sabato 6 settembre 2008

Festival di Venezia. Conto alla rovescia con Mimmo Calopresti e Mikhail Kalatozishvili

VENEZIA, 5 - Penultimo giorno per la 65a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, manca un solo film in concorso, “The Wrestler” di Darren Aronofsky con Mickey Rourke, anzi è stato presentato stamattina per la “daily press” ma noi lo vedremo dopo, quindi ne parleremo domani, giorno della premiazione. Intanto stanno chiudendo anche le altre sezioni ed è stata presentata la versione restaurata di “Yuppi Du” alla presenza del regista-protagonista Adriano Cementano, della moglie Claudia Mori e delle figlie Rosita e Rosalinda. Un film – girato in gran parte proprio a Venezia - che è stato anche rivalutato, perché trent’anni fa era stato visto con un po’ di diffidenza, anche perché ‘mescolava’ i generi cinematografici, quando ancora non si usava quasi.

Conclusa la retrospettiva completa dedicata al maestro Ermanno Olmi, Leone d’oro alla carriera, anche se l’autore è stato spesso protagonista del festival fin dai tempi del “Posto”, e quest’anno celebrato anche a Cannes per il trentennale di “L’albero degli zoccoli” e al nuovo FamilyFilmFest di Fiuggi. Invece si chiude domani “Questi fantasmi” dedicata a quel cinema italiano diventato “invisibile” anche in tivù.

Chiusa “Orizzonti” con l’evento “La fabbrica dei tedeschi” di Mimmo Calopresti, un documentario dedicato ai sette operai che persero la vita nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nellazienda torinese di acciaieria e siderurgia ThyssenKrupp. Nella prima parte gli attori (Silvio Orlando, Luca Lionello, Valeria Golino, Monica Guerritore e altri) interpretano i parenti delle vittime raccontando le ore precedenti la tragedia. Nella seconda parte vengono intervistati familiari e colleghe delle vittime, alcuni dei quali testimoniano la tragedia vista da vicino. A seguire un altro documentario “ThyssenKrupp Blues” di Pietro Balla e Monica Repetto che ricostruisce l’intera vicenda della “fabbrica” attraverso la storia del trentenne Carlo, che vive a Torino da sei anni e lavora proprio alla ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni. Nell’aprile 2007 la società decide di smantellare lo stabilimento torinese e a nulla servono le proteste degli operai. Il 4 luglio, mentre la città di Torino è in festa, Carlo annuncia alla sua amica Melita di dover tornare in Calabria per riuscire a sopravvivere perché è stato messo in cassa integrazione. Ma inaspettatamente, in autunno, l’azienda richiama i lavoratori in linea. Per non perdere il diritto alla liquidazione gli operai accettano di fare turni massacranti e in condizioni di sicurezza precarie. Ed ecco che la notte tra il 5 e il 6 dicembre esplode la tragedia: nella linea 5 un’ondata di olio e fuoco travolge i sette operai di turno bruciandoli vivi.

“Le riprese di questo film – affermano i registi – sono iniziate nel maggio 2007 durante il casting per un documentario sulla vita quotidiana di operai contemporanei. E’ in questo modo che abbiamo incontrato il protagonista, Carlo. Mai avremmo immaginato che la sua esistenza sarebbe stata violentata dalla morte. Stavamo raccontando la tragicità della vita quotidiana, quelle che affrontano giornalmente le persone comuni. Improvvisamente la quotidianità di Carlo è stata però travolta: nel dicembre 2007, sette suoi colleghi sono morti a causa di un rogo divampato sul posto di lavoro. Questo tragico avvenimento, cambiando la vita di Carlo per sempre, ha cambiato per sempre anche il nostro film. Un film così non vorremmo raccontarlo mai più”.

Tra questi due lungometraggi è stato presentato un corto, sullo stesso argomento – cioè le morti sul posto di lavoro – girato da Pasquale Squitieri due anni fa e che il regista stesso ha detto non è stato mai mandato in onda. In giornata ci sono state manifestazioni della Cgil, Cisl, Uil di Venezia e testimonianze degli stessi operai, anche con la lettura di un comunicato in sala, al PalaLido.

Comunque, la sezione ha chiuso il programma ufficiale con due film, il francese “Un lac – Un lago” di Philippe Grandrieux e il russo “Dikoe Pole – Wild Field” di Mikhail Kalatozishvili, figlio di Kalatozov. Un film autoriale, il primo, un dramma gelido e buio come l’inverno nordico e come la foresta innevata in cui è ambientato. Pochi dialoghi, tempi morti, primissimi piani, sospiri e sussurri. Tutto in un freddo bianco e nero. In una casa sperduta nella foresta, da qualche parte al Nord, nei pressi di un lago, abita una famiglia. Alexi, il fratello maggiore, è un giovane taglialegna dal cuore puro, vittima di crisi epilettiche di natura estatica che lo costringono a vivere in simbiosi con la natura, nutrendo una forte passione per la sorella Hege. La madre non vede questo amore incontrollabile, scrutato invece dal padre e dal fratellino. Ma un giorno arriva uno straniero, il taglialegna Jurgen, un giovane poco più grande di Alexi…

“Una mia cara amica – confessa il regista -, dopo aver visto il film, mi ha inviato una mail scrivendomi ‘Come in un antico racconto, il tuo film descrive allo spettatore da dove nasce il desiderio, il rinnovo della specie, e afferma che l’amore in tutta evidenza è sempre stato presente e lo rimarrà all’infinito, al di là delle eclissi, delle separazioni e delle scomparse’. La forza del cinema è di farci vivere un mondo, come il sognatore vive il suo sogno. Gli attori – russi, cechi, fiamminghi – hanno dato corpo a questo mondo. ‘Un lac’ è un canto, e sono loro che me lo hanno fatto sentire”.

