giovedì 2 novembre 2017

5 documentari 5 alla Festa del Cinema: da Maria Callas a Vanessa Redgrave, da Bob Dylan a McKellen e i segreti (sessuali) dei divi di Hollywood anni '40-'60

Cinque documentari, tra ieri e oggi, presentati alla Festa del Cinema di Roma, e tutti dedicati e/o realizzati da personaggi del mondo dello spettacolo, fra musica, teatro e cinema. Ieri è stato presentato “Maria by Callas: in Her Own Words” dell’americano Tom Volf. Un ritratto della grande diva della lirica raccontato attraverso le sue parole (voce per le sue, poche, lettere di Fanny Ardant, che l’aveva interpretato nel film a lei dedicato da Franco Zeffirelli, “Callas Forever”). A quarant’anni dalla morte, in anteprima mondiale, un film coinvolgente e commovente che racconta la cantante d’opera lirica più famosa di tutti i tempi, attraverso filmati inediti, dal super8, 16 e 35 mm al video (un’intervista televisiva trovata perché registrata nel lontano ’73 da un suo fan, ma anche altri visti poco o niente) e quelli privati, dalle prove alle vacanze. Dagli incidenti di Roma (recita sospesa per afonia improvvisa) e Dallas (costretta a cantare senza voce) alle prove di una “Lucia di Lammermoor” a

