sabato 25 giugno 2011

A Pesaro, Bernardo Bertolucci si racconta: dalla giovinezza nella provincia di Parma alla Cina dell'Ultimo imperatore

L'atteso incontro con Bernardo Bertolucci c'è stato. Il maestro si è concesso al pubblico che l'ha scoperto ora ma anche a chi l'ha riscoperto dope aver rivisto la sua intera filmografia, col senno di poi.
"Signori e signore, habemus Bernardo!", così l'ha ricevuto Bruno Torri che, con Adriano Aprà, ha condotto la lunga e piacevole conversazione col regista.
"Ricordo la seconda edizione del festival - esordisce Bertolucci -, il legame più forte è stato allora quello con Jack Nicholson (a Pesaro per presentare un film di Monte Hellman ndr.), c'eravamo sfiorati a Cannes ma non sapevo che l'avrei rivisto qui, e da allora siamo diventati amici, perché eravamo entrambi dietro una ragazza che non voleva né lui né me - scherza. Pesaro è sempre stato un punto di riferimento, ci sono stati poi tanti 'nuovi cinema' e mi chiedo 'che cosa è, chi è e chi sono' gli autori. Sono anche nati tanti altri festival su nuove cinematografie, sono spuntati come funghi. Ma Pesaro è iniziato negli anni in cui io nascevo come regista, tra il '63 e il '64, poi non ho trovato più finanziamenti per fare i 'miei' film. In un film di Godard del '67, Jean-Pierre Léaud dice 'vado a Roma perché qui bei film non ci sono, lì ci sono le bombe di Bertolucci.. A Cannes tutti i giornali italiani erano contro 'Prima della rivoluzione', tranne uno o due, tra questi 'Il Giornale' su cui scriveva Morando Morandini che però era coinvolto nel film. Io, finiti gli studi, ero andato a Parigi e vidi 'Fino all'ultimo respiro', allora pensai 'tutto è finito', il cinema era diventato un'altra cosa. E' vero il mio film è stato insultato dai critici italiani, così passeggiando per la Croisette, speravo di incontrarli perché volevo prenderli a pugni, difendermi da quelli attacchi. Ho vissuto e fatto i miei primi film nel momento in cui il neorealismo stava diventando qualcosa di obsoleto, si era trasformato nella commedia all'italiana, più che in film come i miei. Nella commedia c'era qualche molla sociale, politica; ma davanti a 'Germania anno 0', 'Roma città aperta' e 'Ladri di biciclette' nessuno rideva. Mi sentivo preso in una specie di tenaglia: da un lato la commedia all'italiana, dall'altro lo spaghetti western, dovevo accettare uno dei due generi. Non me la sentivo, perciò mi ritrovai in Iran o giù di lì per girare 'La via del petrolio'. Il western però mi attirava di più, tanto che andai al primo spettacolo a vedere 'Il buono il brutto e il cattivo'. Il giorno dopo mi chiamò Sergio Leone, 'Tu eri al primo spettacolo al Supercinema' disse, 'e come lo sai?', gli chiesi. 'Stavo in cabina di proiezione e controllavo tutto'. E poi a domanda rispondi: 'Mi piacciono i tuoi film'. 'Perché? 'Mi piace come filmi i culi dei cavalli. Di solito nei western si vedono di profilo sullo sfondo di un rosso tramonto; solo tu e Ford puntate l'obiettivo sulle forti chiappone dei cavalli'. 'Tu scriverai il mio film', affermò. E mi ritrovai a fare la sceneggiatura di 'C'era una volta il West' con Dario Argento. I nostri film, invece, come dicevamo con Glauber Rocha erano come 'i miura', i tori più difficili e spaventosi, il torero non ci arriva, ma nemmeno una zanzara nel suo sedere'.
'Sono grato ad Adriano (Aprà) - aggiunge -, al festival, a tutti e a Pesaro in particolare per questo momento, oggi ho addirittura mangiato col sindaco. Nel libro (per l'occasione la Mostra ha pubblicato con Marsilio una monografia a lui dedicata ndr.), accanto ai saggi di critici che conosco da tempo e tra cui alcuni miei amici, ho trovato 14 nomi misconosciuti per me. Adriano mi ha detto: 'Perché esistono anche i giovani'. Aprà l'ho conosciuto a casa di Cesare Zavattini quando avevo 15 anni - e lui 15 e mezzo scherza - per far vedere due corti. Zavattini non si esprimeva, Adriano invece ha detto che c'erano troppe inquadrature dal basso. Ho perdonato Adriano, forse, quel suo primo giudizio non era del tutto esatto".