D’autore anche “Steppa selvaggia”, un bellissimo dramma esistenziale incentrato su un giovane medico, Mitja, che decide di lavorare in un luogo sperduto per aiutare le persone dimenticate da Dio e, quindi, dal mondo. Comunque, ogni giorno, i pazienti si presentano in quell’avamposto di terra vuota e sperduta: il cuore di un uomo si ferma dopo una sbronza, un altro porta la sua mucca agonizzante, altri vengono soltanto a trovarlo come il poliziotto della regione. Ma la steppa è pericolosa, ci sono scontri tra diversi gruppi della popolazione, tra banditi e non, e Mitja è costretto a medicare i feriti. Un giorno arriva anche la sua compagna ma per dirgli che intende lasciarlo. Mitja è solo e la minaccia che prima era solo un’ombra di materializza..

Un dramma enigmatico e suggestivo, girato con gusto dell’inquadratura e delle immagini, che indaga nei misteri dell’esistenza, tra passione e fuga, tra ‘miracoli’ e sogni, tra ricerca di se stessi e di una ragione di vita. Peccato non fosse in concorso, ma speriamo che si guadagni almeno una giusta distribuzione.

Da non dimenticare il documentario "Verso Est" di Laura Angiulli, regista teatrale approdata al cinema per caso. Infatti, la regista dichiara: "E' la risultante di un lungo percorso. Al centro la Bosnia, col suo passato ingombrante, e un presente tanto incerto quanto controverso. Tre città di quel paese - Sarajevo, Mostar, Srebrenica - sollecitazioni diverse che si propongono nel contatto con la gente e la loro storia passata e presente."

Se le riprese documentarie possono sembrare convenzionali, l'approccio teatrale che introduce le vicende della guerra e le sue conseguenze, soprattutto sulle donne, dà al film un tono originale e rarefatto che però non tutto il pubblico accetta.

Intanto sono già assegnati/consegnati alcuni premi paralleli. Domenica 31, il Premio Kinéo Diamanti al Cinema Italiano, istituito sette anni fa per l’impegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il patrocinio di Anec – Agis e in collaborazione con la Biennale Cinema di Venezia e Rai Trade. La selezione include film usciti dal 31 marzo 2007 al 31 marzo 2008. I premiati: miglior regia a Roberto Faenza per “I viceré”; miglior attore protagonista a Elio Germano per “Mio fratello è figlio unico”; miglior attore non protagonista ad Alessandro Gassman per “Caos calmo”; miglior attrice protagonista ex aequo a Violante Placido per “Lezione di cioccolato” e a Vittoria Puccini per “Colpo d’occhio”; miglior attrice non protagonista ex aequo a Kasia Amutniak per “Caos calmo” e a Micaela Ramazzotti per “Tutta la vita davanti”; miglior artista esordiente Isabella Ragonese; Premio alla carriera internazionale Hall of Fame e Premio speciale San Pellegrino Star of the Year Award a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo; miglior film tv “Il commissario De Luca – L’estate torbida” (Rai); sceneggiatura a Sandro Petraglia per “La ragazza del lago”; scenografia a Francesco Frigeri per “I viceré”; costumi Milena Canonero “I viceré”; fotografia Arnaldo Catinari per “Parlami d’amore”; colonna sonora Franco Piersanti per “Mio fratello è figlio unico”; montaggio Claudio Di Mauro “Grande grosso e Verdone”; miglior film italiano nel mondo “Nuovomondo”. I premi personaggio dell’anno a Toni Servillo e per il miglior film a Paolo Virzì non sono stati consegnati perché entrambi assenti per impegni di lavoro.

Un premio alla carriera anche per la grande Agnés Varda. Confermata la XIV edizione della rassegna “Venezia a Roma” che sarà in programma nella capitale dall’8 al 16 settembre, con una selezione di titoli da tutte le sezioni (Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Settimana della Critica, Giornate degli Autori). Anche la Panoramica 2008, alla sua 29a. edizione, a Milano dall’8 al 14 settembre con i film della Mostra e i Pardi del Festival del Film di Locarno.

José de Arcangelo

venerdì 5 settembre 2008

Venezia 65. Kathryn Bigelow e Pappi Corsicato sempre coerenti col loro originale stile

VENEZIA, 4 - Dopo più di sei anni di assenza, due autori ritornano dietro la macchina da presa e alla Mostra d’Arte Cinematografica: l’americana Kathryn Bigelow e l’italiano Pappi Corsicato. Due stili diversi e personalissimi, ma entrambi visionari e ancora coerenti con loro stessi.

“The Hurt Locker” della Bigelow è basato su quanto ha visto in prima persona il giornalista e sceneggiatore Mark Boal – che già aveva firmato “Nella valle di Elah”, al Lido l’anno scorso – che per un periodo è stato inviato di guerra al seguito di un reparto speciale di artificieri. E prende spunto dall’affermazione “la guerra è una droga”, risposta alla domanda “Se la guerra è l’inferno, perché tanti uomini scelgono di combattere?”, anche ora che non sono più obbligati perché il servizio militare è volontario.

Un film sull’Iraq, non solo. E’ un’amara riflessione attraverso le vicende di una élite di soldati che svolgono uno dei mestiere più pericolosi al mondo: disinnescare le armi, cioè le bombe, nel mezzo del combattimento. Una storia che si ripete ad ogni guerra e continua nel dopoguerra, e a questo proposito ci ha riportato in mente il sorprendente film di Robert Aldrich “10 secondi con il diavolo” che narrava, appunto, di questi ex soldati che nel secondo dopoguerra continuavano a cercare e a disinnescare le bombe inesplose, sfidando la morte senza sosta. E, prima o poi, finivano vittime della loro stessa “droga”, perché per loro non esisteva niente di più importante nelle loro esistenze.