colori, ruolo interpretato un’unica volta (2/3 repliche) a Chicago. E lasciando da parte tutto il gossip spietato, nato proprio in quelli anni, che riguardavano Maria, Onassis e Jackie. ”Attraverso quei filmati volevo dare al pubblico l’emozione – ha detto il regista -, perché allora la televisione e il modo di girare, avevano soprattutto limiti di tempo, e quei filmati riportano il modo di vivere d’allora. Dato che oggi noi possiamo filmare e vedere tutto senza limiti. Poi, dall’inizio alla fine, volevo offrire il suo punto di vista, perciò ho cercato di essere obiettivo e ho dovuto scegliere. Infatti, all’inizio la vediamo grossa e goffa; ma poi ho dovuto rinunciare a 25’ dedicati alla fase della perdita di peso, volevo raccontare Callas com’era, per questo forse il film sarà una delusione per chi ha di lei un’immagine falsa, quella costruita dai media”. Aristotele (Ari) Onassis? “Era veramente innamorato, è stato il più grande amore della sua vita”. Poi è stato proiettato anche, dopo l’incontro col pubblico, (Ian) “McKellen: Playing the Part” di Joe Stephenson, un documentario dedicato all’attore, gigante del teatro e del cinema inglese (non solo), osannato dai più giovani per i suoi ruoli nelle trilogie de “Il Signore degli Anelli” e “Lo Hobbit” (Gandalf) , ma anche nella serie “X-Man” (Magneto). Però l’attore ha interpretato oltre un centinaio di altri film, da “Plenty” a “Riccardo III” e tanta tivù di qualità. Due nomination all’Oscar, oltre 50 premi vinti e altre 57 candidature.
Un incontro stampa vivacissimo e godibilissimo come la performance di un re del palcoscenico. “Ci sono tante cose da ridere o da sorridere – esordisce McKellen -, oggi per esempio a Roma c’è il sole, quindi bisogna sorridere. Ho visto il suo primo film (di Stephenson ndr.) e mi ha chiesto di aiutarlo a fare un film su di me, è stato molto divertente, dato che non mi piace parlare di me stesso. Sono stato due giorni seduto a parlarne, ma credo di essere un’altra persona, in realtà non sono io, è un altro che fa la mia parte”. “Ho deciso di non fare la sua autobiografia – ribatte il regista –, ma mi sono tanto ispirato alla sua vita. E’ una sorta di album proprio giusto per ricostruire l’infanzia, riavvicinarsi al passato, a innamorarsene, pubblico incluso, come accade con Ian. E doveva essere cinema non documento”.
Sul suo outing, nell’ormai lontano ’88, McKellen confessa: “La decisione di dichiararsi è importante perché si smette di mentire, si è sinceri e si migliora. E poi il mio lavoro è dire la verità, però non è facile per nessuno, può essere un guaio per chi ha genitori anziani, un politico può perdere elettori, l’attore non avere più ruoli. Ma io l’ho fatto a 49 anni, e il mio lavoro ha avuto un’impennata. Vado spesso nelle scuole di recitazione e dico ai giovani di essere gentili, di dichiararsi, ‘non esitate fatelo’. Non mi pento di non aver fatto figli, anche perché per me fare sesso o adottare un bambino era illegale. Forse è anche un fatto di egoismo, pensavo che il bello di essere gay era non fare figli, appunto. Però ho dei buoni rapporti con i fan, con i giovani, per me va benissimo così”.
“Lavorare in teatro – conclude - vuol dire avere la capacità di comunicare col pubblico da vicino, al cinema invece si è sempre con l’obiettivo addosso. Essere famoso come star non c’entra niente col mestiere dell’attore. Un attore si rapporta al personaggio che deve interpretare. In teatro si prepara, ci sono le prove, si sbaglia. Si tratta di raccontare, mentre al cinema passa tutto attraverso la vista, il pubblico è muto nella sala buia”. Poi parla di Eduardo – “non è neanche italiano, è napoletano” – del suo incontro con la sua vedova, con Strehler per il quale ha recitato ne “La tempesta”; del suo lavoro: “il mio mestiere cambia di continuo, l’ho imparato facendo. Prima si pensava che bastasse mascherarsi, in realtà significa rivelare non
nascondere, altrimenti tutti sarebbero capaci di fare qualsiasi cosa”. Il terzo documentario presentato ieri è stato “Scotty and the Secret History of Hollywood” di Matt Tyrnauer, incentrato sull’ex marine Scotty Bowers. L’allora giovane, bello e simpatico Scotty approda a Hollywood nel 1946 e lavora in una stazione di servizio dove viene notato da molte star e inizia ad avere rapporti sessuali con molti personaggi influenti della mecca del cinema, tanto da creare una sorta di agenzia che procurava ragazzi per loro.
Ma solo nel 2012 ha deciso di raccontare, anzi svelare, la sua storia in un libro raccontando con lusso di particolari i segreti che nascondevano tra le lenzuola divi del calibro di Cary Grant e Katharine Hepburn, Spencer Tracy e il ‘regista delle donne’ George Cukor. Segreti mantenuti per cinquant’anni e rivelati solo dopo la morte di star, artisti e tecnici, tutti suoi ‘clienti’. Un documentario tradizionale nella forma in cui è lo stesso Scotty – che si dichiara bisessuale - a raccontare e raccontarsi, ormai novantenne, ma
ancora lucido e senza peli sulla lingua. Il tutto intervallato, da fotografie e filmati d’epoca, ovviamente non degli ‘incontri’, visto che allora non c’erano cellulari né digitale, e soprattutto dovevano essere top secret per la legge e, soprattutto, per il pubblico. Il quarto doc, visto oggi, “Trouble No More” di Jennifer Lebeau, ricostruisce un episodio della vita di Bob Dylan, quello definito della sua ‘rinascita’ cristiana iniziato nel 1979, presumibilmente, con la pubblicazione dell’album “Slow Train Coming”, per finire nel 1981 con “Shot of Love”. Il film è costruito
come un originale film concerto (filmati realizzati durante gli show della seconda parte del Tour ’79-’80), ovvero delle magnifiche canzoni intervallate da prediche – scritte da Luc Sante – recitate dal ‘pastore’ Michael Shannon. Infine, stasera, la grande e impegnata Vanessa Redgrave ha presentato il suo primo film da regista, “Sea Sorrow” (Il dolore del mare, da “La Tempesta” di Shakespeare), prodotto dal figlio Carlo Nero. Un film sui profughi che negli ultimi anni sono diventati per i governi europei un ‘caso senza soluzione’.
“Ho lavorato per i profughi come tutti noi – apre Redgrave all’incontro stampa -, tutti i colleghi e non, da Tom Stoppard a Benedict Cumberbacht, il quale mentre stava recitando a teatro in ‘Amleto’ ha chiesto, dopo ogni spettacolo soldi, per i profughi. E’ una situazione chiara come la notte e il giorno, ma per i nostri governanti sono senza speranza, peggio di niente. Stiamo vivendo tempi molto pericolosi per la democrazia, i nostri governi non vogliono dare aiuto, ma bisogna dare protezione ai profughi. L’idea del film nasce dalla fotografia del piccolo affogato al largo della Grecia, proprio su quella spiaggia dove i ricchi fermano i loro yacht, e meno male perché altrimenti non avremo mai visto quella foto. Il crimine che è stato commesso è quello di non aver offerto loro i biglietti per fare soltanto 15 km, e assicurare la loro vita. Questo è
l’esempio più orrendo della disumanità del nostro tempo”. “Per fortuna – prosegue - c’è qualche deputato o politico che si comporta in modo onesto. Un esempio, Angela Merkel che ha avuto la forza, dietro un accordo, di ricevere un milioni di profughi, ma, dopo le elezioni ha detto ‘ora non lo possiamo più fare, ma lo farei lo stesso se potessi’. Siamo tutti in grave pericolo perché così come vengono trattati loro saremmo trattati noi, senza sanità né un’educazione giusta, con gli anziani senza più il diritto di vivere, dopo aver lavorato e pagato le tasse per tutta una vita, nel nostro ma anche
nel vostro paese. E i bambini profughi muoiono muoiono muoiono…” “Sea Sorrow” – che uscirà nelle sale la prossima primavera distribuito da Officine Ubu – ha come riferimento Shakespeare (Ralph Fiennes intepreta Prospero), ma anche episodi personali dell’attrice ottantenne (durante la Seconda Guerra Mondiale è stata bambina profuga da Londra), ma cita anche profughi famosi come Mandela e Martin Luther King, e si concentra soprattutto sui bambini che hanno bisogno di protezione perché “sono il nostro futuro”. José de Arcangelo