"Erano due corti - ribatte Aprà -, l'altro mi era piacuto, 'La morte del maiale', ti sei ricordato solo di quello che non mi era piaciuto".
"Per troppo tempo negli anni '60 - racconta ancora Bertolucci - se un film aveva successo per noi c'era qualcosa di diabolico dietro, era inquinato da fattori tipo la prostituzione dell'anima. Nel '69 iniziai ad andare in analisi, avevo paura di incontrare il pubblico, forse era una paura comune a tanti altri autori della mia generazione. E lì mi si era liberato qualcosa, ho capito che potevo condividere il grande piacere di fare film, col grande piacere che prova il pubblico che guarda, senza che ci siano delle fasi di prostituzione ecc ecc. Ho cominciato a sentire che dalla sala decine migliaia milioni di identità interagiscono, non bisogna mai generalizzare. Veniva un segnale, delle ondate di piacere, il successo di pubblico cova piacere. Cominciai con 'Il conformista' (che sarà presentato stasera in piazza ndr.) e con il successivo 'Ultimo tango a Parigi', questo feedback col pubblico che è diventato poi un'ondata internazionale. 'Ultimo tsngo' è uscito in tutto il mondo, tranne che nella Spagna franchista tanto che da lì partiva un treno per andarlo a vedere a Perpignant, in Francia, appena varcata la frontiera. Quel tipo di successo è molto invasivo, può diventare una droga di cui è difficile fare a meno. Perciò dopo mi son detto cerchiamo qualcosa che contenga degli elementi codialettici col pubblico, che non abbia quel successo smagliante. Facciamo un film che faccia sì che la Paramount, l'United Artists o la 20th Century Fox pagheranno per la più grande bandiera rossa della storia del cinema. Faccio 'Novecento', grande successo in Italia, soprattutto l'atto I, ma non esce negli Stati Uniti. Così la mia prima idea fallisce. Alfredo era interpretato da Robert De Niro e per Olmo (poi Gérard Depardieu ndr.) volevo un attore sovietico, stavo facendo un sorte di ponte fra Usa e Urss. Infatti, non si sa mai a cosa arriva il delirio in questi film - ironizza. Per anni non uscì in America per problemi di lunghezza - alludeva la Paramount che era quella più di destra - poi, alla fine, volevano una versione ridotta di 4 ore e mezza (il film ne dura 5 e 10'), dovevo tagliare più di un'ora. Così è stato comunque un passaggio abbastanza drammatico".
"Nel '69, quando cominciavamo a scrivere la sceneggiatura de 'La strategia del ragno', iniziai questa mia analisi. Il racconto di Borges parla del protagonista, come di un irlandese che torna nei luoghi in cui ha vissuto un suo avo, eroe di quei posti, per indagare e scopre quella verità molto complessa che Borges chiama il 'tema del traditore e dell'eroe'. Dopo giorni di analisi sono felice come un bambino per la prima volta al luna park, un effetto immediato di gande entusiasmo, più terapeutico, proprio della visione. Tanto che in qualche intervista di quel periodo dicevo 'in realtà dovrei mettere il nome del mio analista nei titoli di testa'. Ci fu un momento tra un film e l'altro, in cui dovevo stare attento perché lavoravo ai miei film più nelle sedute psicanalitiche che in quelle di sceneggiatura. Credo comunque che siano state molto importanti nel mio lavoro, nell'approccio ai personaggi, tanto che ho pensato di poterla usare come un nuovo obiettivo nella macchina da presa. Ai vari obiettivi (Zeiss ecc.) aggiungere anche Sigmund Freud o Jung, perché sono junghiano. Che userò nel prossimo film? C'è qualcosa in più nel corredo, il 3D e Freud. Anche perché dicono che un quarto del pubblico guardando il tridimensionale si sente male".