Anche il sergente James (bravissimo Jeremy Renner), protagonista del film della Bigelow, finita la missione, tornerà in Iraq per un altro anno, per sfidare ancora una volta la morte, ed avere la sua “dose” di adrenalina. Infatti, James si comporta come se la morte gli fosse indifferente. Mentre gli uomini della squadra lottano nel tentativo di domarlo, nella città esplode il caos e la vera personalità di James si rivelerà in un modo che trasformerà per sempre la vita dei suoi colleghi.

Ma se la Bigelow continua a sorprendere ancora qualcuno – definiscono i suoi “argomenti da macho” – con film d’azione duri e crudi, il suo sguardo ha sempre e comunque qualcosa in più, quella sensibilità femminile che osserva soprattutto la vita e la morte come sua (inevitabile) fine. Indaga sui volti delle vittime e dei carnefici di ogni schiera, fotografa persino la sofferenza e l’agonia provocata dal conflitto sugli animali (vedi il gatto zoppo che attraversa la strada, e l’altro, magrissimo, che avanza verso l’obiettivo miagolando affamato). Particolari che, forse, altri avrebbero tagliato. Anche i bambini hanno in questo caso un ruolo importante perché anche loro vengono usati (come carne da macello, persino come kamikaze) perché si guadagnino la fiducia dei soldati americani e così farli cadere in trappola. L’opera dell’autrice di “Strange Days” coinvolge il pubblico, con la giusta dose di suspense e tensione, commuove e ci tiene col fiato sospeso per due ore abbondanti. Quindi la regista non ha deluso le aspettative, anzi.

“La paura ha una cattiva reputazione – dice -, ma credo a torto. La paura aiuta a capire. Ti costringe a dare la precedenza alle cose importanti e a non tener conto di quelle insignificanti. Quando il giornalista Mark Boal ritornò da un reportage in Iraq, mi raccontò di soldati che disinnescano bombe nel fervore del combattimento, un lavoro chiaramente elitario, con un alto tasso di mortalità. Rimasi scioccata quando mi disse che questi uomini sono estremamente vulnerabili e hanno solo un paio di pinze per disinnescare una bomba che può uccidere fino a un raggio di 300 metri. Quando venni a sapere che questi uomini sono dei volontari e spesso sono così fieri del loro lavoro tanto da pensare di non poter fare altro, mi resi conto che avevo trovato il soggetto del mio film”.

Con Pappi Corsicato e il suo “Il seme della discordia” siamo, invece, dalla parte della commedia all’italiana, tra surrealismo napoletano e pop art, tra musica e colori vivacissimi, tra graffiante ironia e satira spietata. Tutto fa parte del suo inconfondibile e fantasioso stile. La trama (pretesto?) è presto detta: la bellissima Veronica è una giovane donna, proprietaria di un negozio e sposata con un rappresentante di fertilizzanti. La madre la tormenta perché sposata da cinque anni non ha avuto ancora un figlio. Ma un giorno, Veronica scopre di essere incinta, peccato che il marito – a cui è stata sempre fedele – scopra di essere sterile… Una gustosa commedia degli equivoci che – come di consueto – conquista con un’accurata ricerca delle immagini e delle inquadrature, sempre originali e suggestive, dove si intravede l’interesse/passione del regista per l’arte e in particolare per la pittura, di ieri e di oggi. Non mancano le citazioni, da se stesso (“Libera”) a Truffaut (le gambe femminili nei titoli di testa, come in “L’uomo che amava le donne”). Protagonista è la star in ascesa Caterina Murino, già Bond Girl, assecondata da Alessandro Gassman, Martina Stella, Isabella Ferrari, Valeria Fabrizi, Michele Venitucci e la partecipazione di Monica Guerritore (vista anche nel film di Ozpetek) e della sua attrice feticcio Iaia Forte.

Però ieri erano stati presentati altri due film in concorso che noi abbiamo visto il giorno dopo (cioè anch’essi oggi). “Rachel Getting Married” di Jonathan Demme e “Gabbla – Entroterra” di Tariq Teglia. Il primo è un melodramma familiare classico, anche se aggiornato alla realtà contemporanea e scritto dalla figlia di Sidney Lumet, Jenny. Cambiano gli ambienti e gli stili – matrimonio multietnico, in costume indù e con musiche da tutto il mondo, incluse le pseudo Oba Oba brasiliane - ma la sostanza è sempre quella. Tanto che ricorda altri film corali come “Un matrimonio” di Robert Altman o “Dopo il matrimonio” di Susanne Bier, per citarne un paio. Certo, Demme ha detto di aver tentato di girarlo come fosse un documentario – due dei suoi ultimi film lo erano, “The Agronomist” e “The Man from Plains” su Jimmy Carter -, e si vede, anzi sembra il making off di un filmino di matrimonio, ovviamente di ottima fattura. Non mancano le emozioni fino alle lacrime né la catarsi finale, perché le ‘rimpatriate’ in queste occasioni non solo fanno scoprire gli scheletri nell’armadio, ma scoperchiare le casse che tengono nascosti segreti e fantasmi, rancori e gelosie.

