' una perdita consapevole, priva di sconfitta".
La sezione dedicata ai documentari russi ci ha offerto nel pomeriggio due lavori di Antoine Cattin e Pabel Kostomarov; il cortometraggio "Transformator" (2003), e il mediometraggio (45') "Life in Peace". Il primo narra di un convoglio che trasportava un trasformatore sulla strada tra Mosca e San Pietroburgo, ma durante un incidente questo si capovolge. I due autisti sono costretti a rimanere sul posto per tre lunghi mesi. "I nostri protagonisti - dice Kostomarov - vengono ripresi come se stessero in trincea e mostrano i pori della vita".
In "Vivere in pace", dopo la morte della moglie e la casa distrutta in un bombardamento, il ceceno Sultan e il figlio Apti partono per stabilirsi in un villaggio nel nord della Russia. Qui i due cercano di rifarsi una vita, in un mondo immerso nel silenzio e spesso coperto dalla neve, sperimentando lo spaesamento provato da ogni ceceno che vive nel paese nemico. "All'inizio avevamo uno scopo preciso - affermano i registi -, esprimere la nostra posizione nei confronti della Russia e della guerra in Cecenia". E infatti documentano la sofferenza per una lunga guerra che colpisce entrambe le popolazioni, forse con la stessa intensità.
Presentato anche l'unico documentario in gara, ovvero "Qu'ils reposent en revolte" (Quelli che riposano in rivolta) del francese Sylvain George sugli immigrati - soprattutto afgani - che a Calais attendono di poter raggiungere l'Inghilterra che, però, non li vuole. Però nonostante l'importanza e la forza dell'argomento, le oltre due ore e mezza di filmato sembrano eccessive, anche quando si tratta di "Un grido di rivolta necessario" che rischia però di diventare solo 'illustrativo' per il pubblico che lo dovrebbe vedere. Anché perche il pubblico, anche quello più impegnato, non sempre è disposto a superare le due ore di proiezione. Certo il documetario è originale e diverso di quello tradizionale, e conquista addetti ai lavori e cinefili perché non mancano né la poesia né l'arte dell'immagine, tutta giocata sul contrasto del bianco e nero, dei chiaro-oscuri.
In Piazza è stato presentato il primo cortometraggio realizzato dall'attore-regista messicano Gael Garcia Bernal con Marc Silver "Los invisibles" (Gli invisibili) commissionato da Amnesty International per il suo cinquantesimo anniversario dalla nascita e sugli immigrati centroamericani che sperano di raggiungere gli Stati Uniti per avere una vita migliore ma vengono spesso rapirti, torturati e uccisi da mercenari/terroristi messicani a cui nessuno dà la caccia. Subito dopo l'altro film in concorso "Headshots" (Ritratti) dell'americano Stanley Tooley (Germania/Austria). Girato interamente a Berlino (dove il regista texano risiede) racconta la storia di una fotografa trentenne, Marianne (Loretta Pflaum, anche produttrice col regista), che dopo la rivelazione della sua gravidanza, comincia a osservare la vita da un'altra prospettiva, scoprendo di abitare in un mondo oscuro in cui regnano tradimento e disordine. Il tutto raccontato andando ora avanti ora indietro nel tempo, tra sogno e realtà, immaginazione e ricordo. Un dramma esistenziale, tipicamente d'autore, non privo di un ambiguo fascino, già presentato al Festival di Rotterdam.
José de Arcangelo