"Si chiude il periodo in cui l'analisi è preponderante - conclude -, perché poi sono andato in Cina e non si può imporre Freud ai cinesi. L'avventura cinese, un'altra dopo 'Novecento'. 'L'ultimo imperatore' è quello che chiamano cinema spettacolare. Nell'84, avevo letto il romanzo di Moravia '1934', storia di due gemelle a Capri, durante il nazismo, mi metto in mente di farne una commedia e per la sceneggiatura chiamo uno scrittore inglese che allora nessuno conosceva, Ian McEwan. Un intero mese invernale in una casa di Sabaudia per capire che portarlo sul lato della commedia era impossibile. Sono i grandi errori che non si possono evitare. Dopo mi ritrovo la voglia di andare il più lontano possibile dall'Italia, perché c'è un cambiamento nazionale che mi fa sentire a disagio. Due progetti, uno la storia dell'ultimo imperatore cinese, l'altro 'La condizione umana' di Malraux, soprattutto questo. Ma i cinesei dicevano 'non sappiamo cos'è, chi è', anche se c'era stata una famosa internvista con Mao. A quel punto dicevano è 'tutta inventata da Malraux', ...allora lo conoscete?'. Mi decido per l'imperatore e resto tre anni (è stato girato nell'86). Però questi anni di disagio in Italia sono durati fino al '91, mi sembrava che stesse bollendo a fuoco lento, sentivo tutta la sensazione di corruzione che poi abbiamo visto con tangentopoli. Andare in Cina fu una gioia, in un mondo che assolutamento non conoscevo e di cui finì per innaorarmene completamente. Non sapevo niente dei cinesi, e in due anni trovo il coraggio di fare un film con dei giovani cinesi; uno era stato attore per Chen Kai-ghe, poi Zhang Yimou, allora direttore fotografia negli studi Xian, e sotto di lui i registi oggi famosi in tutto il mondo. Avevo buttato giù una barriera. 'L'ultimo imperatore' per i cinesi ha voluto dire un certo passaggio da una parte all'altra".
"Ad un certo punto ho avuto la sensazione che questo paese mi stava sempre più stretto e difficile - ritorna sull'Italia e la sua scelta di girare all'estero o su personaggi 'stranieri' - anche in teatro e nella letteratura, cose che mi piacevano. Cominciai a guardarmi intorno, ad aprire la testa per farci entrare emozioni di altri luoghi altri paesi: avevo avuto il mio tirocinio italiano, la giovinezza in una città di provincia come Parma. Non c'è stato nessun piano, se il film fosse più o meno cinese, perché abbia avuto tutti quei premi Oscar. Da una parte è stato un caso, dall'altra l'effetto della mia cinefilia. 'Hollywood ha dimenticato come si fanno i grandi epics', pensavo. E volevo ricordare che un tempo sapevano fare grandi film epici internazionali. conuna spinta verso l'italia da cui fuggivo, quella di Craxi, povero, perché ad un certo punto della lavorazione abbiamo scoperto che la CBS preparava una serie sull'ultimo imperatore. Però scopri che Xiao Xian - quello che tenne per mesi in assedio Tienanmen e poi era andato dai ragazzi a piangere: 'lasciate la piazza perché non riesco a trattenere l'esercito e sarà un massacro mai successo prima - sarebbe venuto in visita di Stato da Craxi e abbiamo chiesto di intercedere perché scegliesse noi anziché la CBS. Ecco svelati tutti i nostri segreti".
"Mi viene in mente 'Il conformista' - aggiunge su cinema e realtà, specchio o ricostruzione -, la scena in cui il professore antifascista parla della caverna di platone, che mi sembra il primo caso di cinematografia: la bocca di uscita entrata, tanti prigionieri seduti verso il fondo caverna (cinematografo), dietro l'ingresso c'è il fuoco, davanti passano delle persone portando delle sculture/idoli. Che cosa vedrà la gente incatenata nella grotta? Vedrà le ombre di questi personaggi che si muovono. Parlando con Marcello (Jean-Louis Trintignant ndr) del mito della caverna, il professore gli dice:'Ecco, voi in Italia siete accecati non vedete la realtà ma vedete le ombre della realtà'. E in cinese cinema si dice proprio 'ombre elettriche'".
"Sono sempre riuscito a trovare dei produttori dal volto umano - conclude il grande autore -, ho avuto sempre vicino qualcuno che aveva organizzato il film economicamente e sul piano della distribuzione, erano anche complici. Forse l'unico che non sono riuscito a portare sul set è stato Alberto Grimaldi. Dopo 'Ultimo tango a Parigi', produsse 'Novecento', ma durante 21 mesi di riprese nel triangolo Parma Mantova e Cremona sono riuscito solo una volta a farlo venire mentre giravamo sul fiume Ollio, e lo trovo nascosto dietro il camion degli attrezzisti. Era qualcuno di infinitamente timido, non osava venire sul set. Voleva restare misterioso, uno che produce dall'ufficio".
José de Arcangelo