Kym (l’ex “Pretty Princess” Anne Hathaway, brava al suo primo ruolo tormentato), reduce di un istituto di disintossicazione e rieducazione, ritorna a casa per il matrimonio della sorella Rachel (Rosemarie Dewitt). Il padre superprotettivo con la prima scatena la gelosia della seconda, ma poi – ovviamente – arriva anche la madre (la rediviva Debra Winger) divorziata da anni…

“Entroterra” è un dramma autoriale, interessante e suggestivo visivamente, ma troppo lungo (2 ore e 20’), e per certi versi enigmatico. Infatti, alla storia vengono intercalate a modo di flash back frammenti di una discussione politica sulla realtà algerina, da parte di alcuni intellettuali progressisti. La storia è quella di un topografo, che conduce una vita quasi da recluso, e viene convinto dall’amico Lakhdar a lavorare in una regione dell’Algeria occidentale a un progetto abbandonato anni prima. Trova solo alcuni contadini, prima fuggiti dal territorio islamico, ed oggi tornati; qualche aiutante e la polizia che fa dei controlli severi, ma piuttosto burocratici. La sua esistenza verrà sconvolta dall’arrivo di una profuga africana…

Conclusa la Settimana della Critica con la presentazione dell’evento speciale “Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate”. Un documentario su uno strano e simpatico personaggio, quello del titolo, che ha sempre sognato di fare il guardiano del cimitero nella sua Puglia, a Bitonto. A 41 anni ci è riuscito, ma in un paesino dove per cinque mesi non è morto nessuno. La sua storia viene raccontata attraverso un azzeccato montaggio che li dà il tono da commedia all’italiana piena zeppa di humour nero ma solare e – nonostante sia ambientata soprattutto al cimitero – divertentissima. Ma nella sezione erano già passati il cinese “Huanggua – Cetriolo” di Zhou Yaowu, una docu-fiction – sui toni della commedia dolce-amara dagli spunti surreali - girata interamente in un quartiere di Pechino che segue vari personaggi, in lunghi piano sequenza e ci fa scoprire come anche lì regnino racket, corruzione e delinquenza giovanile.

Anche il francese “L’aprenti – L’apprendista” di Samuel Collardey è una sorta di docu-fiction su un adolescente che ha deciso, nonostante il parere della madre, di diventare perito agrario e che il suo apprendistato in una fattoria vecchio stile, cioè a gestione familiare. Anche qui i problemi psicologici e quelli pratici del lavoro si intrecciano e si confondono con sottile ironia.

Per le Giornate degli autori abbiamo visto l’argentino “Una semana solos – Una settimana da soli” di Celina Murgia, variazione sul tema di “La zona”, ambientato appunto in un condominio-quartiere residenziale esclusivo e supercontrollato. Un gruppo di adolescenti (fratelli, sorelle e cugini) vengono lasciati soli, sotto la vigilanza della domestica e delle guardie che fanno la ronda diurna e notturna senza lasciare entrare né uscire nessuno. Ma questi ragazzi, viziati e capricciosi hanno tutto, ma in realtà vivono nella solita “prigione dorata”, tanto che nonostante siano nei dintorni non vanno quasi mai nella capitale, Buenos Aires, e vengono portati e riportati da scuola da autisti-guardie del corpo. Naturale che finiscano per sfogare la loro insoddisfazione sullo estraneo appena arrivato, il coetaneo fratello della domestica e con un atto di gratuito vandalismo. Però per loro non cambierà nulla, o quasi, perché saranno i genitori a pagare i danni, probabilmente passati come “spese condominiali”. Un discreto dramma che evita la tragedia, e raccontato con tocco discreto. Ad "Orizzonti" è toccato al cinese “Women” (non donne perché non è inglese, ma “Noi”) di Huang Wenhai è un documentario che per la prima volta passa la parola a “l’altra Cina”, dando voce alla coscienza civile dei molti che lottano per un paese migliore. Anche ex membri del governo e del partito che affermano “Quando sono in gioco questioni di Stato non possiamo restare a guardare”. Certo, il film può annoiare o addirittura non interessare chi non voglia sapere niente sulla Nuova Cina, ma risulta molto illuminante per chi vuol sapere e non segue tre generazioni di attivisti – giovani, di mezza età ed anziani – sui siti internet (ancora aperti).

José de Arcangelo

giovedì 4 settembre 2008

Al Lido. Tutta la memoria di Agnès (Varda) e un ottimo "Pranzo di Ferragosto"

VENEZIA, 3 - Come l’anno scorso anche stavolta nelle sezioni parallele ci sono film italiani degni del concorso, in alcuni casi - ma non lo diciamo - più degni di quelli presentati nella competizione ufficiale. E’ il caso di “Pranzo di Ferragosto” di e con Gianni De Gregorio, prodotto da Matteo Garrone, e interpretato da quattro simpatiche ed arzille ‘vecchiette’. Una commedia dolce-amara, se vogliamo malinconica, ma piena zeppa di originalità e pervasa di vita vissuta. Quel quotidiano che se, al momento, ci sembra insopportabile poi lo ricordiamo con piacere perché ci ha fatto (ri)scoprire le piccole grandi “cose della vita” (come ben diceva Clade Sautet). Storia di un figlio maturo che si ritrova a dover badare all’anziana madre, ma non solo. Proprio alla vigilia di Ferragosto, l’amministratore del condominio gli chiede (impone) di ‘tenerle’ la madre per un giorno e poi si ripresenta anche con la vecchia zia, a cui si aggiunge un’altra ottuagenaria madre di un amico.

E, come la vita, il film ha i suoi momenti divertenti, la constatazione che la solitudine non è un fatto da sottovalutare, così come l’emergere di sentimenti ed emozioni. Il tutto raccontato con la leggerezza e la saggezza di un’esistenza rivalutata. Da oggi è già al cinema, così non lasciatevelo ‘scappare’, visto che i buoni film, d’autore e non, scompaiono sempre più presto dalla programmazione.

Fuori concorso, nella sezione ufficiale, è stato presentato un altro lungometraggio d’animazione – dopo quello del maestro Miyazaki -, ovvero “The Sky Crawlers” di Mamoru Oshii, non entusiasmante, soprattutto perché non ama il tradizionale (nel disegno) cartone giapponese. Anche perché l’argomento – nonostante esprima accenni pacifisti – parla di un altro possibile “oggi”, dove il mondo ha limato la guerra, raggiungendo finalmente la pace (fantascienza? Quasi). Ma questo stato prolungato di pace ha creato la richiesta di un nuovo tipo di conflitto: che si svolge altrove, si può vedere in tivù o seguire sui giornali, al fine di poter sentire un senso di realtà.

Compagnie militari private arruolano piloti da caccia affinché svolgano il loro servizio in un’infinita “guerra-spettacolo”. Inoltre, questi piloti – chiamati kildren, da kill e children -, sono dei bambini, innocenti nell’aspetto, che non raggiungono mai l’età adulta, vivendo in uno stato di eterna adolescenza. Naturale che loro vengano, dopo un po’, assaliti da gravi problemi esistenziali, da tormenti che li spingono verso la morte, il suicidio…

Però un po’ per la durata, un po’ per lo stile tradizionale del disegno, occidentalizzante come negli anni Ottanta, la pellicola non coinvolge più di tanto. Ottimi invece le battaglie aeree.

Sempre nella sezione ufficiale, ma in concorso, è stato proiettato “Paper Soldier – Soldato di carta” di Aleksei German jr. sul primo viaggio spaziale di un uomo nell’Unione Sovietica (1961), attraverso le vicende dell’ufficiale medico Daniel Pokrovsky che si trova in servizio presso la prima compagnia sovietica di cosmonauti, e respinto come astronauta. Non è una risposta all’americano “Apollo 13”, ma bensì una riflessione sulle speranze e i dubbi di una società nuova, che abbia conto dell’uomo e non della massa, sugli ideali che vengono - prima o poi - delusi nella pratica, cioè nella vita quotidiana. Infatti è la cronaca dell’ennesima delusione e del crollo definitivo dell’ideologia e dell’altruismo, proprio quando si raggiunge il successo nella gara spaziale con gli americani. Non a caso il protagonista non ce la farà nemmeno a vedere il lancio del missile.

“La mia intenzione – dice il figlio d’arte German – era di ricreare quel momento di ‘crescita’ dell’Urss agli inizi degli anni Sessanta. A quei tempi il paese stava tentando di lasciarsi alle spalle l’eredità di Stalin e si proponeva di raggiungere grandiosi e romantici obiettivi. Questo film parla di come sia facile distruggere un equilibrio umano fragile e delicato. Parla del potere delle idee e di come queste, anche se giuste, possano essere motivo di morte e sofferenza. E’ un film sugli aspetti negativi dei grandi avvenimenti. Il dubbio più grande di Daniel è capire se sia legittimo mettere a repentaglio una vita umana per la superiorità della patria”.

Altro nome illustre fuori concorso, quello di Agnès Varda che ha presentato l’autobiografico “Les Plages d’Agnès”, un viaggio nella sua memoria – non solo cinematografica – per ricostruire un’esistenza di donna e di artista, sempre entusiasta e appassionata, nonostante i colpi che, come ognuno, ha avuto dalla vita. Una serie di ricordi ricostruiti o recuperati attraverso filmati, fotografie, ritorni, interviste a vecchi amici e compaesani, spezzoni dei suoi film e scene girate appositamente che ci offrono oltre cinquant’anni di storia (non solo) francese e soprattutto del cinema, e ancora (dopo “Garage Demy”) sul rimpianto marito Jacques Demy e sulla “nouvelle vague”, di cui è la rappresentante femminile. E domani, finalmente vedremo la nuova, dura e cruda, fatica di Kathryn Bigelow, da oltre sei anni lontana dal set.

José de Arcangelo

mercoledì 3 settembre 2008

Al Lido, grande ritorno del cinema africano con "Teza" di Haile Gerima

VENEZIA, 3 - Torna in concorso, dopo qualche anno, il cinema africano con “Teza” di Haile Gerima, una coproduzione fra Etiopia, Germania e Francia. Oltre trent’anni di storia etiope attraverso il ritratto di un uomo, Anberber che ritorna al suo paese durante il repressivo regime marxista di Haile Mariam Mengistu, dopo aver passato più di quindici anni in Germania, dove si è laureato in medicina. Ma Anberber è stato vittima di una sorta di amnesia, di shock emozionale: ha perso una gamba ed è tormentato da terribili incubi. Proprio allora raggiunge il villaggio della sua infanzia, l’anziana madre che lo aspetta da anni senza avere più notizie da lui. Pian piano, l’uomo prenderà coscienza del proprio disallineamento e della propria impotenza di fronte alla dissoluzione dei valori umani e sociali del suo popolo. Attraverso i ricordi d’infanzia ma anche tramite gli episodi che, ovviamente rimossi, di efferata violenza di cui è stato vittima lui e tutto il popolo.

Quasi una saga familiar-politica, forse troppo lunga (2 ore e 20’), che però coinvolge e commuove, e lo fa senza retorica né falso moralismo, ci riporta negli anni Settanta della contestazione e dell’impegno sia in Africa sia in Germania: le discussioni, le lotte, il razzismo, la repressione, i rapporti nelle coppie miste.

“Anberber – ha detto il regista – rappresenta un individuo invischiato nella linea cronologica della storia. Per fuggire dal mondo si ritira nella terra della sua infanzia e questo diventerà lo scopo finale della sua esistenza. Immediatamente, però, si trova di fronte ai problemi socio-economici del suo paese d’origine, senza trovare scampo”.

E poi ha concluso: “L’idea di identità e di liberazione rappresenta forse per me e per la mia visione di cinema indipendente il vero obiettivo. Raccontare la storia di qualcuno significa scrivere il nome di qualcuno sulla carta della Storia e farlo onorando le battaglie dei propri antenati è fondamentale per assicurare alle generazioni future documenti che possono permettergli di elaborare una strategia di salvezza. La storia, la cultura e il benessere socio-economico di tutti i popoli di origine africana sono la mia prima preoccupazione, ma la più grande motivazione come regista è preservare la loro umanità”. Infatti non mancano gli accenni al colonialismo italiano, tramite l'autocelebrazione fatta da Mussolini con un monumento rimasto come prova e testimone in mezzo al deserto.

Deludente oltre ogni attesa anche l’altro film della competizione “Nuit de Chien” di Werner Schroeter, dal romanzo di Juan Carlos Onetti “Per questa notte” (Para esta noche), già portato sul grande schermo negli anni ’70, proprio in Italia. Bella cornice (fotografia di Thomas Plenert, costumi di Isabel Branco), grande cast franco-portoghese (come la coproduzione), ma assenza quasi completa dell’inquietante surrealismo del libro. Esterno notte: il quarantenne Ossorio arriva esausto alla stazione di Santa Maria con una folla di profughi e di soldati vinti. E’ tornato in città per incontrare la donna amata, ma scopre che lei è scomparsa e tutto è cambiato: la milizia armata terrorizza il paese, fazioni opposte si scontrano. E, in quella notte decisiva, ognuno cerca di salvare la propria pelle, inutilmente.

Peccato perché dall’autore di “Nel regno di Napoli” (1978) ci aspettavamo ben altro, perché stavolta personaggi e situazioni rischiano di cadere nel ridicolo, la sperimentazione diventa meccanica e la rappresentazione fredda e distaccata, troppo.

“Attraverso il mio lavoro cinematografico – confessa Schroeter – sono alla ricerca delle forze vitali dell’Amore, della Vita e della Morte, forze che cerco di esprimere usando la fantasmagoria e le forme utopiche. Sono rimasto colpito dal lavoro di Onetti; in esso ho potuto trovare idee simili alle mie, per quanto le sue siano filtrate attraverso l’intollerabile esperienza della guerra e del temperamento sciovinista maschile tipico della cultura del Sur argentino. Onetti ci spinge a porci una serie di domande: che cos’è mai questa creatura che chiamiamo essere umano? Da dove traggono origine l’energia, il senso della fatalità e soprattutto la Sehnsucht, il desiderio ardente di malinconia, del genere umano?”. Però stavolta il regista tedesco-francese non ci è riuscito.

La Settimana della Critica ha presentato ieri “Kabuli Kid” di Barmak Akram, una docu-fiction di grande impatto umano ed emozionale perché parla di bambini abbandonati, situazione sempre più allarmante non solo nei paesi in guerra o che le hanno subite fino ad ieri. Infatti, il film è ambientato a Kabul, dove un gentile ed onesto tassista fa salire una donna ‘nascosta’ dal burka con un neonato in braccio, solo che scendendo la sconosciuta abbandona il bebè in macchina. Comincia così per l’uomo – padre di quattro figlie – un’odissea burocratica che prima lo costringerà ad occuparsi del piccolo per almeno due giorni, rischiando di venire accusato lui stesso di abbandono di minore perché non può provare che non sia suo; poi, con l’aiuto di un’associazione di aiuti umanitari internazionali e attraverso Radio Kabul, cerca la madre naturale del bimbo. Ma, come si offrono 100 dollari di ricompensa, se ne presentano quattro…

Un buon film che non annoia né angoscia, perché girato con la leggerezza – nonostante l’argomento – della vita quotidiana, dei piccoli grandi drammi che ogni giorno ci toccano e ci commuovono, ma che trovano soluzione soltanto quando riusciamo a vincere l’indifferenza e l’ipocrisia attraverso la solidarietà e l’impegno umanitario.

Un altro film italiano per le “Giornate degli autori”, il divertente “Un altro pianeta” di Stefano Tummolini che, tramite una domenica al mare, anzi a Castelporziano, ci offre un ritratto di gruppo in una spiaggia alla ricerca di un vero rapporto, gay o etero che sia. Salvatore, muscoli in bella vista e posa da duro, osserva l’orizzonte di dune e, dopo uno sbrigativo ‘rapporto’ gay, si sdraia sul telo. Ma arriva un bizzarro gruppo, capeggiato dalla vivace Stella, e composto dal prof Raffaele, dalla matura Eva e dall’introversa Daniela, a cui si aggiunge il bel Cristiano, attore fiorentino, che colpisce particolarmente Salvatore.

Incontri, scontri, litigi; amicizie che nascono e rapporti che finiscono, ma anche nuove, inaspettate, relazioni. Una commedia garbata che con pochi mezzi e un po’ di idee riesce a intrattenerci tra sorrisi e passioni.

José de Arcangelo

martedì 2 settembre 2008

Venezia 65. Ultime urla della foresta amazzonica nel film di Marco Bechis

VENEZIA, 2 - L’America Latina in primo piano alla 65a. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Rimasti fuori all’anteprima stampa di “BirdWatchers – La terra degli uomini rossi” di Marco Bechis, in programma ieri alle 13.00 (dopo la conferenza stampa!) siamo riusciti a “recuperarlo” oggi di prima mattina (8.30), rinunciando alla cronaca di ieri per ovvie ragioni di tempo. In questo modo possiamo parlare dei diversi film sudamericani o girati nel continente presentati in entrambe le giornate. Il film di Bechis – da oggi anche nelle sale italiane - racconta la vicenda degli indios (i veri protagonisti della pellicola) nel Brasile contemporaneo, cioè i sopravvissuti a un genocidio che non ha mai fine e che parallelamente “mangia” la foresta amazzonica. Vittime di una contaminazione (inquinamento) che non è solo ambientale, ma anche dei rapporti tra bianchi e indigeni, tra ricchissimi e poverissimi; della cosiddetta ‘civiltà’ che tiene più agli interessi economici che alla natura e all’uomo stesso. Tra ribellione e rassegnazione, emergono le ultime urla della foresta, rasa a suolo chilometro dopo chilometro per dare spazio ai pascoli che offrono la materia prima alle multinazionali alimentari (leggi McDonald e co.). Un problema che si è via via più aggravato dagli anni Ottanta ad oggi.

Il film parla di tutto questo attraverso la vicenda di un gruppo di indios guaranì, costretti nelle riserve, un tempo legittimi abitanti delle terre che oggi possiedono i fazenderos, campi rubati al Mato Grosso per coltivazioni transgeniche e allevamenti di bovini.

Gli indios conducono una vita miserevole senza prospettive tanto che i giovani spesso si suicidano. Ed è proprio uno di questi suicidi che trasforma il loro disagio in ribellione. Gli indigeni si accampano nella terra dove oggi ci sono i campi di Moreira, ma che è quella dove sono nati e cresciuti, dove sono sepolti i loro antenati. Due mondi contrapposti che prima si incontrano e poi si scontrano, ma il conflitto sembra non aver più una soluzione, soprattutto per gli indios. E il tentativo di giovani di avvicinarsi, tra curiosità e diffidenza, finisce per incrinarsi definitivamente.

Sempre dal Brasile e per la sezione “Orizzonti” è approdato il nuovo film di Julio Bressane, scritto con Rosa Dias, “A erva do rato” (L’erba del topo), adattamento di due racconti di Machado de Assis “Um esqueleto” (Uno scheletro) e “A causa secreta” (La causa segreta). L’opera è comunque sempre nello stile rarefatto e simbolico dell’autore brasiliano, che predilige la sperimentazione e la ricerca nel linguaggio e nella narrazione. Un vero film d’autore – l’anno scorso proprio qui abbiamo visto il suo “Cleopatra” - che racconta l’incontro tra due persone, Lui e Lei, in un cimitero. A un certo punto, inciampando, lei cade e lui la soccorre. Lei è rimasta sola al mondo, lui si offre di prendersene cura per sempre. Lui racconta a lei delle storie che lei trascrive instancabilmente…

Sempre per “Orizzonti” gli altri due film arrivati dal Messico. “Voy a explotar” (t.l. Sto per esplodere) di Gerardo Naranjo è una storia di finzione che però cerca di dipingere il ritratto di una coppia di adolescenti borghesi, ribelli senza causa né prospettive, che scelgono la fuga disperata e l’amore inconsciamente nichilista. Girata con stile e ritmo frenetico ma efficaci che mettono in risalto personaggi e situazioni, quest’opera seconda coinvolge e conquista, non solo i giovanissimi.

Guanajuato, nella provincia messicana: Roman, quindicenne dell’alta borghesia con fantasie violente, e Maru, introversa cresciuta in una famiglia piccolo borghese, decidono di scappare insieme scatenando il panico nella famiglia di lui (il padre è deputato) e paura in quella di lei.

“Due ragazzini disadattati – dice il regista – si innamorano e scappano, in un gesto di sfida, di ribellione ingenua, credendolo atto puramente romantico, privo di conseguenze. Volevo distanziarmi dallo stile naturalistico per adottare una grammatica cinematografica più libera, dando vita a un saggio, un diario (della ragazza ndr.) di idee con musica, parole scritte e dialoghi interiori, usando il montaggio come flusso di pensieri”.

“Los herederos” (Gli eredi) di Eugenio Polgovsky è invece un documentario sulla vita quotidiani dei bambini della campagna, che significa lavorare fin da piccolissimi nella raccolta di pomodori e ortaggi, della ricerca della legna e dell’acqua, della semina, del cibo per gli animali, ma anche nella fabbricazione dei mattoni oppure, se hanno talento artistico, nella realizzazioni di piccolo sculture in legno dipinto. Quindi, un viaggio nella loro quotidiana lotta per la sopravvivenza, così simile a quella dei loro antenati. Una generazione dopo l’altra imprigionata in un circolo infinito di povertà senza scampo. Un montaggio in parallelo delle diverse “attività” dei ragazzini dà alla pellicola un ritmo vivace, così come la mancanza del commento evita di condizionare o annoiare lo spettatore.

Domani, tempo permettendo, parleremo invece dell’afgano “Kabuli Kid” e dell’africano “Teza”, entrambi importanti.

José de Arcangelo

lunedì 1 settembre 2008

Al Lido, delude anche Avati, ma conquista Amir Naderi


VENEZIA, 31 - Oggi è stato il turno di Pupi Avati nel concorso con la sua ultima fatica, “Il papà di Giovanna” con Silvio Orlando, Francesca Neri, Ezio Greggio e la giovane ormai più che in ascesa Alba Rohrwacher. Ancora un dramma del passato, non più autobiografica ma comunque ambientata a Bologna tra il 1927 e il 1953. Quindi, sullo sfondo l’Italia fascista: la superprotetta figlia unica adolescente di Michele Casali, Giovanna ha ucciso la sua migliore amica. Nessuno si sa spiegare il perché, e soprattutto il padre che l’ha sempre spinta e sostenuta in tutto. La ragazza viene dichiarata insana di mente e rinchiusa in un ospedale psichiatrico, ma il padre non l’abbandonerà mai, nemmeno quando tutti sembrano ripudiarla, persino la stessa madre, Delia. E tanto meno quando ne uscirà nell’inverno del 1953. Testimone dei terribili eventi è Sergio, ispettore di polizia, vicino di casa nonché amico intimo di Michele, da sempre segretamente innamorato di Delia.

Un melodramma sobrio e garbato a cui il regista ci ha abituato, anche se stavolta è più tragico e cupo, amaro e riflessivo, sul rapporto padre-figlia. Peccato però alcuni personaggi troppo “urlati”, come quello della madre della vittima, che un po’ stonano, così come non vengono fuori le passioni represse e i sentimenti morbosi, appena accennati. Nonostante siano belle, risultano un po’ ingombranti le musiche di Riz Ortolani.

“Da qualche tempo – ha dichiarato Avati – ho messo in atto una riflessione sulla figura paterna avvertendo che nel corso degli ultimi anni si è andata via via sempre più sbiadendo. Già con ‘La cena per farli conoscero’ avevo anticipato questa mia propensione, questa mia curiosità, facendo di un padre distratto nei riguardi di tre figlie (avute con altrettante madri diverse), il protagonista di quella storia. Oggi ho incentrato la mia attenzione su quella ‘corsia preferenziale’ che intercorre fra una figlia e il di lei padre. Rapporto strettissimo, di grande complicità, che ho sperimentato sulla mia pelle nella mia esperienza di padre”.

Nella stessa competizione il veterano maestro Hayao Miyazaki con il suo nuovo lungometraggio d’animazione “Gake no ue no Ponyo – Ponyo on the Cliff by the Sea”. Una favola ecologica con cui l’autore giapponese continua la sua geniale tradizione nel disegno classico ma personalissimo, conquistando non solo i ragazzi a cui è dedicato il film, ma anche quelli che lo sono stati due o tre generazioni fa e oltre.

Storia del piccolo Sosuke che, un giorno, scopre una pesciolina rossa di nome Ponyo con la testa incastrata in un vasetto di marmellata. Il bambino la salva e la ripone in un secchio di plastica verde. Ponyo e Sosuke sono attratti l’uno dall’altra, tanto che la pesciolina desidera ardentemente diventare una bambina e… ci riesce. Ma il padre di lei, vecchio stregone del mare…

Sempre in concorso, il sorprendente “Vegas: Based on a True Story” di Amir Naderi. Raccontando la storia di un’ossessione, il regista iraniano trasferitosi da anni in America costruisce una metafora sul sogno americano attraverso una famiglia della middle class che vive ai margini della città dei sogni (giochi) per eccellenza Las Vegas.

L’operaio Eddie Parker e la moglie Tracy, cameriera, conducono con il figlio dodicenne una vita tranquilla. Eddie ha il vizio del gioco ma non ha mai vinto cifre importanti e cerca di uscirne definitivamente, mentre Tracy, che si prende cura del piccolo giardino e dei suoi pomodori, fa di tutto per tenere unita la fragile famiglia. Però un giorno si presenta uno sconosciuto che sostiene di essere cresciuto in quella casa, poi fa una allettante offerta per comprarla e, infine, confessa che nel loro giardino è stato sotterrato un milione di dollari, frutto di una rapina. Tracy difende prima la sua casa, poi il suo giardino, infine cede per una sola ‘buca”, ma a quel punto la ricerca diventa una vera e propria ossessione, soprattutto per Eddie che non lascerà mai più perdere, neanche quando il fatto sembra una beffa, non solo del destino.

Un personaggio che sembra uscito dal capolavoro di Eric von Stroheim, “Greed”, ma nell’America di oggi, quando anche il sogno americano è diventato un reality-show e dove le uniche ‘luci’ sono quelle finte di Las Vegas (o di Hollywood). E gli argomenti sono tanti: i soldi e la famiglia, il gioco la terra e la casa. La casa a cui Tracy cerca di restare ancorata perché rappresenta la serenità, un rifugio ma anche il collante dei rapporti. Una volta distrutta sarà la fine della loro claudicante armonia.

Un altro film che ci viene in mente a proposito (di soldi) è lo spietato “Soldi sporchi” di Sam Raimi che anche li, anche se la vicenda è rovesciata, i soldi vengono trovati prima ma diventano causa principale della fine dei rapporti e della morte delle persone coinvolte, perché logorano ogni cosa e provocano una sorta di guerra tra tutti i personaggi coinvolti.

“Con questo film – afferma Naderi – volevo fondere il mio stile esperienziale e sperimentale con un cinema narrativo più tradizionale. Come nella maggior parte dei miei lavori, l’esperienza di fare delle riprese lunghe e intense del vivere la vita nei deserti intorno a Las Vegas è stata, per tutte le persone coinvolte, parte fondamentale dello sviluppo del film; attenersi al filo della trama è stato tuttavia, altrettanto importante: è un film sui soldi, sull’ossessione e sulla terra. Volevo rifarmi a un cinema americano di altri tempi, il cinema delle persone che mi hanno influenzato da giovane e che mi sono tuttora vicine. Ora, dopo l’esperienza di questo film, penso di essere pronto a girare il film che aspetto da anni di girare: un film sulla luna. Perché no? E… stop!”.

Uno dei pochi, se non il solo – almeno tra quelli visti finora -, che meriterebbe il Leone d’oro, anche perché l’autore – come di consueto – l’ha girato con pochi mezzi, senza divi ma con grande lucidità e passione..

Nella sezione “Orizzonti” abbiamo visto il documentario “In Paraguay” di Ross McElwee che, attraverso l’odissea burocratica – storia vera del regista – per l’adozione di una bambina, ci porta alla scoperta del Paraguay, uno dei paesi più piccoli del Sudamerica con l’ambasciata americana più grande del continente. La differenza abissale tra la maggioranza della popolazione poverissima e la minoranza ricchissima, l’indipendenza, le dittature – la più longeva di tutte, quella di Stroessner, sostenuta proprio dagli Usa -, il paesaggio, le abitudini, la miseria e, appunto, la burocrazia.

Per la Settimana della Critica, un film turco: “Two Lines” di Selim Evci, l’inedito e particolare rapporto di una coppia moderna, metropolitana, tra amore e sesso, tra pubblico e privato, tra paura e ossessione, e - per tre quarti di film - commedia esistenziale on the road.

José de Arcangelo